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  Directory : Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1
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  • The Project Gutenberg EBook of Il Comento alla Divina Commedia, e gli
  • altri scritti intorno a Dante, vol. 1, by Giovanni Boccaccio
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  • Title: Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1
  • Author: Giovanni Boccaccio
  • Editor: Domenico Guerri
  • Release Date: May 12, 2007 [EBook #21424]
  • Language: Italian
  • *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA ***
  • Produced by Claudio Paganelli, Carlo Traverso and the
  • Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net
  • (Images generously made available by Editore Laterza and
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  • http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)
  • SCRITTORI D'ITALIA
  • G. BOCCACCIO
  • OPERE VOLGARI
  • XII
  • GIOVANNI BOCCACCIO
  • IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA
  • E GLI ALTRI SCRITTI INTORNO A DANTE
  • A CURA DI
  • DOMENICO GUERRI
  • VOLUME PRIMO
  • BARI
  • GIUS. LATERZA & FIGLI
  • TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
  • 1918
  • PROPRIETÁ LETTERARIA
  • GIUGNO MCMXVIII--49326
  • A
  • PIO RAJNA E GIROLAMO VITELLI
  • I
  • VITA DI DANTE
  • I
  • PROPOSIZIONE
  • Solone, il cui petto un umano tempio di divina sapienzia fu reputato,
  • e le cui sacratissime leggi sono ancora alli presenti uomini chiara
  • testimonianza dell'antica giustizia, era, secondo che dicono alcuni,
  • spesse volte usato di dire ogni republica, sí come noi, andare e stare
  • sopra due piedi; de' quali, con matura gravitá, affermava essere il
  • destro il non lasciare alcun difetto commesso impunito, e il sinistro
  • ogni ben fatto remunerare; aggiugnendo che, qualunque delle due cose
  • giá dette per vizio o per nigligenzia si sottraeva, o meno che bene si
  • servava, senza niun dubbio quella republica, che 'l faceva, convenire
  • andare sciancata: e se per isciagura si peccasse in amendue, quasi
  • certissimo avea, quella non potere stare in alcun modo.
  • Mossi adunque piú cosí egregi come antichi popoli da questa laudevole
  • sentenzia e apertissimamente vera, alcuna volta di deitá, altra di
  • marmorea statua, e sovente di celebre sepultura, e tal fiata di
  • triunfale arco, e quando di laurea corona secondo i meriti precedenti
  • onoravano i valorosi: le pene, per opposito, a' colpevoli date non
  • curo di raccontare. Per li quali onori e purgazioni la assiria, la
  • macedonica, la greca e ultimamente la romana republica aumentate, con
  • l'opere le fini della terra, e con la fama toccaron le stelle. Le
  • vestigie de' quali in cosí alti esempli, non solamente da' successori
  • presenti, e massimamente da' miei fiorentini, sono male seguite, ma in
  • tanto s'è disviato da esse, che ogni premio di virtú possiede
  • l'ambizione; per che, sí come e io e ciascun altro che a ciò con
  • occhio ragionevole vuole guardare, non senza grandissima afflizione
  • d'animo possiamo vedere li malvagi e perversi uomini a' luoghi eccelsi
  • e a' sommi ofici e guiderdoni elevare, e li buoni scacciare, deprimere
  • e abbassare. Alle quali cose qual fine serbi il giudicio di Dio,
  • coloro il veggiano che il timone governano di questa nave: percioché
  • noi, piú bassa turba, siamo trasportati dal fiotto, della fortuna, ma
  • non della colpa partecipi. E, comeché con infinite ingratitudini e
  • dissolute perdonanze apparenti si potessero le predette cose
  • verificare, per meno scoprire li nostri difetti e per pervenire al mio
  • principale intento, una sola mi fia assai avere raccontata (né questa
  • fia poco o picciola), ricordando l'esilio del chiarissimo uomo Dante
  • Alighieri. Il quale, antico cittadino né d'oscuri parenti nato, quanto
  • per vertú e per scienzia e per buone operazioni meritasse, assai il
  • mostrano e mostreranno le cose che da lui fatte appaiono: le quali, se
  • in una republica giusta fossero state operate, niuno dubbio ci è che
  • esse non gli avessero altissimi meriti apparecchiati.
  • Oh scellerato pensiero, oh disonesta opera, oh miserabile esempio e di
  • futura ruina manifesto argomento! In luogo di quegli, ingiusta e
  • furiosa dannazione, perpetuo sbandimento, alienazione de' paterni
  • beni, e, se fare si fosse potuto, maculazione della gloriosissima
  • fama, con false colpe gli fûr donate. Delle quali cose le recenti orme
  • della sua fuga e l'ossa nelle altrui terre sepulte e la sparta prole
  • per l'altrui case, alquante ancora ne fanno chiare. Se a tutte l'altre
  • iniquitá fiorentine fosse possibile il nascondersi agli occhi di Dio,
  • che veggono tutto, non dovrebbe quest'una bastare a provocare sopra sé
  • la sua ira? Certo sí. Chi in contrario sia esaltato, giudico che sia
  • onesto il tacere. Sí che, bene ragguardando, non solamente è il
  • presente mondo del sentiero uscito del primo, del quale di sopra
  • toccai, ma ha del tutto nel contrario vòlti i piedi. Per che assai
  • manifesto appare che, se noi e gli altri che in simile modo vivono,
  • contro la sopra toccata sentenzia di Solone, sanza cadere stiamo in
  • piede, niuna altra cosa essere di ciò cagione, se non che o per lunga
  • usanza la natura delle cose è mutata, come sovente veggiamo avvenire,
  • o è speziale miracolo, nel quale, per li meriti d'alcuno nostro
  • passato, Dio, contra ogni umano avvedimento ne sostiene, o è la sua
  • pazienzia, la quale forse il nostro riconoscimento attende; il quale
  • se a lungo andare non seguirá, niuno dubiti che la sua ira, la quale
  • con lento passo procede alla vendetta, non ci serbi tanto piú grave
  • tormento, che appieno supplisca la sua tarditá. Ma, percioché, come
  • che impunite ci paiono le mal fatte cose, quelle non solamente
  • dobbiamo fuggire, ma ancora, bene operando, d'amendarle ingegnarci;
  • conoscendo io me essere di quella medesima cittá, avvegnaché picciola
  • parte, della quale, considerati li meriti, la nobiltá e la vertú,
  • Dante Alighieri fu grandissima, e per questo, sí come ciascun altro
  • cittadino, a' suoi onori sia in solido obbligato; comeché io a tanta
  • cosa non sia sofficiente, nondimeno secondo la mia picciola facultá,
  • quello ch'essa dovea verso lui magnificamente fare, non avendolo
  • fatto, m'ingegnerò di far io; non con istatua o con egregia sepoltura,
  • delle quali è oggi appo noi spenta l'usanza, né basterebbono a ciò le
  • mie forze, ma con lettere povere a tanta impresa. Di queste ho, e di
  • queste darò, accioché igualmente, e in tutto e in parte, non si possa
  • dire fra le nazioni strane, verso cotanto poeta la sua patria essere
  • stata ingrata. E scriverò in istilo assai umile e leggiero, peroché
  • piú alto nol mi presta lo 'ngegno, e nel nostro fiorentino idioma,
  • accioché da quello, ch'egli usò nella maggior parte delle sue opere,
  • non discordi, quelle cose le quali esso di sé onestamente tacette:
  • cioè la nobiltá della sua origine, la vita, gli studi, i costumi;
  • raccogliendo appresso in uno l'opere da lui fatte, nelle quali esso sé
  • sí chiaro ha renduto a' futuri, che forse non meno tenebre che
  • splendore gli daranno le lettere mie, come che ciò non sia di mio
  • intendimento né di volere; contento sempre, e in questo e in
  • ciascun'altra cosa, da ciascun piú savio, lá dove io difettuosamente
  • parlassi, essere corretto. Il che accioché non avvenga, umilemente
  • priego Colui che lui trasse per sí alta scala a vedersi, come
  • sappiamo, che al presente aiuti e guidi lo 'ngegno mio e la debole
  • mano.
  • II
  • PATRIA E MAGGIORI DI DANTE
  • Fiorenza, intra l'altre cittá italiane piú nobile, secondo che
  • l'antiche istorie e la comune opinione de' presenti pare che vogliano,
  • ebbe inizio da' romani; la quale in processo di tempo aumentata, e di
  • popolo e di chiari uomini piena, non solamente cittá, ma potente
  • cominciò a ciascun circunstante ad apparere. Ma qual si fosse, o
  • contraria fortuna o avverso cielo o li loro meriti, agli alti inizi di
  • mutamento cagione, ci è incerto; ma certissimo abbiamo, essa non dopo
  • molti secoli da Attila, crudelissimo re de' vandali e generale
  • guastatore quasi di tutta Italia, uccisi prima e dispersi tutti o la
  • maggior parte di quegli cittadini, che ['n] quella erano o per nobiltá
  • di sangue o per qualunque altro stato d'alcuna fama, in cenere la
  • ridusse e in ruine: e in cotale maniera oltre al trecentesimo anno si
  • crede che dimorasse. Dopo il qual termine, essendo non senza cagione
  • di Grecia il romano imperio in Gallia translatato, e alla imperiale
  • altezza elevato Carlo magno, allora clementissimo re de' franceschi;
  • piú fatiche passate, credo da divino spirito mosso, alla
  • reedificazione della desolata cittá lo 'mperiale animo dirizzò; e da
  • quegli medesimi che prima conditori n'erano stati, come che in picciol
  • cerchio di mura la riducesse, in quanto poté, simile a Roma la fe'
  • reedificare e abitare; raccogliendovi nondimeno dentro quelle poche
  • reliquie, che si trovarono de' discendenti degli antichi scacciati.
  • Ma intra gli altri novelli abitatori, forse ordinatore della
  • reedificazione, partitore delle abitazioni e delle strade, e datore al
  • nuovo popolo delle leggi opportune, secondo che testimonia la fama, vi
  • venne da Roma un nobilissimo giovane per ischiatta de' Frangiapani, e
  • nominato da tutti Eliseo; il quale per avventura, poi ch'ebbe la
  • principale cosa, per la quale venuto v'era, fornita, o dall'amore
  • della cittá nuovamente da lui ordinata, o dal piacere del sito, al
  • quale forse vide nel futuro dovere essere il cielo favorevole, o da
  • altra cagione che si fosse, tratto, in quella divenne perpetuo
  • cittadino, e dietro a sé di figliuoli e di discendenti lasciò non
  • picciola né poco laudevole schiatta: li quali, l'antico sopranome de'
  • loro maggiori abbandonato, per sopranome presero il nome di colui che
  • quivi loro aveva dato cominciamento, e tutti insieme si chiamâr gli
  • Elisei. De' quali di tempo in tempo, e d'uno in altro discendendo, tra
  • gli altri nacque e visse uno cavaliere per arme e per senno
  • ragguardevole e valoroso, il cui nome fu Cacciaguida; al quale nella
  • sua giovanezza fu data da' suo' maggior per isposa una donzella nata
  • degli Aldighieri di Ferrara, cosí per bellezza e per costumi, come per
  • nobiltá di sangue pregiata, con la quale piú anni visse, e di lei
  • generò piú figliuoli. E comeché gli altri nominati si fossero, in uno,
  • sí come le donne sogliono esser vaghe di fare, le piacque di rinnovare
  • il nome de' suoi passati, e nominollo Aldighieri; comeché il vocabolo
  • poi, per sottrazione di questa lettera «d» corrotto, rimanesse
  • Alighieri. Il valore di costui fu cagione a quegli che discesero di
  • lui, di lasciare il titolo degli Elisei, e di cognominarsi degli
  • Alighieri; il che ancora dura infino a questo giorno. Del quale,
  • comeché alquanti figliuoli e nepoti e de' nepoti figliuoli
  • discendessero, regnante Federico secondo imperadore, uno ne nacque, il
  • cui nome fu Alighieri, il quale piú per la futura prole che per sé
  • doveva esser chiaro; la cui donna gravida, non guari lontana al tempo
  • del partorire, per sogno vide quale doveva essere il frutto del ventre
  • suo; comeché ciò non fosse allora da lei conosciuto né da altrui, ed
  • oggi, per lo effetto seguíto, sia manifestissimo a tutti.
  • Pareva alla gentil donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo
  • alloro, sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, e
  • quivi si sentia partorire un figliuolo, il quale in brevissimo tempo,
  • nutricandosi solo dell'orbache, le quali dell'alloro cadevano, e
  • dell'onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pastore, e
  • s'ingegnasse a suo potere d'avere delle fronde dell'albero, il cui
  • frutto l'avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere,
  • e nel rilevarsi non uomo piú, ma uno paone il vedea divenuto. Della
  • qual cosa tanta ammirazione le giunse, che ruppe il sonno; né guari di
  • tempo passò che il termine debito al suo parto venne, e partorí uno
  • figliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui per nome
  • chiamaron Dante: e meritamente, percioché ottimamente, sí come si
  • vedrá procedendo, seguí al nome l'effetto.
  • Questi fu quel Dante, del quale è il presente sermone; questi fu quel
  • Dante, che a' nostri seculi fu conceduto di speziale grazia da Dio;
  • questi fu quel Dante, il qual primo doveva al ritorno delle muse,
  • sbandite d'Italia, aprir la via. Per costui la chiarezza del
  • fiorentino idioma è dimostrata; per costui ogni bellezza di volgar
  • parlare sotto debiti numeri è regolata; per costui la morta poesí
  • meritamente si può dir suscitata: le quali cose, debitamente guardate,
  • lui niuno altro nome che Dante poter degnamente avere avuto
  • dimostreranno.
  • III
  • SUOI STUDI
  • Nacque questo singulare splendore italico nella nostra cittá, vacante
  • il romano imperio per la morte di Federigo giá detto, negli anni della
  • salutifera incarnazione del Re dell'universo MCCLXV, sedente Urbano
  • papa quarto nella cattedra di san Piero, ricevuto nella paterna casa
  • da assai lieta fortuna: lieta, dico, secondo la qualitá del mondo che
  • allora correa. Ma, quale che ella si fosse, lasciando stare il
  • ragionare della sua infanzia, nella quale assai segni apparirono della
  • futura gloria del suo ingegno, dico che dal principio della sua
  • puerizia, avendo giá li primi elementi delle lettere impresi, non,
  • secondo il costume de' nobili odierni, si diede alle fanciullesche
  • lascivie e agli ozi, nel grembo della madre impigrendo, ma nella
  • propia patria tutta la sua puerizia con istudio continuo diede alle
  • liberali arti, e in quelle mirabilmente divenne esperto. E crescendo
  • insieme con gli anni l'animo e lo 'ngegno, non a' lucrativi studi,
  • alli quali generalmente oggi corre ciascuno, si dispose, ma da una
  • laudevole vaghezza di perpetua fama [tratto], sprezzando le
  • transitorie ricchezze, liberamente si diede a volere aver piena
  • notizia delle fizioni poetiche e dell'artificioso dimostramento di
  • quelle. Nel quale esercizio familiarissimo divenne di Virgilio,
  • d'Orazio, d'Ovidio, di Stazio e di ciascun altro poeta famoso; non
  • solamente avendo caro il conoscergli, ma ancora, altamente cantando,
  • s'ingegnò d'imitarli, come le sue opere mostrano, delle quali appresso
  • a suo tempo favelleremo. E, avvedendosi le poetiche opere non essere
  • vane o semplici favole o maraviglie, come molti stolti estimano, ma
  • sotto sé dolcissimi frutti di veritá istoriografe o filosofiche avere
  • nascosti; per la quale cosa pienamente, sanza le istorie e la morale e
  • naturale filosofia, le poetiche intenzioni avere non si potevano
  • intere; partendo i tempi debitamente, le istorie da sé, e la filosofia
  • sotto diversi dottori s'argomentò, non sanza lungo studio e affanno,
  • d'intendere. E, preso dalla dolcezza del conoscere il vero delle cose
  • racchiuse dal cielo, niuna altra piú cara che questa trovandone in
  • questa vita, lasciando del tutto ogni altra temporale sollecitudine,
  • tutto a questa sola si diede. E, accioché niuna parte di filosofia non
  • veduta da lui rimanesse, nelle profonditá altissime della teologia con
  • acuto ingegno si mise. Né fu dalla intenzione l'effetto lontano,
  • percioché, non curando né caldi né freddi, vigilie né digiuni, né
  • alcun altro corporale disagio, con assiduo studio pervenne a conoscere
  • della divina essenzia e dell'altre separate intelligenzie quello che
  • per umano ingegno qui se ne può comprendere. E cosí come in varie
  • etadi varie scienze furono da lui conosciute studiando, cosí in vari
  • studi sotto vari dottori le comprese.
  • Egli li primi inizi, sí come di sopra è dichiarato, prese nella propia
  • patria, e di quella, sí come a luogo piú fertile di tal cibo, n'andò a
  • Bologna; e giá vicino alla sua vecchiezza n'andò a Parigi, dove, con
  • tanta gloria di sé, disputando, piú volte mostrò l'altezza del suo
  • ingegno, che ancora, narrandosi, se ne maravigliano gli uditori. E di
  • tanti e sí fatti studi non ingiustamente meritò altissimi titoli:
  • percioché alcuni il chiamarono sempre «poeta», altri «filosofo» e
  • molti «teologo», mentre visse. Ma, percioché tanto è la vittoria piú
  • gloriosa al vincitore, quanto le forze del vinto sono state maggiori,
  • giudico esser convenevole dimostrare, di come fluttuoso e tempestoso
  • mare costui, gittato ora in qua ora in lá, vincendo l'onde parimente
  • e' venti contrari, pervenisse al salutevole porto de' chiarissimi
  • titoli giá narrati.
  • IV
  • IMPEDIMENTI AVUTI DA DANTE AGLI STUDI
  • Gli studi generalmente sogliono solitudine e rimozione di
  • sollecitudine e tranquillitá d'animo disiderare, e massimamente gli
  • speculativi, a' quali il nostro Dante, sí come mostrato è, si diede
  • tutto. In luogo della quale rimozione e quiete, quasi dallo inizio
  • della sua vita infino all'ultimo della morte, Dante ebbe fierissima e
  • importabile passione d'amore, moglie, cura familiare e publica, esilio
  • e povertá; l'altre lasciando piú particulari, le quali di necessitá
  • queste si traggon dietro: le quali, accioché piú appaia della loro
  • gravezza, partitamente convenevole giudico di spiegarle.
  • V
  • AMORE PER BEATRICE
  • Nel tempo nel quale la dolcezza del cielo riveste de' suoi ornamenti
  • la terra, e tutta per la varietá de' fiori mescolati fra le verdi
  • frondi la fa ridente, era usanza della nostra cittá, e degli uomini e
  • delle donne, nelle loro contrade ciascuno in distinte compagnie
  • festeggiare; per la qual cosa, infra gli altri per avventura, Folco
  • Portinari, uomo assai orrevole in que' tempi tra' cittadini, il primo
  • dí di maggio aveva i circustanti vicini raccolti nella propia casa a
  • festeggiare, infra li quali era il giá nominato Alighieri. Al quale,
  • sí come i fanciulli piccoli, e spezialmente a' luoghi festevoli,
  • sogliono li padri seguire, Dante, il cui nono anno non era ancora
  • finito, seguito avea; e quivi mescolato tra gli altri della sua etá,
  • de' quali cosí maschi come femmine erano molti nella casa del
  • festeggiante, servite le prime mense, di ciò che la sua picciola etá
  • poteva operare, puerilmente si diede con gli altri a trastullare.
  • Era intra la turba de' giovinetti una figliuola del sopradetto Folco,
  • il cui nome era Bice, comeché egli sempre dal suo primitivo, cioè
  • Beatrice, la nominasse, la cui etá era forse d'otto anni, leggiadretta
  • assai secondo la sua fanciullezza, e ne' suoi atti gentilesca e
  • piacevole molto, con costumi e con parole assai piú gravi e modeste
  • che il suo picciolo tempo non richiedea; e, oltre a questo, aveva le
  • fattezze del viso dilicate molto e ottimamente disposte, e piene,
  • oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi una
  • angioletta era reputata da molti. Costei adunque, tale quale io la
  • disegno, o forse assai piú bella, apparve in questa festa, non credo
  • primamente, ma prima possente ad innamorare, agli occhi del nostro
  • Dante: il quale, ancoraché fanciul fosse, con tanta affezione la bella
  • imagine di lei ricevette nel cuore, che da quel giorno innanzi, mai,
  • mentre visse, non se ne dipartí. Quale ora questa si fosse, niuno il
  • sa; ma, o conformitá di complessioni o di costumi o speziale
  • influenzia del cielo che in ciò operasse, o, sí come noi per
  • esperienza veggiamo nelle feste, per la dolcezza de' suoni, per la
  • generale allegrezza, per la dilicatezza de' cibi e de' vini, gli animi
  • eziandio degli uomini maturi, non che de' giovinetti, ampliarsi e
  • divenire atti a poter essere leggiermente presi da qualunque cosa che
  • piace; è certo questo esserne divenuto, cioè Dante nella sua
  • pargoletta etá fatto d'amore ferventissimo servidore. Ma, lasciando
  • stare il ragionare de' puerili accidenti, dico che con l'etá
  • multiplicarono l'amorose fiamme, in tanto che niun'altra cosa gli era
  • piacere o riposo o conforto, se non il vedere costei. Per la qual
  • cosa, ogni altro affare lasciandone, sollecitissimo andava lá dovunque
  • credeva potere vederla, quasi del viso o degli occhi di lei dovesse
  • attignere ogni suo bene e intera consolazione.
  • Oh insensato giudicio degli amanti! chi altri che essi estimerebbe per
  • aggiugnimento di stipa fare le fiamme minori? Quanti e quali fossero
  • li pensieri, li sospiri, le lagrime e l'altre passioni gravissime poi
  • in piú provetta etá da lui sostenute per questo amore, egli medesimo
  • in parte il dimostra nella sua _Vita nova_, e però piú distesamente
  • non curo di raccontarle. Tanto solamente non voglio che non detto
  • trapassi, cioè che, secondo che egli scrive e che per altrui, a cui fu
  • noto il suo disio, si ragiona, onestissimo fu questo amore, né mai
  • apparve, o per isguardo o per parola o per cenno, alcuno libidinoso
  • appetito né nello amante né nella cosa amata: non picciola maraviglia
  • al mondo presente, del quale è sí fuggito ogni onesto piacere, e
  • abituatosi l'avere prima la cosa che piace conformata alla sua
  • lascivia che diliberato d'amarla, che in miracolo è divenuto, sí come
  • cosa rarissima, chi amasse altramente. Se tanto amore e sí lungo poté
  • il cibo, i sonni e ciascun'altra quiete impedire, quanto si dee potere
  • estimare lui essere stato avversario agli sacri studi e allo 'ngegno?
  • Certo, non poco; comeché molti vogliano lui essere stato incitatore di
  • quello, argomento a ciò prendendo dalle cose leggiadramente nel
  • fiorentino idioma e in rima, in laude della donna amata, e accioché li
  • suoi ardori e amorosi concetti esprimesse, giá fatte da lui; ma certo
  • io nol consento, se io non volessi giá affermare l'ornato parlare
  • essere sommissima parte d'ogni scienza; che non è vero.
  • VI
  • DOLORE DI DANTE PER LA MORTE DI BEATRICE
  • Come ciascuno puote evidentemente conoscere, niuna cosa è stabile in
  • questo mondo; e, se niuna leggermente ha mutamento, la nostra vita è
  • quella. Un poco di soperchio freddo o di caldo che noi abbiamo,
  • lasciando stare gli altri infiniti accidenti e possibili, da essere a
  • non essere sanza difficultá ci conduce; né da questo gentilezza,
  • ricchezza, giovanezza, né altra mondana dignitá è privilegiata; della
  • quale comune legge la gravitá convenne a Dante prima per l'altrui
  • morte provare che per la sua. Era quasi nel fine del suo
  • vigesimoquarto anno la bellissima Beatrice, quando, sí come piacque a
  • Colui che tutto puote, essa, lasciando di questo mondo l'angosce,
  • n'andò a quella gloria che li suoi meriti l'avevano apparecchiata.
  • Della qual partenza Dante in tanto dolore, in tanta afflizione, in
  • tante lagrime rimase, che molti de' suoi piú congiunti e parenti ed
  • amici niuna fine a quelle credettero altra che solamente la morte; e
  • questa estimarono dover essere in brieve, vedendo lui a niun conforto,
  • a niuna consolazione pórtagli dare orecchie. Gli giorni erano alle
  • notte iguali e agli giorni le notti; delle quali niuna ora si
  • trapassava senza guai, senza sospiri e senza copiosa quantitá di
  • lagrime; e parevano li suoi occhi due abbondantissime fontane d'acqua
  • surgente, in tanto che piú si maravigliarono donde tanto umore egli
  • avesse che al suo pianto bastasse. Ma, sí come noi veggiamo, per lunga
  • usanza le passioni divenire agevoli a comportare, e similmente nel
  • tempo ogni cosa diminuire e perire; avvenne che Dante infra alquanti
  • mesi apparò a ricordarsi, senza lagrime, Beatrice esser morta, e con
  • piú dritto giudicio, dando alquanto il dolore luogo alla ragione, a
  • conoscere li pianti e li sospiri non potergli, né ancora alcuna altra
  • cosa, rendere la perduta donna. Per la qual cosa con piú pazienza
  • s'acconciò a sostenere l'avere perduta la sua presenzia; né guari di
  • spazio passò che, dopo le lasciate lagrime, li sospiri, li quali giá
  • erano alla loro fine vicini, cominciarono in gran parte a partirsi
  • sanza tornare.
  • Egli era sí per lo lagrimare, sí per l'afflizione che il cuore sentiva
  • dentro, e sí per lo non avere di sé alcuna cura, di fuori divenuto
  • quasi una cosa salvatica a riguardare: magro, barbuto e quasi tutto
  • trasformato da quello che avanti esser solea; intanto che 'l suo
  • aspetto, nonché negli amici, ma eziandio in ciascun altro che il
  • vedea, a forza di sé metteva compassione; comeché egli poco, mentre
  • questa vita cosí lagrimosa durò, altrui che ad amici veder si
  • lasciasse.
  • Questa compassione e dubitanza di peggio facevano li suoi parenti
  • stare attenti a' suoi conforti; li quali, come alquanto videro le
  • lagrime cessate e conobbero li cocenti sospiri alquanto dare sosta al
  • faticato petto, con le consolazioni lungamente perdute rincominciarono
  • a sollecitare lo sconsolato; il quale, come che infino a quella ora
  • avesse a tutte ostinatamente tenute le orecchie chiuse, alquanto le
  • cominciò non solamente ad aprire, ma ad ascoltare volentieri ciò che
  • intorno al suo conforto gli fosse detto. La qual cosa veggendo i suoi
  • parenti, accioché del tutto non solamente de' dolori il traessero, ma
  • il recassero in allegrezza, ragionarono insieme di volergli dar
  • moglie; accioché, come la perduta donna gli era stata di tristizia
  • cagione, cosí di letizia gli fosse la nuovamente acquistata. E,
  • trovata una giovane, quale alla sua condizione era decevole, con
  • quelle ragioni che piú loro parvero induttive, la loro intenzion gli
  • scoprirono. E, accioché io particularmente non tocchi ciascuna cosa,
  • dopo lunga tenzone, senza mettere guari di tempo in mezzo, al
  • ragionamento seguí l'effetto: e fu sposato.
  • VII
  • DIGRESSIONE SUL MATRIMONIO
  • Oh menti cieche, oh tenebrosi intelletti, oh argomenti vani di molti
  • mortali, quanto sono le riuscite in assai cose contrarie a' vostri
  • avvisi, e non sanza ragion le piú volte! Chi sarebbe colui che del
  • dolce aere d'Italia, per soperchio caldo, menasse alcuno nelle cocenti
  • arene di Libia a rinfrescarsi, o dell'isola di Cipri, per riscaldarsi,
  • nelle eterne ombre de' monti Rodopei? qual medico s'ingegnerá di
  • cacciare l'aguta febbre col fuoco, o il freddo delle medolla dell'ossa
  • col ghiaccio o con la neve? Certo, niuno altro, se non colui che con
  • nuova moglie crederá l'amorose tribulazion mitigare. Non conoscono
  • quegli, che ciò credono fare, la natura d'amore, né quanto ogni altra
  • passione aggiunga alla sua. Invano si porgono aiuti o consigli alle
  • sue forze, se egli ha ferma radice presa nel cuore di colui che ha
  • lungamente amato. Cosí come ne' princípi ogni picciola resistenza è
  • giovevole, cosí nel processo le grandi sogliono essere spesse volte
  • dannose. Ma da ritornare è al proposito, e da concedere al presente
  • che cose sieno, le quali per sé possano l'amorose fatiche fare
  • obliare.
  • Che avrá fatto però chi, per trarmi d'un pensiero noioso, mi metterá
  • in mille molto maggiori e di piú noia? Certo niuna altra cosa, se non
  • che per giunta del male che m'avrá fatto, mi fará disiderare di
  • tornare in quello, onde m'ha tratto; il che assai spesso veggiamo
  • addivenire a' piú, li quali o per uscire o per essere tratti d'alcune
  • fatiche, ciecamente o s'ammogliano o sono da altrui ammogliati; né
  • prima s'avveggiono, d'uno viluppo usciti, essere intrati in mille, che
  • la pruova, sanza potere, pentendosi, indietro tornare, n'ha data
  • esperienza. Dierono gli parenti e gli amici moglie a Dante, perché le
  • lagrime cessassero di Beatrice. Non so se per questo, comeché le
  • lagrime passassero, anzi forse eran passate, sí passò l'amorosa
  • fiamma; ché nol credo; ma, conceduto che si spegnesse, nuove cose e
  • assai poterono piú faticose sopravvenire. Egli, usato di vegghiare ne'
  • santi studi, quante volte a grado gli era, cogl'imperadori, co' re e
  • con qualunque altri altissimi prencipi ragionava, disputava co'
  • filosofi, e co' piacevolissimi poeti si dilettava, e l'altrui angosce
  • ascoltando, mitigava le sue. Ora, quanto alla nuova donna piace, è con
  • costoro, e quel tempo, ch'ella vuole tolto da cosí celebre compagnia,
  • gli conviene ascoltare i femminili ragionamenti, e quegli, se non vuol
  • crescer la noia, contra il suo piacere non solamente acconsentir, ma
  • lodare. Egli, costumato, quante volte la volgar turba gli rincresceva,
  • di ritrarsi in alcuna solitaria parte e, quivi speculando, vedere
  • quale spirito muove il cielo, onde venga la vita agli animali che sono
  • in terra, quali sieno le cagioni delle cose, o premeditare alcune
  • invenzioni peregrine o alcune cose comporre, le quali appo li futuri
  • facessero lui morto viver per fama; ora non solamente dalle
  • contemplazioni dolci è tolto quante volte voglia ne viene alla nuova
  • donna, ma gli conviene essere accompagnato di compagnia male a cosí
  • fatte cose disposta. Egli, usato liberamente di ridere, di piagnere,
  • di cantare o di sospirare, secondo che le passioni dolci e amare il
  • pungevano, ora o non osa, o gli conviene non che delle maggiori cose,
  • ma d'ogni picciol sospiro rendere alla donna ragione, mostrando che 'l
  • mosse, donde venne e dove andò; la letizia cagione dell'altrui amore,
  • la tristizia esser del suo odio estimando.
  • Oh fatica inestimabile, avere con cosí sospettoso animale a vivere, a
  • conversare, e ultimamente a invecchiare o a morire! Io voglio lasciare
  • stare la sollecitudine nuova e gravissima, la quale si conviene avere
  • a' non usati (e massimamente nella nostra cittá), cioè onde vengano i
  • vestimenti, gli ornamenti e le camere piene di superflue dilicatezze,
  • le quali le donne si fanno a credere essere al ben vivere opportune;
  • onde vengano li servi, le serve, le nutrici, le cameriere; onde
  • vengano i conviti, i doni, i presenti che fare si convengono a'
  • parenti delle novelle spose, a quegli che vogliono che esse credano da
  • loro essere amate; e appresso queste, altre cose assai prima non
  • conosciute da' liberi uomini; e venire a cose che fuggir non si
  • possono. Chi dubita che della sua donna, che ella sia bella o non
  • bella, non caggia il giudicio nel vulgo? Se bella fia reputata, chi
  • dubita che essa subitamente non abbia molti amadori, de' quali alcuno
  • con la sua bellezza, altri con la sua nobiltá, e tale con maravigliose
  • lusinghe, e chi con doni, e quale con piacevolezza infestissimamente
  • combatterá il non stabile animo? E quel, che molti disiderano,
  • malagevolmente da alcuno si difende. E alla pudicizia delle donne non
  • bisogna d'essere presa piú che una volta, a fare sé infame e i mariti
  • dolorosi in perpetuo. Se per isciagura di chi a casa la si mena, fia
  • sozza, assai aperto veggiamo le bellissime spesse volte e tosto
  • rincrescere; che dunque dell'altre possiamo pensare, se non che, non
  • che esse, ma ancora ogni luogo nel quale esse sieno credute trovare da
  • coloro, a' quali sempre le conviene aver per loro, è avuto in odio?
  • Onde le loro ire nascono, né alcuna fiera è piú né tanto crudele
  • quanto la femmina adirata, né può viver sicuro di sé, chi sé commette
  • ad alcuna, alla quale paia con ragione esser crucciata; che pare a
  • tutte.
  • Che dirò de' loro costumi? Se io vorrò mostrare come e quanto essi
  • sieno tutti contrari alla pace e al riposo degli uomini, io tirerò in
  • troppo lungo sermone il mio ragionare; e però uno solo, quasi a tutte
  • generale, basti averne detto. Esse immaginano il bene operare ogni
  • menomo servo ritener nella casa, e il contrario fargli cacciare; per
  • che estimano, se ben fanno, non altra sorte esser la lor che d'un
  • servo: per che allora par solamente loro esser donne, quando, male
  • adoperando, non vengono al fine che' fanti fanno. Perché voglio io
  • andare dimostrando particularmente quello che gli piú sanno? Io
  • giudico che sia meglio il tacersi che dispiacere, parlando, alle vaghe
  • donne. Chi non sa che tutte l'altre cose si pruovano, prima che colui,
  • di cui debbono esser, comperate, le prenda, se non la moglie, accioché
  • prima non dispiaccia che sia menata? A ciascuno che la prende, la
  • conviene avere non tale quale egli la vorrebbe, ma quale la fortuna
  • gliele concede. E se le cose che di sopra son dette son vere (che il
  • sa chi provate l'ha), possiamo pensare quanti dolori nascondano le
  • camere, li quali di fuori, da chi non ha occhi la cui perspicacitá
  • trapassi le mura sono reputati diletti. Certo io non affermo queste
  • cose a Dante essere avvenute, ché nol so; comeché vero sia che, o
  • simili cose a queste, o altre che ne fosser cagione, egli, una volta
  • da lei partitosi, che per consolazione de' suoi affanni gli era stata
  • data, mai né dove ella fosse volle venire, né sofferse che lá dove
  • egli fosse ella venisse giammai; con tutto che di piú figliuoli egli
  • insieme con lei fosse parente. Né creda alcuno che io per le su dette
  • cose voglia conchiudere gli uomini non dover tôrre moglie; anzi il
  • lodo molto, ma non a ciascuno. Lascino i filosofanti lo sposarsi a'
  • ricchi stolti, a' signori e a' lavoratori, e essi con la filosofia si
  • dilettino, molto migliore sposa che alcuna altra.
  • VIII
  • OPPOSTE VICENDE DELLA VITA PUBBLICA DI DANTE
  • Natura generale è delle cose temporali, l'una l'altra tirarsi di
  • dietro. La familiar cura trasse Dante alla publica, nella quale tanto
  • l'avvilupparono li vani onori che alli publici ofici congiunti sono,
  • che, senza guardare donde s'era partito e dove andava con abbandonate
  • redine, quasi tutto al governo di quella si diede; e fugli tanto in
  • ciò la fortuna seconda, che niuna legazion s'ascoltava, a niuna si
  • rispondea, niuna legge si fermava, niuna se ne abrogava, niuna pace si
  • faceva, niuna guerra publica s'imprendeva, e brievemente niuna
  • diliberazione, la quale alcuno pondo portasse, si pigliava, s'egli in
  • ciò non dicesse prima la sua sentenzia. In lui tutta la publica fede,
  • in lui ogni speranza, in lui sommariamente le divine cose e l'umane
  • parevano esser fermate. Ma la Fortuna, volgitrice de' nostri consigli
  • e inimica d'ogni umano stato, comeché per alquanti anni nel colmo
  • della sua rota gloriosamente reggendo il tenesse, assai diverso fine
  • al principio recò a lui, in lei fidantesi di soperchio.
  • IX
  • COME LA LOTTA DELLE PARTI LO COINVOLSE
  • Era al tempo di costui la fiorentina cittadinanza in due parti
  • perversissimamente divisa, e, con l'operazioni di sagacissimi e
  • avveduti prencipi di quelle, era ciascuna assai possente; intanto che
  • alcuna volta l'una e alcuna l'altra reggeva oltre al piacere della
  • sottoposta. A volere riducere a unitá il partito corpo della sua
  • republica, pose Dante ogni suo ingegno, ogni arte, ogni studio,
  • mostrando a' cittadini piú savi come le gran cose per la discordia in
  • brieve tempo tornano al niente, e le picciole per la concordia
  • crescere in infinito. Ma, poi che vide essere vana la sua fatica, e
  • conobbe gli animi degli uditori ostinati; credendolo giudicio di Dio,
  • prima propose di lasciar del tutto ogni publico oficio e vivere seco
  • privatamente; poi dalla dolcezza della gloria tirato e dal vano favor
  • popolesco e ancora dalle persuasioni de' maggiori; credendosi, oltre a
  • questo, se tempo gli occorresse, molto piú di bene potere operare per
  • la sua cittá, se nelle cose publiche fosse grande, che a sé privato e
  • da quelle del tutto rimosso (oh stolta vaghezza degli umani splendori,
  • quanto sono le tue forze maggiori, che creder non può chi provati non
  • gli ha!): il maturo uomo e nel santo seno della filosofia allevato,
  • nutricato e ammaestrato, al quale erano davanti dagli occhi i
  • cadimenti de' re antichi e de' moderni, le desolazioni de' regni,
  • delle province e delle cittá e li furiosi impeti della Fortuna, niun
  • altro cercanti che l'alte cose, non si seppe o non si poté dalla tua
  • dolcezza guardare.
  • Fermossi adunque Dante a volere seguire gli onori caduchi e la vana
  • pompa dei publici ofici; e, veggendo che per se medesimo non potea una
  • terza parte tenere, la quale, giustissima, l'ingiustizia dell'altre
  • due abbattesse, tornandole ad unitá; con quella s'accostò, nella
  • quale, secondo il suo giudicio, era piú di ragione e di giustizia;
  • operando continuamente ciò che salutevole alla sua patria e a'
  • cittadini conoscea. Ma gli umani consigli le piú delle volte rimangon
  • vinti dalle forze del cielo. Gli odii e l'animositá prese, ancora che
  • sanza giusta cagione nati fossoro, di giorno in giorno divenivan
  • maggiori, in tanto che non senza grandissima confusione de' cittadini,
  • piú volte si venne all'arme con intendimento di por fine alla lor lite
  • col fuoco e col ferro: sí accecati dall'ira, che non vedevano sé con
  • quella miseramente perire. Ma, poi che ciascuna delle parti ebbe piú
  • volte fatta pruova delle sue forze con vicendevoli danni dell'una e
  • dell'altra; venuto il tempo che gli occulti consigli della minacciante
  • fortuna si doveano scoprire, la fama, parimente del vero e del falso
  • rapportatrice, nunziando gli avversari della parte presa da Dante, di
  • maravigliosi e d'astuti consigli esser forte e di grandissima
  • moltitudine d'armati, sí gli prencipi de' collegati di Dante spaventò,
  • che ogni consilio, ogni avvedimento e ogni argomento cacciò da loro,
  • se non il cercare con fuga la loro salute; co' quali insieme Dante, in
  • un momento prostrato della sommitá del reggimento della sua cittá, non
  • solamente gittato in terra si vide, ma cacciato di quella. Dopo questa
  • cacciata non molti dí, essendo giá stato dal popolazzo corso alle case
  • de' cacciati, e furiosamente votate e rubate, poi che i vittoriosi
  • ebbero la cittá riformata secondo il loro giudicio, furono tutti i
  • prencipi de' loro avversari, e con loro, non come de' minori ma quasi
  • principale, Dante, sí come capitali nemici della republica dannati a
  • perpetuo esilio, e li loro stabili beni o in publico furon ridotti, o
  • alienati a' vincitori.
  • X
  • SI MALEDICE ALL'INGIUSTA CONDANNA D'ESILIO
  • Questo merito riportò Dante del tenero amore avuto alla sua patria!
  • questo merito riportò Dante dell'affanno avuto in voler tôrre via le
  • discordie cittadine! questo merito riportò Dante dell'avere con ogni
  • sollecitudine cercato il bene, la pace e la tranquillitá de' suoi
  • cittadini! Per che assai manifestamente appare quanto sieno vòti di
  • veritá i favori de' popoli, e quanta fidanza si possa in essi avere.
  • Colui, nel quale poco avanti pareva ogni publica speranza esser posta,
  • ogni affezione cittadina, ogni rifugio populare; subitamente, senza
  • cagione legittima, senza offesa, senza peccato, da quel romore, il
  • quale per addrieto s'era molte volte udito le sue laude portare infino
  • alle stelle, è furiosamente mandato in inrevocabile esilio. Questa fu
  • la marmorea statua fattagli ad eterna memoria della sua virtú! con
  • queste lettere fu il suo nome tra quegli de' padri della patria
  • scritto in tavole d'oro! con cosí favorevole romore gli furono rendute
  • grazie de' suoi benefici! Chi sará dunque colui che, a queste cose
  • guardando, dica la nostra republica da questo piè non andare
  • sciancata?
  • Oh vana fidanza de' mortali, da quanti esempli altissimi se' tu
  • continuamente ripresa, ammonita e gastigata! Deh! se Cammillo,
  • Rutilio, Coriolano, e l'uno e l'altro Scipione, e gli altri antichi
  • valenti uomini per la lunghezza del tempo interposto ti sono della
  • memoria caduti, questo ricente caso ti faccia con piú temperate redine
  • correr ne' tuoi piaceri. Niuna cosa ci ha meno stabilita che la
  • popolesca grazia; niuna piú pazza speranza, niuno piú folle consiglio
  • che quello che a crederle conforta nessuno. Levinsi adunque gli animi
  • al cielo, nella cui perpetua legge, nelli cui eterni splendori, nella
  • cui vera bellezza si potrá senza alcuna oscuritá conoscere la
  • stabilitá di Colui che lui e le altre cose con ragione muove;
  • accioché, sí come in termine fisso, lasciando le transitorie cose, in
  • lui si fermi ogni nostra speranza, se trovare non ci vogliamo
  • ingannati.
  • XI
  • LA VITA DEL POETA ESULE SINO ALLA VENUTA IN ITALIA DI ARRIGO SETTIMO
  • Uscito adunque in cotal maniera Dante di quella cittá, della quale
  • egli non solamente era cittadino, ma n'erano li suoi maggiori stati
  • reedificatori, e lasciatavi la sua donna, insieme con l'altra
  • famiglia, male per picciola etá alla fuga disposta; di lei sicuro,
  • percioché di consanguinitá la sapeva ad alcuno de' prencipi della
  • parte avversa congiunta, di se medesimo or qua or lá incerto, andava
  • vagando per Toscana. Era alcuna particella delle sue possessioni dalla
  • donna col titolo della sua dote dalla cittadina rabbia stata con
  • fatica difesa, de' frutti della quale essa sé e i piccioli figliuoli
  • di lui assai sottilmente reggeva; per la qual cosa povero, con
  • industria disusata gli convenia il sostentamento di se medesimo
  • procacciare. Oh quanti onesti sdegni gli convenne posporre, piú duri a
  • lui che morte a trapassare, promettendogli la speranza questi dover
  • esser brievi, e prossima la tornata! Egli, oltre al suo stimare,
  • parecchi anni, tornato da Verona (dove nel primo fuggire a messer
  • Alberto della Scala n'era ito, dal quale benignamente era stato
  • ricevuto), quando col conte Salvatico in Casentino, quando col
  • marchese Morruello Malespina in Lunigiana, quando con quegli della
  • Faggiuola ne' monti vicini ad Orbino, assai convenevolmente, secondo
  • il tempo e secondo la loro possibilitá, onorato si stette. Quindi poi
  • se n'andò a Bologna, dove poco stato n'andò a Padova, e quindi da capo
  • si ritornò a Verona. Ma poi ch'egli vide da ogni parte chiudersi la
  • via alla tornata, e di dí in dí piú divenire vana la sua speranza; non
  • solamente Toscana, ma tutta Italia abbandonata, passati i monti che
  • quella dividono dalla provincia di Gallia, come poté, se n'andò a
  • Parigi; e quivi tutto si diede allo studio e della filosofia e della
  • teologia, ritornando ancora in sé dell'altre scienzie ciò che forse
  • per gli altri impedimenti avuti se ne era partito. E in ciò il tempo
  • studiosamente spendendo, avvenne che oltre al suo avviso, Arrigo,
  • conte di Luzimborgo, con volontá e mandato di Clemente papa V, il
  • quale allora sedea, fu eletto in re de' romani, e appresso coronato
  • imperadore. Il quale sentendo Dante della Magna partirsi per
  • soggiogarsi Italia, alla sua maestá in parte rebelle, e giá con
  • potentissimo braccio tenere Brescia assediata, avvisando lui per molte
  • ragioni dover essere vincitore; prese speranza con la sua forza e
  • dalla sua giustizia di potere in Fiorenza tornare, comeché a lui la
  • sentisse contraria. Perché ripassate l'alpi, con molti nemici di
  • fiorentini e di lor parte congiuntosi, e con ambascerie e con lettere
  • s'ingegnarono di tirare lo 'mperadore da l'assedio di Brescia,
  • accioché a Fiorenza il ponesse, sí come a principale membro de' suoi
  • nemici; mostrandogli che, superata quella, niuna fatica gli restava, o
  • piccola, ad avere libera ed espedita la possessione e il dominio di
  • tutta Italia. E comeché a lui e agli altri a ciò tenenti venisse fatto
  • il trarloci, non ebbe perciò la sua venuta il fine da loro avvisato:
  • le resistenze furon grandissime, e assai maggiori che da loro avvisate
  • non erano; per che, senza avere niuna notevole cosa operata, lo
  • 'mperadore, partitosi quasi disperato, verso Roma drizzò il suo
  • cammino. E come che in una parte e in altra piú cose facesse, assai ne
  • ordinasse e molte di farne proponesse, ogni cosa ruppe la troppo
  • avacciata morte di lui: per la qual morte generalmente ciascuno che a
  • lui attendea disperatosi, e massimamente Dante, sanza andare di suo
  • ritorno piú avanti cercando, passate l'alpi d'Appennino, se ne andò in
  • Romagna, lá dove l'ultimo suo dí, e che alle sue fatiche doveva por
  • fine, l'aspettava.
  • XII
  • DANTE OSPITE DI GUIDO NOVEL DA POLENTA
  • Era in que' tempi signore di Ravenna, famosa e antica cittá di
  • Romagna, uno nobile cavaliere, il cui nome era Guido Novel da Polenta;
  • il quale, ne' liberali studi ammaestrato, sommamente i valorosi uomini
  • onorava, e massimamente quegli che per iscienza gli altri avanzavano.
  • Alle cui orecchie venuto Dante, fuori d'ogni speranza, essere in
  • Romagna (avendo egli lungo tempo avanti per fama conosciuto il suo
  • valore) in tanta disperazione, sí dispose di riceverlo e d'onorarlo.
  • Né aspettò di ciò da lui essere richiesto, ma con liberale animo,
  • considerata qual sia a' valorosi la vergogna del domandare, e con
  • proferte, gli si fece davanti, richiedendo di spezial grazia a Dante
  • quello ch'egli sapeva che Dante a lui dovea dimandare: cioè che seco
  • li piacesse di dover essere. Concorrendo adunque i due voleri a un
  • medesimo fine, e del domandato e del domandatore, e piacendo
  • sommamente a Dante la liberalitá del nobile cavaliere, e d'altra parte
  • il bisogno strignendolo, senza aspettare piú inviti che 'l primo, se
  • n'andò a Ravenna, dove onorevolemente dal signore di quella ricevuto,
  • e con piacevoli conforti risuscitata la caduta speranza, copiosamente
  • le cose opportune donandogli, in quella seco per piú anni il tenne,
  • anzi infino a l'ultimo della vita di lui.
  • XIII
  • SUA PERSEVERANZA AL LAVORO
  • Non poterono gli amorosi disiri, né le dolenti lagrime, né la
  • sollecitudine casalinga, né la lusinghevole gloria de' publici ofici,
  • né il miserabile esilio, né la intollerabile povertá giammai con le
  • lor forze rimuovere il nostro Dante dal principale intento, cioè da'
  • sacri studi; percioché, sí come si vederá dove appresso partitamente
  • dell'opere da lui fatte si fará menzione, egli, nel mezzo di qualunque
  • fu piú fiera delle passioni sopradette, si troverá componendo essersi
  • esercitato. E se, obstanti cotanti e cosí fatti avversari, quanti e
  • quali di sopra sono stati mostrati, egli per forza d'ingegno e di
  • perseveranza riuscí chiaro qual noi veggiamo; che si può sperare
  • ch'esso fosse divenuto, avendo avuti altrettanti aiutatori, o almeno
  • niuno contrario, o pochissimi, come hanno molti? Certo, io non so; ma
  • se licito fosse a dire, io direi ch'egli fosse in terra divenuto uno
  • iddio.
  • XIV
  • GRANDEZZA DEL POETA VOLGARE-SUA MORTE
  • Abitò adunque Dante in Ravenna, tolta via ogni speranza di ritornare
  • mai in Firenze (comeché tolto non fosse il disio) piú anni sotto la
  • protezione del grazioso signore; e quivi con le sue dimostrazioni fece
  • piú scolari in poesia e massimamente nella volgare; la quale, secondo
  • il mio giudicio, egli primo non altramenti fra noi italici esaltò e
  • recò in pregio, che la sua Omero tra' greci o Virgilio tra' latini.
  • Davanti a costui, come che per poco spazio d'anni si creda che innanzi
  • trovata fosse, niuno fu che ardire o sentimento avesse, dal numero
  • delle sillabe e dalla consonanza delle parti estreme in fuori, di
  • farla essere strumento d'alcuna artificiosa materia; anzi solamente in
  • leggerissime cose d'amore con essa s'esercitavano. Costui mostrò con
  • effetto con essa ogni alta materia potersi trattare, e glorioso sopra
  • ogni altro fece il volgar nostro.
  • Ma, poiché la sua ora venne segnata a ciascheduno, essendo egli giá
  • nel mezzo o presso del cinquantesimo sesto suo anno infermato, e
  • secondo la cristiana religione ogni ecclesiastico sacramento umilmente
  • e con divozione ricevuto, e a Dio per contrizione d'ogni cosa commessa
  • da lui contra al suo piacere, sí come da uomo, riconciliatosi; del
  • mese di settembre negli anni di Cristo MCCCXXI, nel dí che la
  • esaltazione della santa Croce si celebra dalla Chiesa, non sanza
  • grandissimo dolore del sopradetto Guido, e generalmente di tutti gli
  • altri cittadini ravignani, al suo Creatore rendé il faticato spirito;
  • il quale non dubito che ricevuto non fosse nelle braccia della sua
  • nobilissima Beatrice, con la quale nel cospetto di Colui ch'è sommo
  • bene, lasciate le miserie della presente vita, ora lietissimamente
  • vive in quella, alla cui felicitá fine giammai non s'aspetta.
  • XV
  • SEPOLTURA E ONORI FUNEBRI
  • Fece il magnanimo cavaliere il morto corpo di Dante d'ornamenti
  • poetici sopra uno funebre letto adornare; e quello fatto portare sopra
  • gli omeri de' suoi cittadini piú solenni, infino al luogo de' frati
  • minori in Ravenna, con quello onore che a sí fatto corpo degno
  • estimava, infino quivi quasi con publico pianto seguitolo, in una arca
  • lapidea, nella quale ancora giace, il fece porre. E, tornato alla casa
  • nella quale Dante era prima abitato, secondo il ravignano costume,
  • esso medesimo, sí a commendazione dell'alta scienzia e della vertú del
  • defunto, e sí a consolazione de' suoi amici, li quali egli avea in
  • amarissima vita lasciati, fece un ornato e lungo sermone; disposto, se
  • lo stato e la vita fossero durati, di sí egregia sepoltura onorarlo,
  • che, se mai alcuno altro suo merito non l'avesse memorevole renduto a'
  • futuri, quella l'avrebbe fatto.
  • XVI
  • GARA DI POETI PER L'EPITAFIO DI DANTE
  • Questo laudevole proponimento infra brieve spazio di tempo fu
  • manifesto ad alquanti, li quali in quel tempo erano in poesí
  • solennissimi in Romagna; per che ciascuno sí per mostrare la sua
  • sofficienzia, sí per rendere testimonianza della portata benivolenzia
  • da loro al morto poeta, sí per captare la grazia e l'amore del
  • signore, il quale ciò sapevano disiderare, ciascuno per sé fece versi,
  • li quali, posti per epitafio alla futura sepultura. con debite lode
  • facessero la posteritá certa chi dentro da essa giacesse; e al
  • magnifico signore gli mandarono. Il quale con gran peccato della
  • fortuna non dopo molto tempo, toltogli lo Stato, si morí a Bologna;
  • per la qual cosa e il fare il sepolcro e il porvi li mandati versi si
  • rimase. Li quali versi stati a me mostrati poi piú tempo appresso, e
  • veggendo loro avere avuto luogo per lo caso giá dimostrato, pensando
  • le presenti cose per me scritte, comeché sepoltura non sieno
  • corporale, ma sieno, sí come quella sarebbe stata, perpetue
  • conservatrici della colui memoria; imaginai non essere sconvenevole
  • quegli aggiugnere a queste cose. Ma, percioché piú che quegli che
  • l'uno di coloro avesse fatti (che furon piú) non si sarebbero ne'
  • marmi intagliati, cosí solamente quegli d'uno qui estimai che fosser
  • da scrivere; per che, tutti meco esaminatigli, per arte e per
  • intendimento piú degni estimai che fossero quattordici fattine da
  • maestro Giovanni del Virgilio bolognese, allora famosissimo e gran
  • poeta, e di Dante stato singularissimo amico; li quali sono questi
  • appresso scritti:
  • XVII
  • EPITAFIO
  • _Theologus Dantes, nullius dogmatis expers,
  • quod foveat claro philosophia sinu:
  • gloria musarum, vulgo gratissimus auctor,
  • hic iacet, et fama pulsat utrumque polum:
  • qui loca defunctis gladiis regnumque gemellis
  • distribuit, laicis rhetoricisque modis.
  • Pascua Pieriis demum resonabat avenis;
  • Atropos heu laetum livida rupit opus.
  • Huic ingrata tulit tristem Florentia fructum,
  • exilium, vati patria cruda suo.
  • Quem pia Guidonis gremio Ravenna Novelli
  • gaudet honorati continuisse ducis,
  • mille trecentenis ter septem Numinis annis,
  • ad sua septembris idibus astra redit._
  • XVIII
  • RIMPROVERO AI FIORENTINI
  • Oh ingrata patria, quale demenzia, qual trascutaggine ti teneva,
  • quando tu il tuo carissimo cittadino, il tuo benefattore precipuo, il
  • tuo unico poeta con crudeltá disusata mettesti in fuga; o poscia
  • tenuta t'ha? Se forse per la comune furia di quel tempo mal
  • consigliata ti scusi; ché, tornata, cessate l'ire, la tranquillitá
  • dell'animo, ripentútati del fatto, nol rivocasti? Deh! non ti
  • rincresca lo stare con meco, che tuo figliuol sono, alquanto a
  • ragione, e quello che giusta indegnazion mi fa dire, come da uomo che
  • ti ramendi disidera e non che tu sii punita, piglierai. Párti egli
  • essere gloriosa di tanti titoli e di tali che tu quello uno del quale
  • non hai vicina cittá che di simile si possa esaltare, tu abbi voluto
  • da te cacciare? Deh! dimmi: di qua' vittorie, di qua' triunfi, di
  • quali eccellenzie, di quali valorosi cittadini se' tu splendente? Le
  • tue ricchezze, cosa mobile e incerta; le tue bellezze, cosa fragile e
  • caduca; le tue dilicatezze, cosa vituperevole e femminile, ti fanno
  • nota nel falso giudicio de' popoli, il quale piú ad apparenza che ad
  • esistenza sempre riguarda. Deh! gloriera'ti tu de' tuoi mercatanti e
  • de' molti artisti, donde tu se' piena? Scioccamente farai: l'uno fu,
  • continuamente l'avarizia operandolo, mestiere servile; l'arte, la
  • quale un tempo nobilitata fu dagl'ingegni, intanto che una seconda
  • natura la fecero, dall'avarizia medesima è oggi corrotta, e niente
  • vale. Gloriera'ti tu della viltá e ignavia di coloro li quali,
  • percioché di molti loro avoli si ricordano, vogliono dentro da te
  • della nobiltá ottenere il principato, sempre con ruberie e con
  • tradimenti e con falsitá contra quella operanti? Vana gloria sará la
  • tua, e da coloro, le cui sentenzie hanno fondamento debito e stabile
  • fermezza, schernita. Ahi! misera madre, apri gli occhi e guarda con
  • alcuno rimordimento quello che tu facesti; e vergógnati almeno,
  • essendo reputata savia come tu se', d'avere avuta ne' falli tuoi falsa
  • elezione! Deh! se tu da te non avevi tanto consiglio, perché non
  • imitavi tu gli atti di quelle cittá, le quali ancora per le loro
  • laudevoli opere son famose? Atene, la quale fu l'uno degli occhi di
  • Grecia, allora che in quella era la monarchia del mondo, per
  • iscienzia, per eloquenzia e per milizia splendida parimente; Argos,
  • ancora pomposa per li titoli de' suoi re; Smirna, a noi reverenda in
  • perpetuo per Niccolaio suo pastore; Pilos, notissima per lo vecchio
  • Nestore; Chimi, Chios e Colofon, cittá splendidissime per adietro,
  • tutte insieme, qualora piú gloriose furono, non si vergognarono né
  • dubitarono d'avere agra quistione della origine del divino poeta
  • Omero, affermando ciascuna lui di sé averla tratta; e si ciascuna fece
  • con argomenti forte la sua intenzione, che ancora la quistion vive; né
  • è certo donde si fosse, perché parimente di cotal cittadino cosí l'una
  • come l'altra ancor si gloria. E Mantova, nostra vicina, di quale altra
  • cosa l'è piú alcuna fama rimasa, che l'essere stato Virgilio
  • mantovano? il cui nome hanno ancora in tanta reverenzia, e sí è appo
  • tutti accettevole, che non solamente ne' publici luoghi, ma ancora in
  • molti privati si vede la sua imagine effigiata; mostrando in ciò che,
  • non ostante che il padre di lui fosse lutifigolo, esso di tutti loro
  • sia stato nobilitatore. Sulmona d'Ovidio, Venosa d'Orazio, Aquino di
  • Giovenale, e altre molte, ciascuna si gloria del suo, e della loro
  • sufficienzia fanno quistione. L'esemplo di queste non t'era vergogna
  • di seguitare; le quali non è verisimile sanza cagione essere state e
  • vaghe e ténere di cittadini cosí fatti. Esse conobbero quello che tu
  • medesima potevi conoscere e puoi; cioè che le costoro perpetue
  • operazioni sarebbero ancora dopo la lor ruina ritenitrici eterne del
  • nome loro; cosí come al presente divulgate per tutto il mondo le fanno
  • conoscere a coloro che non le vider giammai. Tu sola, non so da qual
  • cechitá adombrata, hai voluto tenere altro cammino, e quasi molto da
  • te lucente, di questo splendore non hai curato: tu sola, quasi i
  • Camilli, i Publicoli, i Torquati, i Fabrizi, i Catoni, i Fabi e gli
  • Scipioni con le loro magnifiche opere ti facessero famosa e in te
  • fossero; non solamente, avendoti lasciato l'antico tuo cittadino
  • Claudiano cader delle mani, non hai avuto del presente poeta cura; ma
  • l'hai da te cacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi potuto, del
  • tuo sopranome. Io non posso fuggire di vergognarmene in tuo servigio.
  • Ma ecco: non la fortuna, ma il corso della natura delle cose è stato
  • al tuo disonesto appetito favorevole in tanto, in quanto quello che tu
  • volentieri, bestialmente bramosa, avresti fatto se nelle mani ti fosse
  • venuto, cioè uccisolo, egli con la sua eterna legge l'ha operato.
  • Morto è il tuo Dante Alighieri in quello esilio che tu ingiustamente,
  • del suo valore invidiosa, gli désti. Oh peccato da non ricordare, che
  • la madre alle virtú d'alcuno suo figliuolo porti livore! Ora adunque
  • se' di sollicitudine libera, ora per la morte di lui vivi ne' tuoi
  • difetti sicura, e puoi alle tue lunghe e ingiuste persecuzioni porre
  • fine. Egli non ti può far, morto, quello che mai, vivendo, non t'avria
  • fatto; egli giace sotto altro cielo che sotto il tuo, né piú déi
  • aspettar di vederlo giammai, se non quel dí, nel quale tutti li tuoi
  • cittadini veder potrai, e le lor colpe da giusto giudice esaminate e
  • punite.
  • Adunque se gli odii, l'ire e le inimicizie cessano per la morte di
  • qualunque è che muoia, come si crede, comincia a tornare in te
  • medesima e nel tuo diritto conoscimento; comincia a vergognarti
  • d'avere fatto contra la tua antica umanitá; comincia a volere apparir
  • madre e non piú inimica; concedi le debite lagrime al tuo figliuolo;
  • concedigli la materna pietá; e colui, il quale tu rifiutasti, anzi
  • cacciasti vivo sí come sospetto, disidera almeno di riaverlo morto;
  • rendi la tua cittadinanza, il tuo seno, la tua grazia alla sua
  • memoria. In veritá, quantunque tu a lui ingrata e proterva fossi, egli
  • sempre come figliuolo ebbe te in reverenza, né mai di quello onore che
  • per le sue opere seguire ti dovea, volle privarti, come tu lui della
  • tua cittadinanza privasti. Sempre fiorentino, quantunque l'esilio
  • fosse lungo, si nominò e volle essere nominato, sempre a ogni altra ti
  • prepose, sempre t'amò. Che dunque farai? starai sempre nella tua
  • iniquitá ostinata? sará in te meno d'umanitá che ne' barbari, li quali
  • troviamo non solamente aver li corpi delli lor morti raddomandati, ma
  • per riavergli essersi virilmente disposti a morire? Tu vuogli che 'l
  • mondo creda te essere nepote della famosa Troia e figliuola di Roma:
  • certo, i figliuoli deono essere a' padri e agli avoli simiglianti.
  • Priamo nella sua miseria non solamente raddomandò il corpo del morto
  • Ettore, ma quello con altrettanto oro ricomperò. Li romani, secondo
  • che alcuni pare che credano, feciono da Linterno venire l'ossa del
  • primo Scipione, da lui a loro con ragione nella sua morte vietate. E
  • come che Ettore fosse con la sua prodezza lunga difesa de' troiani, e
  • Scipione liberatore non solamente di Roma, ma di tutta Italia (delle
  • quali due cose forse cosí propiamente niuna si può dire di Dante),
  • egli non è perciò da posporre; niuna volta fu mai che l'armi non
  • dessero luogo alla scienzia. Se tu primieramente, e dove piú si saria
  • convenuto, l'esemplo e l'opere delle savie cittá non imitasti, amenda
  • al presente, seguendole. Niuna delle sette predette fu che o vera o
  • fittizia sepultura non facesse ad Omero. E chi dubita che i mantovani,
  • li quali ancora in Piettola onorano la povera casetta e i campi che
  • fûr di Virgilio, non avessero a lui fatta onorevole sepoltura, se
  • Ottaviano Augusto, il quale da Brandizio a Napoli le sue ossa avea
  • trasportate, non avesse comandato quello luogo dove poste l'avea,
  • volere loro essere perpetua requie? Sermona niun'altra cosa pianse
  • lungamente, se non che l'isola di Ponto tenga in certo luogo il suo
  • Ovidio; e cosí di Cassio Parma si rallegra tenendolo. Cerca tu adunque
  • di volere essere del tuo Dante guardiana; raddomandalo; mostra questa
  • umanitá, presupposto che tu non abbi voglia di riaverlo; togli a te
  • medesima con questa fizione parte del biasimo per adietro acquistato.
  • Raddomandalo. Io son certo ch'egli non ti fia renduto; e a una ora ti
  • sarai mostrata pietosa, e goderai, non riavendolo, della tua innata
  • crudeltá. Ma a che ti conforto io? Appena che io creda, se i corpi
  • morti possono alcuna cosa sentire, che quello di Dante si potesse
  • partire di lá dove è, per dovere a te tornare. Egli giace con
  • compagnia troppo piú laudevole che quella che tu gli potessi dare.
  • Egli giace in Ravenna, molto piú per etá veneranda di te; e comeché la
  • sua vecchiezza alquanto la renda deforme, ella fu nella sua giovanezza
  • troppo piú florida che tu non se'. Ella è quasi un generale sepolcro
  • di santissimi corpi, né niuna parte in essa si calca, dove su per
  • reverendissime ceneri non si vada. Chi dunque disidererebbe di tornare
  • a te per dovere giacere fra le tue, le quali si può credere che ancora
  • servino la rabbia e l'iniquitá nella vita avute, e male concorde
  • insieme si fuggano l'una da l'altra, non altramenti che facessero le
  • fiamme de' due tebani? E comeché Ravenna giá quasi tutta del prezioso
  • sangue di molti martiri si bagnasse, e oggi con reverenzia servi le
  • loro reliquie, e similemente i corpi di molti magnifici imperadori e
  • d'altri uomini chiarissimi e per antichi avoli e per opere virtuose,
  • ella non si rallegra poco d'esserle stato da Dio, oltre a l'altre sue
  • dote, conceduto d'essere perpetua guardiana di cosí fatto tesoro, come
  • è il corpo di colui, le cui opere tengono in ammirazione tutto il
  • mondo, e del quale tu non ti se' saputa far degna. Ma certo egli non è
  • tanta l'allegrezza d'averlo, quanta la invidia ch'ella ti porta che tu
  • t'intitoli della sua origine, quasi sdegnando che dove ella sia per
  • l'ultimo dí di lui ricordata, tu allato a lei sii nominata per lo
  • primo. E perciò con la tua ingratitudine ti rimani, e Ravenna de' tuoi
  • onori lieta si glori tra' futuri.
  • XIX
  • BREVE RICAPITOLAZIONE
  • Cotale, quale di sopra è dimostrata, fu a Dante la fine della vita
  • faticata da' vari studi; e, percioché assai convenevolemente le sue
  • fiamme, la familiare e la publica sollecitudine e il miserabile esilio
  • e la fine di lui mi pare avere secondo la mia promessa mostrate,
  • giudico sia da pervenire a mostrare della statura del corpo,
  • dell'abito, e generalmente de' piú notabili modi servati nella sua
  • vita da lui; da quegli poi immediatamente vegnendo all'opere degne di
  • nota, compilate da esso nel tempo suo, infestato da tanta turbine
  • quanta di sopra brievemente è dichiarata.
  • XX
  • FATTEZZE E COSTUMI DI DANTE
  • Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla
  • matura etá fu pervenuto, andò alquanto curvetto, ed era il suo andare
  • grave e mansueto, d'onestissimi panni sempre vestito in quell'abito
  • che era alla sua maturitá convenevole. Il suo volto fu lungo, e il
  • naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle
  • grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore
  • era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre
  • nella faccia malinconico e pensoso. Per la qual cosa avvenne un giorno
  • in Verona, essendo giá divulgata pertutto la fama delle sue opere, e
  • massimamente quella parte della sua _Comedia_, la quale egli intitola
  • _Inferno_, ed esso conosciuto da molti e uomini e donne, che, passando
  • egli davanti a una porta dove piú donne sedevano, una di quelle
  • pianamente, non però tanto che bene da lui e da chi con lui era non
  • fosse udita, disse all'altre donne:--Vedete colui che va nell'inferno,
  • e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che lá giú
  • sono?--Alla quale una dell'altre rispose semplicemente:--In veritá tu
  • déi dir vero: non vedi tu com'egli ha la barba crespa e il color bruno
  • per lo caldo e per lo fummo che è lá giú?--Le quali parole udendo egli
  • dir dietro a sé, e conoscendo che da pura credenza delle donne
  • venivano, piacendogli, e quasi contento ch'esse in cotale opinione
  • fossero, sorridendo alquanto, passò avanti.
  • Ne' costumi domestici e publici mirabilmente fu ordinato e composto, e
  • in tutti piú che alcun altro cortese e civile.
  • Nel cibo e nel poto fu modestissimo, sí in prenderlo all'ore ordinate
  • e sí in non trapassare il segno della necessitá, quel prendendo; né
  • alcuna curiositá ebbe mai piú in uno che in uno altro: li dilicati
  • lodava, e il piú si pasceva di grossi, oltremodo biasimando coloro, li
  • quali gran parte del loro studio pongono e in avere le cose elette e
  • quelle fare con somma diligenzia apparare; affermando questi cotali
  • non mangiare per vivere, ma piú tosto vivere per mangiare.
  • Niuno altro fu piú vigilante di lui e negli studi e in qualunque altra
  • sollecitudine il pugnesse; intanto che piú volte e la sua famiglia e
  • la donna se ne dolfono, prima che, a' suoi costumi adusate, ciò
  • mettessero in non calere.
  • Rade volte, se non domandato, parlava, e quelle pesatamente e con voce
  • conveniente alla materia di che diceva; non pertanto, lá dove si
  • richiedeva, eloquentissimo fu e facundo, e con ottima e pronta
  • prolazione.
  • Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovanezza, e a
  • ciascuno che a que' tempi era ottimo cantatore o sonatore fu amico e
  • ebbe sua usanza; e assai cose, da questo diletto tirato compose, le
  • quali di piacevole e maestrevole nota a questi cotali facea rivestire.
  • Quanto ferventemente esso fosse ad amor sottoposto, assai chiaro è giá
  • mostrato. Questo amore è ferma credenza di tutti che fosse movitore
  • del suo ingegno a dovere, prima imitando, divenir dicitore in volgare;
  • poi, per vaghezza di piú solennemente mostrare le sue passioni, e di
  • gloria, sollecitamente esercitandosi in quella, non solamente passò
  • ciascuno suo contemporaneo, ma in tanto la dilucidò e fece bella, che
  • molti allora e poi di dietro a sé n'ha fatti e fará vaghi d'essere
  • esperti.
  • Dilettossi similemente d'essere solitario e rimoto dalle genti,
  • accioché le sue contemplazioni non gli fossero interrotte; e se pure
  • alcuna che molto piaciuta gli fosse ne gli veniva, essendo esso tra
  • gente, quantunque d'alcuna cosa fosse stato addomandato, giammai
  • infino a tanto che egli o fermata o dannata la sua imaginazione
  • avesse, non avrebbe risposto al dimandante: il che molte volte,
  • essendo egli alla mensa, ed essendo in cammino con compagni, e in
  • altre parti, domandato, gli avvenne.
  • Ne' suoi studi fu assiduissimo, quanto è quel tempo che ad essi si
  • disponea, in tanto che niuna novitá che s'udisse, da quegli il poteva
  • rimuovere. E, secondo che alcuni degni di fede raccontano di questo
  • darsi tutto a cosa che gli piacesse, egli, essendo una volta tra
  • l'altre in Siena, e avvenutosi per accidente alla stazzone d'uno
  • speziale, e quivi statogli recato uno libretto davanti promessogli, e
  • tra' valenti uomini molto famoso, né da lui stato giammai veduto, non
  • avendo per avventura spazio di portarlo in altra parte, sopra la panca
  • che davanti allo speziale era, si pose col petto, e, messosi il
  • libretto davanti, quello cupidissimamente cominciò a vedere. E comeché
  • poco appresso in quella contrada stessa, e dinanzi da lui, per alcuna
  • general festa de' sanesi si cominciasse da gentili giovani e facesse
  • una grande armeggiata, e con quella grandissimi romori da' circustanti
  • (sí come in cotal casi con istrumenti vari e con voci applaudenti suol
  • farsi), e altre cose assai v'avvenissero da dover tirare altrui a
  • vedersi, sí come balli di vaghe donne e giuochi molti di giovani; mai
  • non fu alcuno che muovere quindi il vedesse, né alcuna volta levare
  • gli occhi dal libro: anzi, postovisi quasi a ora di nona, prima fu
  • passato vespro, e tutto l'ebbe veduto e quasi sommariamente compreso,
  • che egli da ciò si levasse; affermando poi ad alcuni, che il
  • domandavano come s'era potuto tenere di riguardare a cosí bella festa
  • come davanti a lui s'era fatta, sé niente averne sentito; per che alla
  • prima maraviglia non indebitamente la seconda s'aggiunse a'
  • dimandanti.
  • Fu ancora questo poeta di maravigliosa capacitá e di memoria
  • fermissima e di perspicace intelletto, intanto che, essendo egli a
  • Parigi, e quivi sostenendo in una disputazione _de quolibet_ che nelle
  • scuole della teologia si facea, quattordici quistioni da diversi
  • valenti uomini e di diverse materie, con gli loro argomenti pro e
  • contra fatti dagli opponenti, senza mettere in mezzo raccolse, e
  • ordinatamente, come poste erano state, recitò; quelle poi, seguendo
  • quello medesimo ordine, sottilmente solvendo e rispondendo agli
  • argomenti contrari. La qual cosa quasi miracolo da tutti i circustanti
  • fu reputata.
  • D'altissimo ingegno e di sottile invenzione fu similmente, sí come le
  • sue opere troppo piú manifestano agl'intendenti che non potrebbono
  • fare le mie lettere.
  • Vaghissimo fu e d'onore e di pompa per avventura piú che alla sua
  • inclita virtú non si sarebbe richiesto. Ma che? qual vita è tanto
  • umile, che dalla dolcezza della gloria non sia tócca? E per questa
  • vaghezza credo che oltre a ogni altro studio amasse la poesia,
  • veggendo, comeché la filosofia ogni altra trapassi di nobiltá, la
  • eccellenzia di quella con pochi potersi comunicare, e esserne per lo
  • mondo molti famosi: e la poesia piú essere apparente e dilettevole a
  • ciascuno, e li poeti rarissimi. E perciò, sperando per la poesí allo
  • inusitato e pomposo onore della coronazione dell'alloro poter
  • pervenire, tutto a lei si diede e istudiando e componendo. E certo il
  • suo disiderio veniva intero, se tanto gli fosse stata la fortuna
  • graziosa, che egli fosse giammai potuto tornare in Firenze, nella
  • quale sola sopra le fonti di San Giovanni s'era disposto di coronare;
  • accioché quivi, dove per lo battesimo aveva preso il primo nome, quivi
  • medesimo per la coronazione prendesse il secondo. Ma cosí andò che,
  • quantunque la sua sufficienzia fosse molta, e per quella in ogni
  • parte, ove piaciuto gli fosse, avesse potuto l'onore della laurea
  • pigliare (la quale non iscienzia accresce, ma è dell'acquistata
  • certissimo testimonio e ornamento); pur, quella tornata, che mai non
  • doveva essere, aspettando, altrove pigliar non la volle; e cosí, senza
  • il molto disiderato onore avere, si morí. Ma, percioché spessa
  • quistione si fa tra le genti, e che cosa sia la poesí e che il poeta,
  • e donde sia questo nome venuto e perché di lauro sieno coronati i
  • poeti, e da pochi pare essere stato mostrato; mi piace qui di fare
  • alcuna transgressione, nella quale io questo alquanto dichiari,
  • tornando, come piú tosto potrò, al proposito.
  • XXI
  • DIGRESSIONE SULL'ORIGINE DELLA POESIA
  • La prima gente ne' primi secoli, comeché rozzissima e inculta fosse,
  • ardentissima fu di conoscere il vero con istudio, sí come noi veggiamo
  • ancora naturalmente disiderare a ciascuno. La quale veggendo il cielo
  • muoversi con ordinata legge continuo, e le cose terrene avere certo
  • ordine e diverse operazioni in diversi tempi, pensarono di necessitá
  • dovere essere alcuna cosa, dalla quale tutte queste cose procedessero,
  • e che tutte l'altre ordinasse, sí come superiore potenzia da
  • niun'altra potenziata. E, questa investigazione seco diligentemente
  • avuta, s'immaginarono quella, la quale «divinitá» ovvero «deitá»
  • nominarono, con ogni cultivazione, con ogni onore e con piú che umano
  • servigio esser da venerare. E perciò ordinarono, a reverenza del nome
  • di questa suprema potenzia, ampissime ed egregie case, le quali ancora
  • estimarono fossero da separare cosí di nome, come di forma separate
  • erano, da quelle che generalmente per gli uomini si abitavano; e
  • nominaronle «templi». E similmente avvisarono doversi [ordinar]
  • ministri, li quali fossero sacri e, da ogni altra mondana
  • sollecitudine rimoti, solamente a' divini servigi vacassero, per
  • maturitá, per etá e per abito, piú che gli altri uomini, reverendi;
  • gli quali appellarono «sacerdoti». E oltre a questo, in
  • rappresentamento della immaginata essenzia divina, fecero in varie
  • forme magnifiche statue, e a' servigi di quella vasellamenti d'oro e
  • mense marmoree e purpurei vestimenti e altri apparati assai pertinenti
  • a' sacrifici per loro istabiliti. E, accioché a questa cotale potenzia
  • tacito onore o quasi mutolo non si facesse, parve loro che con parole
  • d'alto suono essa fosse da umiliare e alle loro necessitá rendere
  • propizia. E cosí come essi estimavano questa eccedere ciascuna altra
  • cosa di nobilitá, cosí vollono che, di lungi da ogni plebeio o publico
  • stilo di parlare, si trovassero parole degne di ragionare dinanzi alla
  • divinitá, nelle quali le si porgessero sacrate lusinghe. E oltre a
  • questo, accioché queste parole paressero aver piú d'efficacia, vollero
  • che fossero sotto legge di certi numeri composte, per li quali alcuna
  • dolcezza si sentisse, e cacciassesi il rincrescimento e la noia. E
  • certo, questo non in volgar forma o usitata, ma con artificiosa ed
  • esquisita e nuova convenne che si facesse. La qual forma li greci
  • appellano «_poetes_»; laonde nacque, che quello che in cotale forma
  • fatto fosse s'appellasse «_poesis_»; e quegli, che ciò facessero o
  • cotale modo di parlare usassono, si chiamassero «poeti».
  • Questa adunque fu la prima origine del nome della poesia, e per
  • consequente de' poeti, comeché altri n'assegnino altre ragioni, forse
  • buone: ma questa mi piace piú.
  • Questa buona e laudevole intenzione della rozza etá mosse molti a
  • diverse invenzioni nel mondo multiplicante per apparere; e dove i
  • primi una sola deitá onoravano, mostrarono i seguenti molte esserne,
  • comeché quella una dicessono oltre ad ogni altra ottenere il
  • principato; le quali molte vollero che fossero il Sole, la Luna,
  • Saturno, Giove e ciascuno degli altri de' sette pianeti, dagli loro
  • effetti dando argomento alla loro deitá; e da questi vennero a
  • mostrare ogni cosa utile agli uomini, quantunque terrena fosse, deitá
  • essere, sí come il fuoco, l'acqua, la terra e simiglianti. Alle quali
  • tutte e versi e onori e sacrifici s'ordinarono. E poi susseguentemente
  • cominciarono diversi in diversi luoghi, chi con uno ingegno, chi con
  • un altro, a farsi sopra la moltitudine indòtta della sua contrada
  • maggiori; diffinendo le rozze quistioni, non secondo scritta legge,
  • ché non l'aveano ancora, ma secondo alcuna naturale equitá, della
  • quale piú uno che un altro era dotato; dando alla loro vita e alli
  • loro costumi ordine, dalla natura medesima piú illuminati; resistendo
  • con le loro corporali forze alle cose avverse possibili ad avvenire; e
  • a chiamarsi re; e mostrarsi alla plebe e con servi e con ornamenti non
  • usati infino a que' tempi dagli uomini a farsi ubbidire; e ultimamente
  • a farsi adorare. Il che, solo che fosse chi 'l presumesse, sanza
  • troppa difficultá avvenia; percioché a' rozzi popoli parevano, cosí
  • vedendogli, non uomini ma iddii. Questi cotali, non fidandosi tanto
  • delle lor forze, cominciarono ad aumentare le religioni, e con la fede
  • di quelle a impaurire i suggetti e a strignere con sacramenti alla
  • loro obbedienza quegli li quali non vi si sarebbono potuti con forza
  • costrignere. E oltre a questo diedono opera a deificare li lor padri,
  • li loro avoli e li loro maggiori, accioché piú fossero e temuti e
  • avuti in reverenzia dal vulgo. Le quali cose non si poterono
  • comodamente fare senza l'oficio de' poeti, li quali, sí per ampliare
  • la loro fama, sí per compiacere a' prencipi, sí per dilettare i
  • sudditi, e sí per persuadere il virtuosamente operare a ciascuno;
  • quello che con aperto parlare saria suto della loro intenzione
  • contrario, con fizioni varie e maestrevoli, male da' grossi oggi non
  • che a quel tempo intese, facevano credere quello che li prencipi
  • volevan che si credesse; servando negli nuovi iddii e negli uomini,
  • gli quali degl'iddii nati fingevano, quello medesimo stile che nel
  • vero Iddio solamente e nel suo lusingarlo avevan gli primi usato. Da
  • questo si venne allo adequare i fatti de' forti uomini a quegli
  • degl'iddii; donde nacque il cantare con eccelso verso le battaglie e
  • gli altri notabili fatti degli uomini mescolatamente con quegli
  • degl'iddii; il quale e fu ed è oggi, insieme con l'altre cose di sopra
  • dette, uficio ed esercizio di ciascuno poeta. E percioché molti non
  • intendenti credono la poesia niuna altra cosa essere che solamente un
  • fabuloso parlare, oltre al promesso mi piace brievemente quella essere
  • teologia dimostrare, prima ch'io vegna a dire perché di lauro si
  • coronino i poeti.
  • XXII
  • DIFESA DELLA POESIA
  • Se noi vorremo por giú gli animi e con ragion riguardare, io mi credo
  • che assai leggiermente potremo vedere gli antichi poeti avere imitate,
  • tanto quanto a lo 'ngegno umano è possibile, le vestigie dello Spirito
  • santo; il quale, sí come noi nella divina Scrittura veggiamo, per la
  • bocca di molti, i suoi altissimi secreti revelò a' futuri, facendo
  • loro sotto velame parlare ciò che a debito tempo per opera, senza
  • alcuno velo, intendeva di dimostrare. Impercioché essi, se noi
  • ragguarderemo ben le loro opere, accioché lo imitatore non paresse
  • diverso dallo imitato, sotto coperta d'alcune fizioni, quello che
  • stato era, o che fosse al loro tempo presente, o che disideravano o
  • che presumevano che nel futuro dovesse avvenire, discrissono; per che,
  • come che ad uno fine l'una scrittura e l'altra non riguardasse, ma
  • solo al modo del trattare, al che piú guarda al presente l'animo mio,
  • ad amendune si potrebbe dare una medesima laude, usando di Gregorio le
  • parole. Il quale della sacra Scrittura dice ciò che ancora della
  • poetica dir si puote, cioè che essa in un medesimo sermone, narrando,
  • apre il testo e il misterio a quel sottoposto; e cosí ad un'ora
  • coll'uno gli savi esercita e con l'altro gli semplici riconforta, e ha
  • in publico donde li pargoletti nutrichi, e in occulto serva quello
  • onde essa le menti de' sublimi intenditori con ammirazione tenga
  • sospese. Percioché pare essere un fiume, accioché io cosí dica, piano
  • e profondo, nel quale il piccioletto agnello con gli piè vada, e il
  • grande elefante ampissimamente nuoti. Ma da procedere è al verificare
  • delle cose proposte.
  • Intende la divina Scrittura, la qual noi «teologia» appelliamo, quando
  • con figura d'alcuna istoria, quando col senso d'alcuna visione, quando
  • con lo 'ntendimento d'alcun lamento, e in altre maniere assai,
  • mostrarci l'alto misterio della incarnazione del Verbo divino, la vita
  • di quello, le cose occorse nella sua morte, e la resurrezione
  • vittoriosa, e la mirabile ascensione, e ogni altro suo atto, per lo
  • quale noi ammaestrati, possiamo a quella gloria pervenire, la quale
  • Egli e morendo e resurgendo ci aperse, lungamente stata serrata a noi
  • per la colpa del primiero uomo. Cosí li poeti nelle loro opere, le
  • quali noi chiamiamo «poesia», quando con fizioni di vari iddii, quando
  • con trasmutazioni d'uomini in varie forme, e quando con leggiadre
  • persuasioni, ne mostrano le cagioni delle cose, gli effetti delle
  • virtú e de' vizi, e che fuggire dobbiamo e che seguire, accioché
  • pervenire possiamo, virtuosamente operando, a quel fine, il quale
  • essi, che il vero Iddio debitamente non conosceano, somma salute
  • credevano. Volle lo Spirito santo mostrare nel rubo verdissimo, nel
  • quale Moisé vide, quasí come una fiamma ardente, Iddio, la verginitá
  • di Colei che piú che altra creatura fu pura, e che dovea essere
  • abitazione e ricetto del Signore della natura, non doversi, per la
  • concezione né per lo parto del Verbo del Padre, contaminare. Volle per
  • la visione veduta da Nabucodonosor, nella statua di piú metalli
  • abbattuta da una pietra convertita in monte, mostrare tutte le
  • preterite etá dalla dottrina di Cristo, il quale fu ed è viva pietra,
  • dovere summergersi; e la cristiana religione, nata di questa pietra,
  • divenire una cosa immobile e perpetua, sí come gli monti veggiamo.
  • Volle nelle lamentazioni di Ieremia, l'eccidio futuro di Ierusalem
  • dichiarare.
  • Similemente li nostri poeti, fingendo Saturno avere molti figliuoli, e
  • quegli, fuori che quattro, divorar tutti, niuna altra cosa vollono per
  • tale fizione farci sentire, se non per Saturno il tempo, nel quale
  • ogni cosa si produce, e come ella in esso è prodotta, cosí è esso di
  • tutte corrompitore, e tutte le riduce a niente. I quattro suoi
  • figliuoli non divorati da lui, è l'uno Giove, cioè l'elemento del
  • fuoco; il secondo è Giunone, sposa e sorella di Giove, cioè l'aere,
  • mediante la quale il fuoco quaggiú opera li suoi effetti: il terzo è
  • Nettuno, iddio del mare, cioè l'elemento dell'acqua; e il quarto e
  • ultimo è Plutone, iddio del ninferno, cioè la terra, piú bassa che
  • alcuno altro elemento. Similemente fingono li nostri poeti Ercule
  • d'uomo essere in dio trasformato, e Licaone in lupo: moralmente
  • volendo mostrarci che, virtuosamente operando, come fece Ercule,
  • l'uomo diventa iddio per participazione in cielo; e, viziosamente
  • operando, come Licaone fece, quantunque egli paia uomo, nel vero si
  • può dire quella bestia, la quale da ciascuno si conosce per effetto
  • piú simile al suo difetto: sí come Licaone per rapacitá e per
  • avarizia, le quali a lupo sono molto conformi, si finge in lupo esser
  • mutato. Similemente fingono li nostri poeti la bellezza de' campi
  • elisi, per la quale intendo la dolcezza del paradiso; e la oscuritá di
  • Dite, per la quale prendo l'amaritudine dello 'nferno; accioché noi,
  • tratti dal piacere dell'uno, e dalla noia dell'altro spaventati,
  • seguitiamo le virtú che in Eliso ci meneranno, e i vizi fuggiamo che
  • in Dite ci farieno trarupare. Io lascio il tritare con piú particulari
  • esposizioni queste cose, percioché, se quanto si converrebbe e
  • potrebbe le volessi chiarire, comeché elle piú piacevoli ne
  • divenissero e piú facessero forte il mio argomento, dubito non mi
  • tirassero piú oltre molto che la principale materia non richiede e che
  • io non voglio andare. E certo, se piú non se ne dicesse che quello
  • ch'è detto, assai si dovrebbe comprendere la teologia e la poesia
  • convenirsi quanto nella forma dell'operare, ma nel suggetto dico
  • quelle non solamente molto essere diverse, ma ancora avverse in alcuna
  • parte: percioché il suggetto della sacra teologia è la divina veritá,
  • quello dell'antica poesí sono gl'iddii de' gentili e gli uomini.
  • Avverse sono, in quanto la teologia niuna cosa presuppone se non vera;
  • la poesia ne suppone alcune per vere, le quali sono falsissime ed
  • erronee e contra la cristiana religione. Ma, percioché alcuni
  • disensati si levano contra li poeti, dicendo loro sconce favole e male
  • a niuna veritá consonanti avere composte, e che in altra forma che con
  • favole dovevano la loro sofficienzia mostrare e a' mondani dare la
  • loro dottrina; voglio ancora alquanto piú oltre procedere col presente
  • ragionamento.
  • Guardino adunque questi cotali le visioni di Daniello, quelle d'Isaia,
  • quelle d'Ezechiel e degli altri del Vecchio Testamento con divina
  • penna discritte, e da Colui mostrate al quale non fu principio né sará
  • fine. Guardinsi ancora nel Nuovo le visioni dell'evangelista, piene
  • agl'intendenti di mirabile veritá; e, se niuna poetica favola si
  • truova tanto di lungi dal vero o dal verisimile, quanto nella
  • corteccia appaiono queste in molte parti, concedasi che solamente i
  • poeti abbiano dette favole da non potere dare diletto né frutto. Senza
  • dire alcuna cosa alla riprensione che fanno de' poeti, in quanto la
  • loro dottrina in favole ovvero sotto favole hanno mostrata, mi potrei
  • passare; conoscendo che, mentre che essi mattamente gli poeti
  • riprendono di ciò, incautamente caggiono in biasimare quello Spirito,
  • il quale nulla altra cosa è che via, vita e veritá: ma pure alquanto
  • intendo di soddisfargli.
  • Manifesta cosa è che ogni cosa, che con fatica s'acquista, avere
  • alquanto piú di dolcezza che quella che vien senz'affanno. La veritá
  • piana, percioch'è tosto compresa con piccole forze, diletta e passa
  • nella memoria. Adunque, accioché con fatica acquistata fosse piú
  • grata, e perciò meglio si conservasse, li poeti sotto cose molto ad
  • essa contrarie apparenti, la nascosero; e perciò favole fecero, piú
  • che altra coperta, perché la bellezza di quelle attraesse coloro, li
  • quali né le dimostrazion filosofiche, né le persuasioni avevano potuto
  • a sé tirare. Che dunque direm de' poeti? terremo ch'essi sieno stati
  • uomini insensati, come li presenti dissensati, parlando e non
  • sappiendo che, gli giudicano? Certo, no; anzi furono nelle loro
  • operazioni di profondissimo sentimento, quanto è nel frutto nascoso, e
  • d'eccellentissima e d'ornata eloquenzia nelle cortecce e nelle frondi
  • apparenti. Ma torniamo dove lasciammo.
  • Dico che la teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire, dove
  • uno medesimo sia il suggetto; anzi dico piú, che la teologia
  • niun'altra cosa è che una poesia di Dio. E ch'altra cosa è che poetica
  • fizione nella Scrittura dire Cristo essere ora leone e ora agnello e
  • ora vermine, e quando drago e quando pietra, e in altre maniere molte,
  • le quali voler tutte raccontare sarebbe lunghissimo? che altro suonano
  • le parole del Salvatore nello evangelio, se non uno sermone da' sensi
  • alieno? il quale parlare noi con piú usato vocabolo chiamiamo
  • «allegoria». Dunque bene appare, non solamente la poesí essere
  • teologia, ma ancora la teologia essere poesia. E certo, se le mie
  • parole meritano poca fede in sí gran cosa, io non me ne turberò; ma
  • credasi ad Aristotile, degnissimo testimonio a ogni gran cosa, il
  • quale afferma sé aver trovato li poeti essere stati li primi
  • teologizzanti. E questo basti quanto a questa parte; e torniamo a
  • mostrare perché a' poeti solamente, tra gli scienziati, l'onore della
  • corona dell'alloro conceduto fosse.
  • XXIII
  • DELL'ALLORO CONCEDUTO AI POETI
  • Tra l'altre nazioni, le quali sopra il circuito della terra son molte,
  • li greci si crede che sieno quegli alli quali primieramente la
  • filosofia sé e li suoi segreti aprisse; de' tesori della quale essi
  • trassero la dottrina militare, la vita politica e altre care cose
  • assai, per le quali essi oltre a ogni altra nazione divennero famosi e
  • reverendi. Ma intra l'altre, tratte del costei tesoro da loro, fu la
  • santissima sentenzia di Solone nel principio posta di questa operetta;
  • e accioché la loro republica, la quale piú che altra allora fioriva,
  • diritta e andasse e stesse sopra due piedi, e le pene a' nocenti e i
  • meriti ai valorosi magnificamente ordinarono e osservarono. Ma, intra
  • gli altri meriti stabiliti da loro a chi bene adoperasse, fu questo il
  • precipuo: di coronare in publico, e con publico consentimento, di
  • frondi d'alloro li poeti dopo la vittoria delle loro fatiche, e
  • gl'imperadori, li quali vittoriosamente avessero la republica
  • aumentata; giudicando che igual gloria si convenisse a colui per la
  • cui virtú le cose umane erano e servate e aumentate, che a colui da
  • cui le divine eran trattate. E comeché di questo onore li greci
  • fossero inventori, esso poi trapassò a' latini, quando la gloria e
  • l'arme parimente di tutto il mondo diedero luogo al romano nome; e
  • ancora, almeno nelle coronazioni de' poeti, comeché rarissimamente
  • avvenga, vi dura. Ma, perché a tale coronazione piú il lauro che altra
  • fronda eletto sia, non dovrá essere a veder rincrescevole.
  • XXIV
  • ORIGINE DI QUESTA USANZA
  • Sono alcuni li quali credono, percioché sanno Danne amata da Febo e in
  • lauro convertita, essendo Febo e il primo autore e fautore de' poeti
  • stato e similmente triunfatore, per amore a quelle frondi portato, di
  • quelle le sue cetere e i triunfi aver coronati; e quinci essere stato
  • preso esempio dagli uomini, e per conseguente essere quello, che da
  • Febo fu prima fatto, cagione di tale coronazione e di tai frondi
  • infino a questo giorno a' poeti e agl'imperadori. E certo tale
  • opinione non mi spiace, né nego cosí poter essere stato; ma tuttavia
  • me muove altra ragione, la quale è questa. Secondo che vogliono
  • coloro, li quali le virtú delle piante ovvero la loro natura
  • investigarono, il lauro tra l'altre piú sue proprietá n'ha tre
  • laudevoli e notevoli molto: la prima si è, come noi veggiamo, che mai
  • egli non perde né verdezza, né fronda; la seconda si è, che non si
  • truova questo albore mai essere stato fulminato, il che di niuno altro
  • leggiamo essere avvenuto; la terza, che egli è odorifero molto, sí
  • come noi sentiamo: le quali tre proprietá estimarono gli antichi
  • inventori di questo onore convenirsi con le virtuose opere de' poeti e
  • de' vittoriosi imperadori. E primieramente la perpetua viriditá di
  • queste frondi dissono dimostrare la fama delle costoro opere, cioè di
  • coloro che d'esse si coronavano o coronerebbono nel futuro, sempre
  • dovere stare in vita. Appresso estimarono l'opere di questi cotali
  • essere di tanta potenzia, che né il fuoco della invidia, né la folgore
  • della lunghezza del tempo, la quale ogni cosa consuma, dovesse mai
  • queste potere fulminare, se non come quello albero fulminava la
  • celeste folgore. E oltre a questo diceano queste opere de' giá detti
  • per lunghezza di tempo mai dover divenire meno piacevoli e graziose a
  • chi l'udisse o le leggesse, ma sempre dovere essere accettevoli e
  • odorose. Laonde meritamente si confaceva la corona di cotai frondi,
  • piú ch'altra, a cotali uomini, gli cui effetti, in tanto quanto vedere
  • possiamo, erano a lei conformi. Per che non senza cagione il nostro
  • Dante era ardentissimo disideratore di tale onore ovvero di cotale
  • testimonia di tanta vertú, quale questa è a coloro, li quali degni si
  • fanno di doversene ornare le tempie. Ma tempo è di tornare lá onde,
  • intrando in questo, ci dipartimmo.
  • XXV
  • CARATTERE DI DANTE
  • Fu il nostro poeta, oltre alle cose predette, d'animo alto e
  • disdegnoso molto; tanto che, cercandosi per alcun suo amico, il quale
  • ad istanzia de' suoi prieghi il facea, che egli potesse ritornare in
  • Fiorenza, il che egli oltre ad ogni altra cosa sommamente disiderava,
  • né trovandosi a ciò alcun modo con coloro li quali il governo della
  • republica allora aveano nelle mani, se non uno, il quale era questo:
  • che egli per certo spazio stesse in prigione, e dopo quello in alcuna
  • solennitá publica fosse misericordievolmente alla nostra principale
  • ecclesia offerto, e per conseguente libero e fuori d'ogni
  • condennagione per adietro fatta di lui; la qual cosa parendogli
  • convenirsi e usarsi in qualunque e depressi e infami uomini, e non in
  • altri: per che oltre al suo maggiore disiderio, preelesse di stare in
  • esilio, anzi che per cotal via tornare in casa sua. Oh isdegno
  • laudevole di magnanimo, quanto virilmente operasti, reprimendo
  • l'ardente disio del ritornare per via meno che degna ad uomo nel
  • grembo della filosofia nutricato!
  • Molto simigliantemente presunse di sé, né gli parve meno valere,
  • secondo che li suoi contemporanei rapportano, che el valesse; la qual
  • cosa, tra l'altre volte, apparve una notabilmente, mentre ch'egli era
  • con la sua setta nel colmo del reggimento della republica. Che,
  • conciofossecosaché per coloro li quali erano depressi fosse chiamato,
  • mediante Bonifazio papa ottavo, a ridirizzare lo stato della nostra
  • cittá, un fratello ovvero congiunto di Filippo allora re di Francia,
  • il cui nome fu Carlo; si ragunarono a uno consiglio per provedere a
  • questo fatto tutti li prencipi della setta, con la quale esso tenea; e
  • quivi tra l'altre cose providero, che ambasceria si dovesse mandare al
  • papa, il quale allora era a Roma, per la quale s'inducesse il detto
  • papa a dovere ostare alla venuta del detto Carlo, ovvero lui, con
  • concordia della setta, la quale reggeva, far venire. E venuto al
  • diliberare chi dovesse esser prencipe di cotale legazione, fu per
  • tutti detto che Dante fosse desso. Alla quale richiesta Dante,
  • alquanto sopra a sé stato, disse:--Se io vo, chi rimane? se io
  • rimango, chi va?,--quasi esso solo fosse colui che tra tutti valesse,
  • e per cui tutti gli altri valessero. Questa parola fu intesa e
  • raccolta, ma quello che di ciò seguisse non fa al presente proposito,
  • e però, passando avanti, il lascio stare.
  • Oltre a queste cose, fu questo valente uomo in tutte le sue avversitá
  • fortissimo: solo in una cosa non so se io mi dica fu impaziente o
  • animoso, cioè in opera pertenente a parte, poi che in esilio fu,
  • troppo piú che alla sua sufficienzia non appartenea, e ch'egli non
  • volea che di lui per altrui si credesse. E accioché a qual parte fosse
  • cosí animoso e pertinace appaia, mi pare sia da procedere alquanto piú
  • oltre scrivendo.
  • Io credo che giusta ira di Dio permettesse, giá è gran tempo, quasi
  • tutta Toscana e Lombardia in due parti dividersi: delle quali, onde
  • cotali nomi s'avessero, non so; ma l'una si chiamò e chiama «parte
  • guelfa», e l'altra fu «ghibellina» chiamata. E di tanta efficacia e
  • reverenzia furono negli stolti animi di molti questi due nomi, che,
  • per difendere quello che alcuno avesse eletto per suo contra il
  • contrario, non gli era di perdere gli suoi beni e ultimamente la vita,
  • se bisogno fosse fatto, malagevole. E sotto questi titoli molte volte
  • le cittá italiche sostennero di gravissime pressure e mutamenti; e
  • intra l'altre la nostra cittá, quasi capo e dell'uno nome e
  • dell'altro, secondo il mutamento de' cittadini; intanto che gli
  • maggiori di Dante per guelfi da' ghibellini furono due volte cacciati
  • di casa loro, ed egli similemente, sotto il titolo di guelfo, tenne i
  • freni della republica in Firenze. Della quale cacciato, come mostrato
  • è, non da' ghibellini ma da' guelfi, e veggendo sé non potere
  • ritornare, in tanto mutò l'animo, che niuno piú fiero ghibellino e a'
  • guelfi avversario fu come lui; e quello di che io piú mi vergogno in
  • servigio della sua memoria è che publichissima cosa è in Romagna, lui
  • ogni femminella, ogni piccol fanciullo ragionante di parte e dannante
  • la ghibellina, l'avrebbe a tanta insania mosso, che a gittare le
  • pietre l'avrebbe condotto, non avendo taciuto. E con questa animositá
  • si visse infino alla morte.
  • Certo, io mi vergogno dovere con alcuno difetto maculare la fama di
  • cotanto uomo; ma il cominciato ordine delle cose in alcuna parte il
  • richiede; percioché, se nelle cose meno che laudevoli in lui, mi
  • tacerò, io torrò molta fede alle laudevoli giá mostrate. A lui
  • medesimo adunque mi scuso, il quale per avventura me scrivente con
  • isdegnoso occhio d'alta parte del cielo ragguarda.
  • Tra cotanta virtú, tra cotanta scienzia, quanta dimostrato è di sopra
  • essere stata in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la
  • lussuria, e non solamente ne' giovani anni, ma ancora ne' maturi. Il
  • quale vizio, comeché naturale e comune e quasi necessario sia, nel
  • vero non che commendare, ma scusare non si può degnamente. Ma chi sará
  • tra' mortali giusto giudice a condennarlo? Non io. Oh poca fermezza,
  • oh bestiale appetito degli uomini, che cosa non possono le femmine in
  • noi, s'elle vogliono, che, eziandio non volendo, posson gran cose?
  • Esse hanno la vaghezza, la bellezza e il naturale appetito e altre
  • cose assai continuamente per loro ne' cuori degli uomini procuranti; e
  • che questo sia vero, lasciamo stare quello che Giove per Europa, o
  • Ercule per Iole, o Paris per Elena facessero; che, percioché poetiche
  • cose sono, molti di poco sentimento le dirien favole; ma mostrisi per
  • le cose non convenevoli ad alcuno di negare. Era ancora nel mondo piú
  • che una femmina quando il nostro primo padre, lasciato il comandamento
  • fattogli dalla propia bocca di Dio, s'accostò alle persuasioni di lei?
  • Certo no. E David, non ostante che molte n'avesse, solamente veduta
  • Bersabé, per lei dimenticò Iddio, il suo regno, sé e la sua onestá, e
  • adultero prima e poi omicida divenne: che si dee credere ch'egli
  • avesse fatto, se ella alcuna cosa avesse comandato? E Salomone, al cui
  • senno niuno, dal figliuolo di Dio in fuori, aggiunse mai, non
  • abbandonò colui che savio l'aveva fatto, e per piacere a una femmina
  • s'inginocchiò e adorò Baalim? Che fece Erode? che altri molti, da
  • niuna altra cosa tirati che dal piacer loro? Adunque tra tanti e tali
  • non iscusato, ma, accusato con assai meno curva fronte che solo, può
  • passare il nostro poeta. E questo basti al presente de' suoi costumi
  • piú notabili avere contato.
  • XXVI
  • DELLE OPERE COMPOSTE DA DANTE
  • Compose questo glorioso poeta piú opere ne' suoi giorni, delle quali
  • fare ordinata memoria credo che sia convenevole, accioché né alcuno
  • delle sue s'intitolasse, né a lui fossero per avventura intitolate
  • l'altrui. Egli primieramente, duranti ancora le lagrime della morte
  • della sua Beatrice, quasi nel suo ventesimosesto anno compose in un
  • volumetto, il quale egli intitolò _Vita nova_, certe operette, sí come
  • sonetti e canzoni, in diversi tempi davanti in rima fatte da lui,
  • maravigliosamente belle; di sopra da ciascuna partitamente e
  • ordinatamente scrivendo le cagioni che a quelle fare l'avean mosso, e
  • di dietro ponendo le divisioni delle precedenti opere. E comeché egli
  • d'avere questo libretto fatto, negli anni piú maturi si vergognasse
  • molto, nondimeno, considerata la sua etá, è egli assai bello e
  • piacevole, e massimamente a' volgari.
  • Appresso questa compilazione piú anni, raguardando egli della sommitá
  • del governo della republica, sopra la quale stava, e veggendo in
  • grandissima parte, cosí come di sí fatti luoghi si vede, qual fosse la
  • vita degli uomini, e quali fossero gli errori del vulgo, e come
  • fossero pochi i disvianti da quello e di quanto onore degni fossero, e
  • quegli, che a quello s'accostassero, di quanta confusione; dannando
  • gli studi di questi cotali e molto piú li suoi commendando, gli venne
  • nell'animo un alto pensiero, per lo quale a un'ora, cioè in una
  • medesima opera, propose, mostrando la sua sofficienzia, di mordere con
  • gravissime pene i viziosi, e con altissimi premi li valorosi onorare,
  • e a sé perpetua gloria apparecchiare. E, percioché, come giá è
  • mostrato, egli aveva a ogni studio preposta la poesia, poetica opera
  • estimò di comporre. E, avendo molto davanti premeditato quello che
  • fare dovesse, nel suo trentacinquesimo anno si cominciò a dare al
  • mandare ad effetto ciò che davanti premeditato avea, cioè a volere
  • secondo i meriti e mordere e premiare, secondo la sua diversitá, la
  • vita degli uomini. La quale, percioché conobbe essere di tre maniere,
  • cioè viziosa, o da' vizi partentesi e andante alla vertú, o virtuosa;
  • quella in tre libri, dal mordere la viziosa cominciando e finendo nel
  • premiare la virtuosa, mirabilmente distinse in un volume, il quale
  • tutto intitolò _Comedia_. De' quali tre libri egli ciascuno distinse
  • per canti e i canti per rittimi, sí come chiaro si vede; e quello in
  • rima volgare compose con tanta arte, con sí mirabile ordine e con sí
  • bello, che niuno fu ancora che giustamente quello potesse in alcuno
  • atto riprendere. Quanto sottilmente egli in esso poetasse pertutto,
  • coloro, alli quali è tanto ingegno prestato che 'ntendano, il possono
  • vedere. Ma, sí come noi veggiamo le gran cose non potersi in brieve
  • tempo comprendere, e per questo conoscer dobbiamo cosí alta, cosí
  • grande, cosí escogitata impresa, come fu tutti gli atti degli uomini e
  • i loro meriti poeticamente volere sotto versi volgari e rimati
  • racchiudere, non essere stato possibile in picciolo spazio avere al
  • suo fine recata: e massimamente da uomo, il quale da molti e vari casi
  • della fortuna, pieni tutti d'angoscia e d'amaritudine venenati, sia
  • stato agitato (come di sopra mostrato è che fu Dante): per che
  • dall'ora che di sopra è detta che egli a cosí alto lavorio si diede
  • infino allo stremo della sua vita, comeché altre opere, come apparirá,
  • non ostante questa, componesse in questo mezzo, gli fu fatica
  • continua. Né fia di soperchio in parte toccare d'alcuni accidenti
  • intorno al principio e alla fine di quella avvenuti.
  • Dico che, mentre che egli era piú attento al glorioso lavoro, e giá
  • della prima parte di quello, la quale intitola _Inferno_, aveva
  • composti sette canti, mirabilmente fingendo, e non mica come gentile,
  • ma come cristianissimo poetando, cosa sotto questo titolo mai avanti
  • non fatta; sopravvenne il gravoso accidente della sua cacciata, o fuga
  • che chiamar si convegna, per lo quale egli e quella e ogni altra cosa
  • abbandonata, incerto di se medesimo, piú anni con diversi amici e
  • signori andò vagando. Ma, come noi dovemo certissimamente credere a
  • quello che Iddio dispone niuna cosa contraria la fortuna potere
  • operare, per la quale, e se forse vi può porre indugio, istôrla possa
  • dal debito fine; avvenne che alcuno per alcuna sua scrittura forse a
  • lui opportuna, cercando fra cose di Dante in certi forzieri state
  • fuggite subitamente in luoghi sacri, nel tempo che tumultuosamente la
  • ingrata e disordinata plebe gli era, piú vaga di preda che di giusta
  • vendetta, corsa alla casa, trovò li detti sette canti stati da Dante
  • composti, gli quali con ammirazione, non sappiendo che si fossero,
  • lesse, e, piacendogli sommamente, e con ingegno sottrattigli del luogo
  • dove erano, gli portò ad un nostro cittadino, il cui nome fu Dino di
  • messer Lambertuccio, in quegli tempi famosissimo dicitore per rima in
  • Firenze, e mostrogliele. Li quali veggendo Dino, uomo d'alto
  • intelletto, non meno che colui che portati gliele avea, si maravigliò
  • sí per lo bello e pulito e ornato stile del dire, sí per la profonditá
  • del senso, il quale sotto la bella corteccia delle parole gli pareva
  • sentire nascoso: per le quali cose agevolmente insieme col portatore
  • di quegli, e sí ancora per lo luogo onde tratti gli avea, estimò
  • quegli essere, come erano, opera stata di Dante. E, dolendosi quella
  • essere imperfetta rimasa, comeché essi non potessero seco presumere a
  • qual fine fosse il termine suo, fra loro diliberarono di sentire dove
  • Dante fosse, e quello, che trovato avevan, mandargli, accioché, se
  • possibile fosse, a tanto principio desse lo 'mmaginato fine. E,
  • sentendo dopo alcuna investigazione lui essere appresso il marchese
  • Morruello, non a lui, ma al marchese scrissono il loro disiderio, e
  • mandarono li sette canti; gli quali poi che il marchese, uomo assai
  • intendente, ebbe veduti e molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante,
  • domandandolo se esso sapea cui opera stati fossero; li quali Dante
  • riconosciuti subito, rispose che sua. Allora il pregò il marchese
  • che gli piacesse di non lasciare senza debito fine sí alto
  • principio.--Certo--disse Dante,--io mi credea nella ruina delle mie
  • cose questi con molti altri miei libri avere perduti, e perciò, sí per
  • questa credenza e sí per la moltitudine dell'altre fatiche per lo mio
  • esilio sopravvenute, del tutto avea l'alta fantasia, sopra quest'opera
  • presa, abbandonata; ma, poiché la fortuna inopinatamente me gli ha
  • ripinti dinanzi, e a voi aggrada, io cercherò di ritornarmi a memoria
  • il primo proposito, e procederò secondo che data mi fia la grazia.--E
  • reassunta, non sanza fatica, dopo alquanto tempo la fantasia lasciata,
  • seguí: «Io dico, seguitando, ch'assai prima» ecc.; dove assai
  • manifestamente, chi ben riguarda, può la ricongiunzione dell'opera
  • intermessa conoscere.
  • Ricominciata adunque da Dante la magnifica opera, non forse, secondo
  • che molti estimerebbono, senza piú interromperla la perdusse alla
  • fine, anzi piú volte, secondo che la gravitá de' casi sopravvegnenti
  • richiedea, quando mesi e quando anni, senza potervi operare alcuna
  • cosa, mise in mezzo; né tanto si poté avacciare, che prima nol
  • sopraggiugnesse la morte, ch'egli tutta publicare la potesse. Egli era
  • suo costume, qualora sei o otto o piú o meno canti fatti n'avea,
  • quegli, prima che alcun altro gli vedesse, donde che egli fosse,
  • mandare a messer Cane della Scala, il quale egli oltre a ogni altro
  • uomo avea in reverenza; e, poi che da lui eran veduti, ne facea copia
  • a chi la ne volea. E in cosí fatta maniera avendogliele tutti, fuori
  • che gli ultimi tredici canti, mandati, e quegli avendo fatti, né
  • ancora mandatigli; avvenne ch'egli, senza avere alcuna memoria di
  • lasciargli, si mori. E, cercato da que' che rimasero, e figliuoli e
  • discepoli, piú volte e in piú mesi, fra ogni sua scrittura, se alla
  • sua opera avesse fatta alcuna fine, né trovandosi per alcun modo li
  • canti residui, essendone generalmente ogni suo amico cruccioso, che
  • Iddio non l'aveva almeno tanto prestato al mondo ch'egli il picciolo
  • rimanente della sua opera avesse potuto compiere, dal piú cercare, non
  • trovandogli, s'erano, disperati, rimasi.
  • Eransi Iacopo e Piero, figliuoli di Dante, de' quali ciascuno era
  • dicitore in rima, per persuasioni d'alcuni loro amici, messi a volere,
  • in quanto per loro si potesse, supplire la paterna opera, accioché
  • imperfetta non procedesse; quando a Iacopo, il quale in ciò era molto
  • piú che l'altro fervente, apparve una mirabile visione, la quale non
  • solamente dalla stolta presunzione il tolse, ma gli mostrò dove
  • fossero li tredici canti, li quali alla divina _Comedia_ mancavano, e
  • da loro non saputi trovare.
  • Raccontava uno valente uomo ravignano, il cui nome fu Piero Giardino,
  • lungamente discepolo stato di Dante, che, dopo l'ottavo mese della
  • morte del suo maestro, era una notte, vicino all'ora che noi chiamiamo
  • «matutino», venuto a casa sua il predetto Iacopo, e dettogli sé quella
  • notte, poco avanti a quell'ora, avere nel sonno veduto Dante suo
  • padre, vestito di candidissimi vestimenti e d'una luce non usata
  • risplendente nel viso, venire a lui; il quale gli parea domandare
  • s'egli vivea, e udire da lui per risposta di sí, ma della vera vita,
  • non della nostra; per che, oltre a questo, gli pareva ancora
  • domandare, s'egli avea compiuta la sua opera anzi il suo passare alla
  • vera vita, e, se compiuta l'avea, dove fosse quello che vi mancava, da
  • loro giammai non potuto trovare. A questo gli parea la seconda volta
  • udire per risposta:--Sí, io la compie'--; e quinci gli parea che 'l
  • prendesse per mano e menasselo in quella camera dove era uso di
  • dormire quando in questa vita vivea; e, toccando una parte di quella,
  • dicea:--Egli è qui quello che voi tanto avete cercato.--E questa
  • parola detta, ad una ora il sonno e Dante gli parve che si partissono.
  • Per la qual cosa affermava, sé non esser potuto stare senza venirgli a
  • significare ciò che veduto avea, accioché insieme andassero a cercare
  • nel luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente nella memoria
  • aveva segnato, a vedere se vero spirito o falsa delusione questo gli
  • avesse disegnato. Per la quale cosa, restando ancora gran pezzo di
  • notte, mossisi insieme, vennero al mostrato luogo, e quivi trovarono
  • una stuoia al muro confitta, la quale leggermente levatane, videro nel
  • muro una finestretta da niuno di loro mai piú veduta, né saputo
  • ch'ella vi fosse, e in quella trovarono alquante scritte, tutte per
  • l'umiditá del muro muffate e vicine al corrompersi, se guari piú state
  • vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, leggendole,
  • videro contenere li tredici canti tanto da loro cercati. Per la qual
  • cosa lietissimi, quegli riscritti, secondo l'usanza dell'autore prima
  • gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta opera ricongiunsono
  • come si convenia. In cotale maniera l'opera, in molti anni compilata,
  • si vide finita.
  • Muovono molti, e intra essi alcuni savi uomini generalmente una
  • quistione cosí fatta: che conciofossecosa Dante fosse in iscienzia
  • solennissimo uomo, perché a comporre cosí grande, di sí alta materia e
  • sí notabile libro, come è questa sua _Comedia_, nel fiorentino idioma
  • si disponesse; perché non piú tosto in versi latini, come gli altri
  • poeti precedenti hanno fatto. A cosí fatta domanda rispondere, tra
  • molte ragioni, due a l'altre principali me ne occorrono. Delle quali
  • la prima è per fare utilitá piú comune a' suoi cittadini e agli altri
  • italiani: conoscendo che, se metricamente in latino, come gli altri
  • poeti passati, avesse scritto, solamente a' letterati avrebbe fatto
  • utile; scrivendo in volgare fece opera mai piú non fatta, e non tolse
  • il non potere esser inteso da' letterati, e mostrando la bellezza del
  • nostro idioma e la sua eccellente arte in quello, e diletto e
  • intendimento di sé diede agl'idioti, abbandonati per adrieto da
  • ciascheduno. La seconda ragione, che a questo il mosse, fu questa.
  • Vedendo egli li liberali studi del tutto abbandonati, e massimamente
  • da' prencipi e dagli altri grandi uomini, a' quali si soleano le
  • poetiche fatiche intitolare, e per questo e le divine opere di
  • Virgilio e degli altri solenni poeti non solamente essere in poco
  • pregio divenute, ma quasi da' piú disprezzate; avendo egli
  • incominciato, secondo che l'altezza della materia richiedea, in questa
  • guisa:
  • _Ultima regna canam, fluido contermina mundo,
  • spiritibus quae lata paient, quæ premia solvunt
  • pro meritis cuicumque suis,_ ecc.
  • il lasciò stare; e, immaginando invano le croste del pane porsi alla
  • bocca di coloro che ancora il latte suggano, in istile atto a' moderni
  • sensi ricominciò la sua opera e perseguilla in volgare.
  • Questo libro della _Comedia_, secondo il ragionare d'alcuno, intitolò
  • egli a tre solennissimi uomini italiani, secondo la sua triplice
  • divisione, a ciascuno la sua, in questa guisa: la prima parte, cioè lo
  • _'Nferno_, intitolò a Uguiccione della Faggiuola, il quale allora in
  • Toscana signore di Pisa era mirabilmente glorioso; la seconda parte,
  • cioè il _Purgatoro_, intitolò al marchese Moruello Malespina; la terza
  • parte, cioè il _Paradiso_, a Federigo terzo re di Cicilia. Alcuni
  • vogliono dire lui averlo intitolato tutto a messer Cane della Scala;
  • ma, quale si sia di queste due la veritá, niuna cosa altra n'abbiamo
  • che solamente il volontario ragionare di diversi; né egli è sí gran
  • fatto che solenne investigazione ne bisogni.
  • Similemente questo egregio autore nella venuta d'Arrigo settimo
  • imperadore fece un libro in latina prosa, il cui titolo è _Monarchia_,
  • il quale, secondo tre quistioni le quali in esso ditermina, in tre
  • libri divise. Nel primo, loicalmente disputando, pruova che a ben
  • essere del mondo sia di necessitá essere imperio; la quale è la prima
  • quistione. Nel secondo, per argomenti istoriografi procedendo, mostra
  • Roma di ragione ottenere il titolo dello imperio; ch'è la seconda
  • quistione. Nel terzo, per argomenti teologi pruova l'autoritá dello
  • 'mperio immediatamente procedere da Dio, e non mediante alcuno suo
  • vicario, come li cherici pare che vogliano; ch'è la terza quistione.
  • Questo libro piú anni dopo la morte dell'autore fu dannato da messer
  • Beltrando cardinale del Poggetto e legato di papa nelle parti di
  • Lombardia, sedente Giovanni papa ventesimosecondo. E la cagione fu
  • però che Lodovico duca di Baviera, dagli elettori della Magna eletto
  • in re de' romani, e venendo per la sua coronazione a Roma, contra il
  • piacere del detto Giovanni papa essendo in Roma, fece contra gli
  • ordinamenti ecclesiastici un frate minore, chiamato frate Pietro della
  • Corvara, papa, e molti cardinali e vescovi; e quivi a questo papa si
  • fece coronare. E, nata poi in molti casi della sua autoritá quistione,
  • egli e' suoi seguaci, trovato questo libro, a difensione di quella e
  • di sé molti degli argomenti in esso posti cominciarono a usare; per la
  • qual cosa il libro, il quale infino allora appena era saputo, divenne
  • molto famoso. Ma poi, tornatosi il detto Lodovico nella Magna, e li
  • suoi seguaci, e massimamente i cherici, venuti al dichino e dispersi;
  • il detto cardinale, non essendo chi a ciò s'opponesse, avuto il
  • soprascritto libro, quello in publico, sí come cose eretiche
  • contenente, dannò al fuoco. E il simigliante si sforzava di fare
  • dell'ossa dell'autore a eterna infamia e confusione della sua memoria,
  • se a ciò non si fosse opposto un valoroso e nobile cavaliere
  • fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa, il quale allora a Bologna,
  • dove ciò si trattava, si trovò, e con lui messer Ostagio da Polenta,
  • potente ciascuno assai nel cospetto del cardinale di sopra detto.
  • Oltre a questi compose il detto Dante due egloghe assai belle, le
  • quali furono intitolate e mandate da lui, per risposta di certi versi
  • mandatigli, a maestro Giovanni del Virgilio, del quale di sopra altra
  • volta è fatta menzione.
  • Compuose ancora un comento in prosa in fiorentino volgare sopra tre
  • delle sue canzoni distese, comeché egli appaia lui avere avuto
  • intendimento, quando il cominciò, di commentarle tutte, benché poi, o
  • per mutamento di proposito o per mancamento di tempo che avvenisse,
  • piú commentate non se ne truovano da lui; e questo intitolò
  • _Convivio_, assai bella e laudevole operetta.
  • Appresso, giá vicino alla sua morte, compuose uno libretto in prosa
  • latina, il quale egli intitolò _De vulgari eloquentia_, dove intendea
  • di dare dottrina, a chi imprendere la volesse, del dire in rima; e
  • comeché per lo detto libretto apparisca lui avere in animo di dovere
  • in ciò comporre quattro libri, o che piú non ne facesse dalla morte
  • soprapreso, o che perduti sieno gli altri, piú non appariscono che due
  • solamente.
  • Fece ancora questo valoroso poeta molte pistole prosaiche in latino,
  • delle quali ancora appariscono assai. Compuose molte canzoni distese,
  • sonetti e ballate assai e d'amore e morali, oltre a quelle che nella
  • sua _Vita Nova_ appariscono; delle quali cose non curo di fare spezial
  • menzione al presente.
  • In cosí fatte cose, quali di sopra sono dimostrate, consumò il
  • chiarissimo uomo quella parte del suo tempo, la quale egli agli
  • amorosi sospiri, alle pietose lacrime, alle sollecitudini private e
  • publiche e a' vari fluttuamenti della iniqua fortuna poté imbolare:
  • opere troppo piú a Dio e agli uomini accettevoli che gl'inganni, le
  • fraudi, le menzogne, le rapine e' tradimenti, li quali la maggior
  • parte degli uomini usano oggi, cercando per diverse vie un medesimo
  • termine, cioè il divenire ricco, quasi in quelle ogni bene, ogni
  • onore, ogni beatitudine stea. Oh menti sciocche, una brieve particella
  • di una ora, separará dal caduco corpo lo spirito, e tutte queste
  • vituperevoli fatiche annullerá, e il tempo, nel quale ogni cosa suol
  • consumarsi, o annullerá prestamente la memoria del ricco, o quella per
  • alcuno spazio con gran vergogna di lui serverá! Che del nostro poeta
  • certo non avverrá, anzi, sí come noi veggiamo degli strumenti bellici
  • addivenire, che per l'usargli diventan piú chiari, cosí avverrá del
  • suo nome: egli, per essere stropicciato dal tempo, sempre diventerá
  • piú lucente. E perciò fatichi chi vuole nelle sue vanitá, e bastigli
  • l'esser lasciato fare, senza volere, con riprensione da se medesimo
  • non intesa, l'altrui virtuoso operare andar mordendo.
  • XXVII
  • RICAPITOLAZIONE
  • Mostrato è sommariamente qual fosse l'origine, gli studi e la vita e'
  • costumi, e quali sieno l'opere state dello splendido uomo Dante
  • Alighieri, poeta chiarissimo, e con esse alcuna altra cosa, facendo
  • transgressione, secondo che conceduto m'ha Colui che d'ogni grazia è
  • donatore. Ben so, per molti altri molto meglio e piú discretamente si
  • saria potuto mostrare; ma chi fa quel che sa, piú non gli è richiesto.
  • Il mio avere scritto come io ho saputo, non toglie il poter dire a un
  • altro, che meglio ciò creda di scrivere che io non ho fatto; anzi
  • forse, se io in parte alcuna ho errato, darò materia altrui di
  • scrivere, per dire il vero, del nostro Dante, ove infino a qui niuno
  • truovo averlo fatto. Ma la mia fatica non è ancora alla sua fine. Una
  • particella, nel processo promessa di questa operetta, mi resta a
  • dichiarare, cioè il sogno della madre del nostro poeta, quando in lui
  • era gravida, veduto da lei; del quale io, quanto piú brievemente saprò
  • e potrò, intendo di dilivrarmi, e porre fine al ragionare.
  • XXVIII
  • ANCORA IL SOGNO DELLA MADRE DI DANTE
  • Vide la gentil donna nella sua gravidezza sé a piè d'uno altissimo
  • alloro, allato a una chiara fontana partorire un figliuolo, il quale
  • di sopra altra volta narrai, in brieve tempo, pascendosi delle bache
  • di quello alloro cadenti e dell'onde della fontana, divenire un gran
  • pastore e vago molto delle frondi di quello alloro sotto il quale era;
  • alle quali avere mentre ch'egli si sforzava, le parea ch'egli cadesse;
  • e subitamente non lui, ma di lui un bellissimo paone le parea vedere.
  • Dalla qual maraviglia la gentil donna commossa, ruppe, senza vedere di
  • lui piú avanti, il dolce sonno.
  • XXIX
  • SPIEGAZIONE DEL SOGNO
  • La divina bontá, la quale _ab aeterno_, sí come presente ogni cosa
  • futura previde, suole, da sua propra benignitá mossa, qualora la
  • natura, sua generale ministra, è per producere alcuno inusitato
  • effetto infra' mortali, di quello con alcuna dimostrazione o in segno
  • o in sogno o in altra maniera farci avveduti, accioché dalla
  • predimostrazione argomento prendiamo ogni conoscenza consistere nel
  • Signore della natura producente ogni cosa; la quale predimostrazione,
  • se ben si riguarda, ne fece nella venuta del poeta, del quale tanto di
  • sopra è parlato, nel mondo. E a quale persona la poteva egli fare che
  • con tanta affezione e veduta e servata l'avesse, quanto colei che
  • della cosa mostrata doveva essere madre, anzi giá era? Certo a niuna.
  • Mostrollo dunque a lei, e quello ch'egli a lei mostrasse ci è giá
  • manifesto per la scrittura di sopra; ma quello ch'egli intendesse con
  • piú aguto occhio è da vedere. Parve adunque alla donna partorire un
  • figliuolo, e certo cosí fece ella infra picciolo termine dalla veduta
  • visione. Ma che vuole significare l'alto alloro sotto il quale il
  • partorisce, è da vedere.
  • Opinione è degli astrologi e di molti naturali filosofi, per la vertú
  • e influenzia de' corpi superiori gl'inferiori e producersi e
  • nutricarsi, e, se potentissima ragione da divina grazia illuminata non
  • resiste, guidarsi. Per la qual cosa, veduto quale corpo superiore sia
  • piú possente nel grado che sopra l'orizzonte sale in quella ora che
  • alcun nasce, secondo quello cotal corpo piú possente, anzi secondo le
  • sue qualitá, dicono del tutto il nato disporsi. Per che per lo alloro,
  • sotto il quale alla donna pareva il nostro Dante dare al mondo, mi
  • pare che sia da intendere la disposizione del cielo la quale fu nella
  • sua nativitá, mostrante sé essere tale che magnanimitá e eloquenzia
  • poetica dimostrava; le quali due cose significa l'alloro, álbore di
  • Febo, e delle cui fronde li poeti sono usi di coronarsi, come di sopra
  • è giá mostrato assai.
  • Le bache, delle quali nutrimento prendeva il fanciullo nato, gli
  • effetti da cosí fatta disposizione di cielo, quale è mostrata, giá
  • proceduti, intendo; li quali sono i libri poetici e le loro dottrine,
  • da' quali libri e dottrine fu altissimamente nutricato, cioè
  • ammaestrato il nostro Dante.
  • Il fonte chiarissimo, della cui acqua le parea che questi bevesse,
  • niuna altra cosa giudico che sia da intendere se non l'ubertá della
  • filosofica dottrina morale e naturale; la quale sí come dalla ubertá
  • nascosa nel ventre della terra procede, cosí e queste dottrine dalle
  • copiose ragioni dimostrative, che terrena ubertá si possono dire,
  • prendono essenza e cagione: senza le quali, cosí come il cibo non può
  • bene disporsi, senza bere, negli stomaci di chi 'l prende, non si può
  • alcuna scienzia bene negl'intelletti adattare di nessuno, se dalli
  • filosofici dimostramenti non v'è ordinata e disposta. Per che
  • ottimamente possiamo dire, lui con le chiare onde, cioè con la
  • filosofia, disporre nel suo stomaco, cioè nel suo intelletto, le bache
  • delle quali si pasce, cioè la poesia, la quale, come giá è detto, con
  • tutta la sua sollecitudine studiava.
  • Il divenire subitamente pastore ne mostra la eccellenzia del suo
  • ingegno, in quanto subitamente; il quale fu tanto e tale, che in
  • brieve spazio di tempo comprese per istudio quello che opportuno era a
  • divenire pastore, cioè datore di pastura agli altri ingegni di ciò
  • bisognosi. E sí come assai leggermente ciascuno può comprendere, due
  • maniere sono di pastori: l'una sono pastori corporali, l'altra
  • spirituali. Li corporali pastori sono di due maniere, delle quali la
  • prima è quella di coloro che volgarmente da tutti sono appellati
  • «pastori», cioè i guardatori delle pecore o de' buoi o di qualunque
  • altro animale; la seconda maniera sono i padri delle famiglie, dalla
  • sollecitudine de' quali convegnono essere e pasciuti e guardati e
  • governati la gregge de' figliuoli e de' servidori e degli altri
  • suggetti di quegli. Li spirituali pastori similmente si possono dire
  • di due maniere, delle quali l'una è quella di coloro li quali
  • pascolano l'anime de' viventi della parola di Dio; e questi sono i
  • prelati, li predicatori e' sacerdoti, nella cui custodia sono commesse
  • l'anime labili di qualunque sotto il governo a ciascuno ordinato
  • dimora: l'altra è quella di coloro li quali, d'ottima dottrina, o
  • leggendo quello che gli passati hanno scritto, o scrivendo di nuovo
  • ciò che loro pare o non tanto chiaro mostrato o omesso, informano e
  • l'anime e gl'intelletti degli ascoltanti o de' leggenti, li quali
  • generalmente dottori, in qual che facultá si sia, sono appellati. Di
  • questa maniera di pastori subitamente, cioè in poco tempo, divenne il
  • nostro poeta. E che ciò sia vero, lasciando stare l'altre opere
  • compilate da lui, riguardisi la sua _Comedia_, la quale con la
  • dolcezza e bellezza del testo pasce non solamente gli uomini, ma i
  • fanciulli e le femine; e con mirabile soavitá de' profondissimi sensi
  • sotto quella nascosi, poi che alquanto gli ha tenuti sospesi, ricrea e
  • pasce gli solenni intelletti.
  • Lo sforzarsi ad avere di quelle frondi, il frutto delle quali l'ha
  • nutricato, niun'altra cosa ne mostra che l'ardente disiderio avuto da
  • lui, come di sopra si dice, della corona laurea; la quale per nulla
  • altro si disidera, se non per dare testimonianza del frutto. Le quali
  • frondi mentre ch'egli piú ardentemente disiderava, lui dice che vide
  • cadere; il quale cadere niuna altra cosa fu se non quello cadimento
  • che tutti facciamo senza levarci, cioè il morire; il quale, se bene si
  • ricorda di ciò che di sopra è detto, gli avvenne quando piú la sua
  • laureazione disiava.
  • Seguentemente dice che di pastore subitamente il vide divenuto un
  • paone; per lo qual mutamento assai bene la sua posteritá comprendere
  • possiamo, la quale, come che nell'altre sue opere stea, sommamente
  • vive nella sua _Comedia_, la quale, secondo il mio giudicio,
  • ottimamente è conforme al paone, se le propietá de l'uno e de l'altra
  • si guarderanno. Il paone tra l'altre sue propietá, per quello che
  • appaia, n'ha quattro notabili. La prima si è ch'egli si ha penna
  • angelica, e in quella ha cento occhi; la seconda si è ch'egli ha sozzi
  • piedi e tacita andatura; la terza si è ch'egli ha voce molto orribile
  • a udire; la quarta e ultima si è che la sua carne è odorifera e
  • incorruttibile. Queste quattro cose pienamente ha in sé la _Comedia_
  • del nostra poeta; ma, percioché acconciamente l'ordine posto di quelle
  • non si può seguire, come verranno piú in concio or l'una ora l'altra
  • le verrò adattando, e comincerommi da l'ultima.
  • Dico che il senso della nostra _Comedia_ è simigliante alla carne del
  • paone, percioché esso, o morale o teologo che tu il déi a quale parte
  • piú del libro ti piace, è semplice e immutabile veritá, la quale non
  • solamente corruzione non può ricevere, ma quanto piú si ricerca,
  • maggiore odore della sua incorruttibile soavitá porge a' riguardanti.
  • E di ciò leggermente molti esempli si mostrerebbero, se la presente
  • materia il sostenesse; e però, senza porne alcuno, lascio il cercarne
  • agl'intendenti.
  • Angelica penna dissi che copría questa carne; e dico «angelica», non
  • perché io sappia se cosí fatte o altramenti gli angeli n'abbiano
  • alcuna, ma, congetturando a guisa de' mortali, udendo che gli angeli
  • volino, avviso loro dovere avere penne; e, non sappiendone alcuna fra
  • questi nostri uccelli piú bella, né piú peregrina, né cosí come quella
  • del paone, imagino loro cosí doverle avere fatte; e però non quelle da
  • queste, ma queste da quelle dinomino, perché piú nobile uccello è
  • l'angelo che 'l paone. Per le quali penne, onde questo corpo si
  • cuopre, intendo la bellezza della peregrina istoria, che nella
  • superficie della lettera della _Comedia_ suona: sí come l'essere
  • disceso in inferno e veduto l'abito del luogo e le varie condizioni
  • degli abitanti; essere ito su per la montagna del purgatorio, udite le
  • lagrime e i lamenti di coloro che sperano d'essere santi; e quindi
  • salito in paradiso e la ineffabile gloria de' beati veduta: istoria
  • tanto bella e tanto peregrina, quanto mai da alcuno piú non fu pensata
  • non che udita, distinta in cento canti, sí come alcuni vogliono il
  • paone avere nella coda cento occhi. Li quali canti cosí
  • provvedutamente distinguono le varietá del trattato opportune, come
  • gli occhi distinguono i colori o la diversitá delle cose obiette.
  • Dunque bene è d'angelica penna coperta la carne del nostro paone.
  • Sono similmente a questo paone li piè sozzi e l'andatura queta: le
  • quali cose ottimamente alla _Comedia_ del nostro autore si confanno,
  • percioché, sí come sopra i piedi pare che tutto il corpo si sostenga,
  • cosí _prima facie_ pare che sopra il modo del parlare ogni opera in
  • iscrittura composta si sostenga: e il parlare volgare, nel quale e
  • sopra il quale ogni giuntura della _Comedia_ si sostiene, a rispetto
  • dell'alto e maestrevole stilo letterale che usa ciascun altro poeta, è
  • sozzo, comeché egli sia piú che gli altri belli agli odierni ingegni
  • conforme. L'andar queto significa l'umiltá dello stilo, il quale nelle
  • commedie di necessitá si richiede, come color sanno che intendono che
  • vuole dire «comedia».
  • Ultimamente dico che la voce del paone è orribile; la quale, come che
  • la soavitá delle parole del nostro poeta sia molta quanto alla prima
  • apparenza, sanza niuno fallo a chi bene le medolle dentro ragguarderá,
  • ottimamente a lui si confá. Chi piú orribilmente grida di lui, quando
  • con invezione acerbissima morde le colpe di molti viventi, e quelle
  • de' preteriti gastiga? Qual voce è piú orrida che quella del
  • gastigante a colui ch'è disposto a peccare? Certo niuna. Egli a un'ora
  • colle sue dimostrazioni spaventa i buoni e contrista i malvagi; per la
  • qual cosa quanto in questo adopera, tanto veramente orrida voce si può
  • dire avere. Per la qual cosa, e per l'altre di sopra toccate, assai
  • appare, colui, che fu vivendo pastore, dopo la morte essere divenuto
  • paone, sí come credere si puote essere stato per divina spirazione nel
  • sonno mostrato alla cara madre.
  • Questa esposizione del sogno della madre del nostro poeta conosco
  • essere assai superficialmente per me fatta; e questo per piú cagioni.
  • Primierarmente, perché forse la sufficienzia, che a tanta cosa si
  • richiederebbe, non c'era; appresso, posto che stata ci fosse, la
  • principale intenzione nol patía; ultimamente, quando e la sufficienzia
  • ci fosse stata e la materia l'avesse patito, era ben fatto da me non
  • essere piú detto che detto sia, accioché ad altrui piú di me
  • sofficiente e piú vago alcuno luogo si lasciasse di dire. E perciò
  • quello, che per me detto n'è, quanto a me dee convenevolmente bastare,
  • e quel, che manca, rimanga nella sollecitudine di chi segue.
  • XXX
  • CONCLUSIONE
  • La mia piccioletta barca è pervenuta al porto, al quale ella dirizzò
  • la proda partendosi dallo opposito lito: e comeché il peleggio sia
  • stato picciolo, e il mare, il quale ella ha solcato, basso e
  • tranquillo, nondimeno, di ciò che senza impedimento è venuta, ne sono
  • da rendere grazie a Colui che felice vento ha prestato alle sue vele.
  • Al quale con quella umiltá, con quella divozione, con quella affezione
  • che io posso maggiore, non quelle, né cosí grandi come si converrieno,
  • ma quelle che io posso, rendo, benedicendo in eterno il suo nome e 'l
  • suo valore.
  • II
  • REDAZIONI COMPENDIOSE DELLA VITA DI DANTE
  • (PRIMO E SECONDO COMPENDIO)
  • AVVERTENZA
  • Nel testo si è dato il secondo compendio: le varianti del primo sono
  • riferite a piè di pagina.
  • I
  • PROPOSIZIONE
  • Solone, il cui petto un umano tempio di divina sapienza fu reputato, e
  • le cui sacratissime leggi sono ancora testimonianza dell'antica
  • giustizia e della sua gravitá, era, secondo che dicono alcuni, usato
  • talvolta di dire ogni republica, sí come noi, andare e stare sopra due
  • piedi; de' quali con maturitá affermava essere il destro il non
  • lasciare alcun difetto commesso impunito, e il sinistro ogni ben fatto
  • remunerare; aggiugnendo che, qualunque delle due cose mancava, senza
  • dubbio da quel piè la republica zoppicare.
  • Dalla quale laudevole sentenza mossi alcuni cosí egregi come antichi
  • popoli, alcuna volta di deitá, altra di marmorea statua, e sovente di
  • celebre sepoltura, di triunfale arco, di laurea corona o d'altra
  • spettabile cosa, secondo i meriti, onoravano i valorosi; per opposito
  • agrissime pene a' colpevoli infligendo. Per li quali meriti l'assiria,
  • la macedonica e ultimamente la romana republica aumentate, con l'opere
  • li fini della terra, e con la fama toccaron le stelle. Le vestigie de'
  • quali non solamente da' successor presenti, e massimamente da' miei
  • fiorentini, sono mal seguite, ma in tanto s'è disviato da esse, che
  • ogni premio di virtú possiede l'ambizione. Il che, se ogni altra cosa
  • occultasse, non lascerá nascondere l'esilio ingiustamente dato al
  • chiarissimo uomo Dante Alighieri, uomo di sangue nobile, ragguardevole
  • per scienza e per operazioni laudevole e degno di glorioso onore.
  • Intorno alla quale opera pessimamente fatta non è la presente mia
  • intenzione di volere insistere con debite riprensioni, ma piú tosto in
  • quella parte, che le mie piccole forze possono, quella emendare;
  • percioché, quantunque picciol sia, pur di quella [cittá] son
  • cittadino, e agli onor d'essa mi conosco in solido obbligato.
  • Quello adunque che la nostra cittá dovria verso il suo valoroso
  • cittadino magnificamente operare, accioché in tutto non sia detto noi
  • esorbitare dagli antichi, intendo di fare io, non con istatua o con
  • egregia sepoltura, delle quali è oggi dell'una appo noi spenta
  • l'usanza, né all'altra basterieno le mie facultadi, ma con povere
  • lettere a tanta impresa, volendo piú tosto di presunzione che
  • d'ingratitudine potere esser ripreso. Scriverò adunque in istilo assai
  • umile e leggiero, peroché piú sublime nol mi presta lo 'ngegno, e nel
  • nostro fiorentino idioma, accioché da quello che Dante medesimo usò
  • nella maggior parte delle sue opere non discordi, quelle cose, le
  • quali esso di sé onestamente tacette, cioè la nobiltá della sua
  • origine, la vita, gli studi e i costumi; raccogliendo appresso in uno
  • l'opere da lui fatte, nelle quali esso sé chiaro ha renduto a' futuri.
  • Il che accioché compiutamente si possa fare, umilmente priego Colui,
  • il quale di spezial grazia lui trasse, come leggiamo, per sí alta
  • scala a contemplarsi, che me al presente aiuti, e, in onore e gloria
  • del suo santissimo nome, e la debole mano guidi, e regga lo 'ngegno
  • mio.
  • II
  • PATRIA E MAGGIORI DI DANTE
  • Fiorenza, intra l'altre cittá italiane piú nobile, secondo la generale
  • opinione de' presenti, ebbe inizio da' romani; e in processo di tempo
  • aumentata di popoli e di chiari uomini e giá potente parendo, o
  • contrario cielo, o i lor meriti, che in sé l'ira di Dio provocassero,
  • non dopo molti secoli da Attila, crudelissimo re de' vandali e general
  • guastatore quasi di tutta Italia, molti de' cittadini uccisi, quella
  • ridusse in cenere e in ruine. Poi, trapassato giá il trecentesimo
  • anno, e Carlomagno, clementissimo re de' franceschi, essendo
  • all'altezza del romano imperio elevato, avvenne che, o per propio
  • movimento, forse da Dio a ciò spirato, o per prieghi pòrtigli da
  • alcuni, che il detto Carlo alla reedificazione della detta cittá
  • l'animo dirizzò, e a coloro medesimi, li quali primi conditori n'erano
  • stati, la fatica commise. Li quali in piccol cerchio riducendola,
  • quanto poterono, sí come ancora appare, a Roma la fêr simigliante,
  • seco raccogliendovi dentro quelle poche reliquie che de' discendenti
  • degli antichi scacciati si potêr ritrovare.
  • Vennevi, secondo che testimonia la fama, tra' novelli reedificatori un
  • giovane, per origine de' Frangiapani, nominato Eliseo; il quale, che
  • che cagion sel movesse, di quella divenne perpetuo cittadino; del
  • quale rimasi laudevoli discendenti ed onorati molto, non l'antico
  • cognome ritennero, ma, da colui, che quivi loro aveva dato principio,
  • prendendolo, si chiamâr gli Elisei. De' quali, di tempo in tempo e
  • d'uno in altro discendendo, tra gli altri nacque e visse un cavaliere
  • per arme e per senno ragguardevole, il cui nome fu Cacciaguida; il
  • quale per isposa ebbe una donzella nata degli Aldighieri di Ferrara,
  • della quale forse piú figliuoli ricevette. Ma, come che gli altri
  • nominati si fossero, in uno, sí come le donne sogliono esser vaghe di
  • fare, le piacque di rinnovare il nome de' suoi maggiori, e nominollo
  • Aldighieri; comeché il vocabol poi, per sottrazione d'alcuna lettera,
  • rimanesse Alighieri. Il valor del quale fu cagione a quegli, che
  • disceser di lui, di lasciare il titolo degli Elisei e di cognominarsi
  • degli Alighieri. Del quale, come che alquanti e figliuoli e nepoti e
  • de' nepoti figliuoli discendessero, regnante Federigo secondo
  • imperadore, uno ne nacque, il quale dal suo avolo nominato fu
  • Alighieri, piú per colui di cui fu padre che per sé chiaro. Questi
  • nella sua donna generò colui del quale dee essere il futuro sermone.
  • Né pretermise il nostro signore Iddio, che alla madre nel sonno non
  • dimostrasse cui ella portasse nel ventre. Il che allora poco inteso e
  • non curato, in processo di tempo e nella vita e nella morte di colui,
  • che nascer doveva di lei, chiarissimamente si manifestò, sí come con
  • la grazia di Dio mostreremo vicino al fine della presente operetta.
  • Venuto adunque il tempo del parto, partorí la donna questa futura
  • chiarezza della nostra cittá, e di pari consentimento il padre ed
  • ella, non senza divina disposizione, sí come io credo, il nominaron
  • Dante, volendone Iddio per cotal nome mostrare lui dovere essere di
  • maravigliosa dottrina datore.
  • III
  • SUOI STUDI
  • Nacque adunque questo singulare splendore italico nella nostra cittá,
  • vacante il romano imperio per la morte di Federigo, negli anni della
  • salutifera incarnazione del Re dell'universo MCCLXV, sedente Urbano
  • papa quarto, ricevuto nella paterna casa da assai lieta fortuna:
  • lieta, dico, secondo la qualitá del mondo che allora s'usava. E nella
  • sua puerizia cominciò a dare, a chi avesse a ciò riguardato, manifesti
  • segni qual dovea la sua matura etá divenire; peroché, lasciata ogni
  • pueril mollizie, nella propria patria con istudio continuo tutto si
  • diede alle liberali arti, e, in quelle giá divenuto esperto, non alle
  • lucrative facultadi, alle quali oggi ciascun cupido di guadagnare
  • s'avventa innanzi tempo, ma da laudevole vaghezza di perpetua fama
  • tratto, alle speculative si diede. E, peroché a ciò, sí come appare,
  • era dal ciel produtto, a vedere con aguto intelletto e le fizioni e
  • l'artificio mirabile de' poeti si mise; e in brieve tempo, non
  • trovandogli semplicemente favolosi, come si parla, familiarissimo
  • divenne di tutti, e massimamente de' piú famosi. E, come giá è detto,
  • conoscendo le poetiche opere non esser vane o stolte favole, come
  • molti dicono, ma sotto sé dolcissimi frutti di veritá istoriografe o
  • filosofiche aver nascosti, accioché piena notizia n'avesse, e alle
  • istorie e alla filosofia, i tempi debitamente partiti, si diede; e giá
  • divenuto di quelle e di questa esperto, cresciuta, con la dolcezza del
  • conoscere la veritá delle cose, la vaghezza del piú sapere, a voler
  • investigar quello che per umano ingegno se ne può comprendere delle
  • celestiali intelligenzie e della prima causa con ogni sollecitudine
  • tutto si diede. Né questi studi in picciol tempo sí feciono, né senza
  • grandissimi disagi s'esercitarono, né nella patria sola s'acquistò il
  • frutto di quegli. Egli, sí come a luogo piú fertile del cibo che 'l
  • suo alto intelletto disiderava, a Bologna andatone, non piccol tempo
  • vi spese; e, giá vicino alla sua vecchiezza, non gli parve grave
  • l'andarne a Parigi, dove, non dopo molta dimora, con tanta gloria di
  • sé, disputando, piú volte mostrò l'altezza del suo ingegno, che ancora
  • narrandosi se ne maravigliano gli uditori. Di tanti e sí fatti studi
  • non ingiustamente il nostro Dante meritò altissimi titoli: percioché
  • alcuni assai chiari uomini in scienza il chiamavano sempre «maestro»,
  • altri l'appellavan «filosofo», e di tali furono che «teologo» il
  • nominavano, e quasi generalmente ogn'uomo il diceva «poeta», sí come
  • ancora è appellato da tutti. Ma, percioché tanto è la vittoria piú
  • gloriosa quanto le forze del vinto sono state maggiori, giudico esser
  • convenevole dimostrare di come fluttuoso anzi tempestoso mare costui,
  • ora in qua e ora in lá ributtato, con forte petto parimente le
  • traverse onde e i contrari venti vincendo, pervenisse al salutevole
  • porto de' chiarissimi titoli giá narrati.
  • IV
  • IMPEDIMENTI AVUTI DA DANTE AGLI STUDI
  • Gli studi generalmente sogliono solitudine e rimozion di sollecitudine
  • disiderare e tranquillitá d'animo, e massimamente gli speculativi, a'
  • quali, sí come mostrato è, il nostro Dante, in quanto la possibilitá
  • permetteva, s'era donato. In luogo della quale rimozione e quiete,
  • quasi dallo inizio della sua puerizia infino allo stremo della sua
  • vita, Dante ebbe fierissima e importabile passion d'amore. Ebbe oltre
  • a ciò moglie; le quali chi 'l pruova sa come capitali nemiche sieno
  • dello studio della filosofia. Similmente ebbe ad aver cura della re
  • familiare e oltre a ciò della republica, e, sopr'a tutte queste,
  • lungamente sostenne esilio e povertá; accioché io lasci stare l'altre
  • particulari noie, che queste si tirano appresso. Le quali, per
  • mostrare quanta in sé superficialmente di gravezza portassono e
  • accioché per questo parte della promessa fatta s'osservi, giudico
  • convenevole sia alquanto piú distesamente spiegarle.
  • V
  • AMORE PER BEATRICE
  • Era usanza nella nostra cittá e degli uomini e delle donne, come il
  • dolce tempo della primavera ne veniva, nelle lor contrade ciascuno per
  • distinte compagnie festeggiare. Per la qual cosa infra gli altri Folco
  • Portinari, onorevole cittadino, il primo dí di maggio aveva i suoi
  • vicini nella propria casa raccolti a festeggiare, infra' quali era il
  • sopradetto Alighieri; e lui, sí come far sogliono i piccoli figliuoli
  • i lor padri, e massimamente alle feste, seguíto avea il nostro Dante,
  • la cui etá ancor non aggiungnea all'anno nono. Il quale con gli altri
  • della sua etá, che nella casa erano, puerilmente si diede a
  • trastullare.
  • Era tra gli altri una figliuola del detto Folco, chiamata Bice, la
  • quale di tempo non passava l'anno ottavo, leggiadretta assai e ne'
  • suoi costumi piacevole e gentilesca, bella nel viso, e nelle sue
  • parole con piú gravezza che la sua piccola etá non richiedea. La quale
  • riguardando Dante e una e altra volta, con tanta affezione, ancor che
  • fanciul fusse, piacendogli, la ricevette nell'animo, che mai altro
  • sopravvegnente piacere la bella imagine di lei spegnere né poté né
  • cacciare. E, lasciando stare de' puerili accidenti il ragionare, non
  • solamente continuandosi, ma crescendo di giorno in giorno l'amore, non
  • avendo niuno altro disidèro maggiore né consolazione se non di veder
  • costei, gli fu in piú provetta etá di cocentissimi sospiri e d'amare
  • lagrime assai spesso dolorosa cagione, sí come egli in parte nella sua
  • _Vita nuova_ dimostra. Ma quello che rade volte suole negli altri cosí
  • fatti amori intervenire, in questo essendo avvenuto, non è senza dirlo
  • da trapassare. Fu questo amor di Dante onestissimo, qual che delle
  • parti, o forse amendue, fosse di ciò cagione. Egli quantunque, almeno
  • dalla parte di Dante, ardentissimo fosse, niuno sguardo, niuna parola,
  • niun cenno, niun sembiante, altro che laudevole, per alcun se ne vide
  • giammai. Che piú? Dal viso di questa giovine donna, la quale non Bice,
  • ma dal suo primitivo sempre chiamò Beatrice, fu primieramente nel
  • petto suo desto lo 'ngegno al dovere parole rimate comporre. Delle
  • quali, sí come manifestamente appare, in sonetti, ballate e canzoni e
  • altri stili, molte in laude di questa donna eccellentissimamente
  • compose, e tal maestro, sospingnendolo Amor, ne divenne, che, tolta di
  • gran lunga la fama a' dicitor passati, mise in opinion molti che niuno
  • nel futuro esser ne dovesse, che lui in ciò potesse avanzare.
  • VI
  • DOLORE DI DANTE PER LA MORTE DI BEATRICE
  • Gravi erano stati i sospiri e le lagrime, mosse assai sovente dal non
  • potere aver veduto, quanto il concupiscibile appetito disiderava, il
  • grazioso viso della sua donna; ma troppo piú ponderosi gliele serbava
  • quella estrema e inevitabile sorte che, mentre viver dovesse, ne 'l
  • doveva privare. Avvenne adunque che, essendo quasi nel fine del suo
  • vigesimoquarto anno la bellissima Beatrice, piacque a Colui che tutto
  • puote di trarla delle temporali angosce e chiamarla alla sua eterna
  • gloria. La partita della quale tanto impazientemente sostenne il
  • nostro Dante, che, oltre a' sospiri e a' pianti continui, assai de'
  • suoi amici lui quel senza morte non dover finire estimarono. Lunghe
  • furono e molte [le sue lagrime], e per lungo spazio ad ogni conforto
  • datogli tenne gli orecchi serrati. Ma pur poi, in processo di tempo
  • maturatasi alquanto l'acerbitá del dolore, e facendo alquanto la
  • passion luogo alla ragione, cominciò senza pianto a potersi ricordare
  • che morta fosse la donna sua, e per conseguente ad aprir gli orecchi
  • a' conforti; ed essendo lungamente stato rinchiuso, incominciò ad
  • apparire in publico tra le genti. Né fu solo da questo amor passionato
  • il nostro poeta, anzi, inchinevole molto a questo accidente, per altri
  • obietti in piú matura etá troviam lui sovente aver sospirato, e
  • massimamente dopo il suo esilio, dimorando in Lucca, per una giovine,
  • la quale egli nomina Pargoletta. E oltre a ciò, vicino allo stremo
  • della sua vita, nell'alpi di Casentino per una alpigina, la quale, se
  • mentito non m'è, quantunque bel viso avesse, era gozzuta. E, per
  • qualunque fu l'una di queste, compose piú e piú laudevoli cose in
  • rima.
  • VII
  • MATRIMONIO DI DANTE
  • Agro e valido nemico degli studi è amore, come veramente testificar
  • può ciascuno che a tal passione è soggiaciuto; percioché, poi che con
  • lusinghevole speranza ha tutta la mente occupata di chi nel principio
  • non l'ha con forte resistenza scacciato, niun pensiero, niuna
  • meditazione, niuno appetito in quella patisce che stea se non quelle
  • sole, le quali esso medesimo vi reca; e chenti queste siano e come
  • contrarie allo specular filosofico o alle poetiche invenzioni, sí
  • manifesto mi pare, che superfluo estimo sarebbe il metterci tempo a
  • piú chiarirlo.
  • A questo stimolo un altro forse non minore se n'aggiunse; percioché,
  • poi che, allenate le lagrime della morte di Beatrice, diede agli amici
  • suoi alcuna speranza della sua vita, incontanente loro entrò
  • nell'animo che, dandogli per moglie una giovane, colei del tutto se ne
  • potesse cacciare, che, benché partita del mondo fosse, gli avea nel
  • petto la sua imagine lasciata perpetua donna: e, lui a ciò inclinato,
  • senza alcuno indugio misero ad effetto il lor pensiero.
  • Saranno per avventura di quegli che laudevole diranno cotal consiglio;
  • e questo avverrá perché non considereranno quanto pericolo porti lo
  • spegnere il fuoco temporal con l'eterno. Era a Dante l'amore, il quale
  • a Beatrice portava, per lo suo troppo focoso disiderio spesse volte
  • noioso e grave a sofferire; ma pur talvolta alcun soave pensiero,
  • alcuna dolce speranza, qualche dilettevole imaginazion ne traeva; dove
  • della compagnia della moglie, secondo che coloro afferman che 'l
  • pruovano, altro che sollecitudine continua e battaglia senza
  • intermission non si trae. Ma lasciamo star quello che la moglie in
  • qualunque meccanico possa adoperare, e a quel vegniamo che la presente
  • materia richiede.
  • VIII
  • DIGRESSIONE SUL MATRIMONIO
  • Quanto le mogli sieno nimiche degli studi assai leggermente puote
  • apparire a' riguardanti. Rincresce spesse volte a' filosofanti la
  • turba volgare: per che, da essa partendosi e raccoltosi in alcuna
  • solitaria parte della sua casa, sé contra sé con la considerazion
  • trasportando, talvolta ragguarda quale spirito muove il cielo, onde
  • venga la vita agli animali, quali sieno delle cose le prime cagioni; e
  • talvolta nello splendido consistoro de' filosofi mischiatosi col
  • pensiero, con Aristotile, con Socrate, con Platone e con gli altri
  • disputerá della veritá d'alcuna conclusione acutissimamente; e spesse
  • fiate con sottilissima meditazione se ne entrerá sotto la corteccia
  • d'alcuna poetica fizione, e, con grandissimo suo piacere, quanto sia
  • diverso lo 'ntrinseco dalla crosta riguarderá. Né fia che non avvenga,
  • quando vorrá, che gl'imperadori eccelsi, i potentissimi re e prencipi
  • gloriosi con lui nella solitudine non si convengano, e con lui
  • ragionino de' governamenti publici, dell'arti delle guerre e dei
  • mutamenti della fortuna. Alle quali eccelse e piacevoli cose
  • sopravverrá la donna e, cacciata via la contemplazion laudevole e
  • tanta e tal compagnia, biasimerá il suo star solitario e 'l suo
  • pensiero, e spesse volte, sospicando, dirá questo non solergli
  • avvenire avanti ch'ella a lui venisse, e però assai manifestamente
  • apparire lui esser di lei pessimamente contento. E, postasi quivi a
  • sedere, non prima si leverá che, esaminati i pensieri del marito, lui
  • di piacevolissima considerazione in noiosa turbazione avrá recato. Che
  • dirò dell'odio ch'elle portano a' libri, qualora alcuno ne veggiono
  • aprire? che delle notturne vigilie, non solamente utili, ma opportune
  • agli studianti? Tutto a' suoi diletti quel tempo esser tolto,
  • lagrimando, confermano. Lascio le notturne battaglie, li loro costumi
  • gravi a sostenere, la spesa inestimabile che nelli loro ornamenti
  • richeggiono: tutte cose, quanto esser possono, avverse a'
  • contemplativi pensieri. Che dirò se gelosia v'interviene? che, se
  • cruccio che per lunghezza si converta in odio? Io corro troppo questa
  • materia, percioché bastar dee agl'intendenti averne superficialmente
  • toccato. Ma, chenti che l'altre si sieno, accioché io quando che sia
  • mi riduca al proposito, tal fu quella che a Dante fu data, che, da lei
  • una volta partitosi, né volle mai dove ella fosse tornare, né che ella
  • andasse lá dove egli fosse. Né creda alcuno che io per le sudette cose
  • voglia conchiuder gli uomini non dover tôrre moglie; anzi il lodo, ma
  • non a tutti. I filosofanti, che 'l mio giudicio in questo
  • seguiteranno, lasceranno lo sposarsi a' ricchi stolti e a' signori e
  • similmente ai lavoratori; ed essi con la filosofia si diletteranno,
  • molto piú piacevole e migliore sposa che alcuna altra.
  • IX
  • CURE FAMILIARI E PUBBLICHE
  • Tirò appresso di sé lo stimolo della moglie al nostro poeta un'altra
  • quasi inevitabil gravezza, e questa fu la sollecitudine d'allevare i
  • figliuoli, percioché in brieve tempo padre di famiglia divenne; e,
  • strignendolo la domestica cura, quel tempo, che alle eccelse
  • meditazioni, soluto, soleva prestare, costretto da necessitá,
  • conveniva che egli concedesse a' pensieri donde dovessero i salari
  • delle nutrici venire, i vestimenti de' figliuoli, e l'altre cose
  • opportune a chi piú secondo la opinion del vulgo che secondo la
  • filosofica veritá convien che viva. Il che quanto d'impedimento alli
  • suoi studi prestasse, assai leggermente conoscer si dee da ciascuno.
  • Da questa per avventura ne gli nacque una maggiore; percioché
  • l'altiero animo avendo le minor cose in fastidio, e per le maggiori
  • estimando quelle potersi cessare, dalla familiar cura transvolò alla
  • publica: nella qual tanto e subitamente sí l'avvilupparono i vani
  • onori, che, senza guardare donde s'era partito e dove andava con
  • abbandonate redine, messa la filosofia in oblio, quasi tutto della
  • republica con gli altri cittadin piú solenni al governo si diede. E
  • fugli tanto in ciò alcun tempo la fortuna seconda, che di tutte le
  • maggior cose occorrenti la sua diliberazion s'attendeva. In lui tutta
  • la publica fede, in lui tutta la speranza publica, in lui
  • sommariamente le divine cose e l'umane parevano esser fermate. Che
  • questa gloria vana, questa pompa, questo vento fallace gonfi
  • maravigliosamente i petti de' mortali; e gli atti e portamenti di
  • coloro, che ne' reggimenti delle cittá son maggiori, e il fervente
  • appetito, che di quegli hanno generalmente gli stolti, assai
  • leggermente agli occhi de' savi il possono dimostrare. E come si dee
  • credere che intra tanto tumulto, intra tanto rivolgimento di cose,
  • quanto dee continuamente essere nelle gonfiate menti de' presidenti,
  • deano potere aver luogo le considerazion filosofiche, le quali, come
  • giá detto è, somma pace d'animo vogliono? In queste tumultuositá fu il
  • nostro Dante inviluppato piú anni, e tanto piú che un altro, quanto il
  • suo disiderio tutto tirava al ben publico, dove quello degli altri o
  • della maggior parte tirannescamente al privato badava: per che, oltre
  • all'altre sollecitudini, in continua battaglia esser gli conveniva. Ma
  • la fortuna, volgitrice de' nostri consigli e inimica d'ogni umano
  • stato, assai diverso fine pose al principio. Al qual voler dimostrare,
  • un pochetto s'amplierá la novella.
  • X
  • COME LA LOTTA DELLE PARTI LO COINVOLSE
  • Era ne' tempi del glorioso stato del nostro poeta la fiorentina
  • cittadinanza in due parti perversissimamente divisa, alle quali parti
  • riducere ad unitá Dante invano si faticò molte volte. Di che poi che
  • s'accorse, prima seco propose, posto giú ogni uficio publico, di viver
  • seco privatamente; ma, dalla dolcezza della gloria tratto e dal favor
  • popolesco, e ancora dalle persuasioni de' maggiori, sperando di
  • potere, se tempo gli fosse prestato, molto di bene adoperare, lasciò
  • la disposizione utile e perseverando seguitò la dannosa. E,
  • accorgendosi che per se medesimo non poteva una terza parte tenere, la
  • quale, giusta, la ingiustizia dell'altre due abbattesse, con quella
  • s'accostò nella quale, secondo il suo giudicio, era meno di malvagitá.
  • E, aumentandosi per vari accidenti continuamente gli odii delle parti,
  • e il tempo vegnendo che gli occulti consigli della minacciante fortuna
  • si doveano scoprire, nacque una voce per tutta la cittá: la parte
  • avversa a quella, con la qual Dante teneva, grandissima multitudine
  • d'armati in disfacimento de' loro avversari aver nelle case loro. La
  • qual cosa creduta spaventò sí i collegati di Dante, che, ogni altro
  • consiglio abbandonato che di fuggire, non cacciati s'usciron dalla
  • cittá e, con loro insieme, Dante. Né molti dí trapassarono che, avendo
  • i lor nemici il reggimento tutto della cittá, come nemici publici
  • tutti quegli, che fuggiti s'erano, furono in perpetuo esilio dannati,
  • e i lor beni ridotti in publico o conceduti a' vincitori.
  • XI
  • LA VITA DEL POETA ESULE SINO ALLA VENUTA IN ITALIA DI ARRIGO SETTIMO
  • Questo fine ebbe la gloriosa maggioranza di Dante, e da' suoi
  • cittadini le sue pietose fatiche questo merito riportaro. Lasciati
  • adunque la moglie e i piccioli figliuoli nelle mani della fortuna, e
  • uscito di quella cittá, nella qual mai tornar non dovea, sperando in
  • brieve dovere essere la ritornata, piú anni per Toscana e per
  • Lombardia, quasi da estrema povertá costretto, gravissimi sdegni
  • portando nel petto, s'andò avvolgendo. Egli primieramente rifuggí a
  • Verona. Quivi dal signor della terra e ricevuto e onorato fu
  • volentieri e sovvenuto. Quindi in Toscana tornatosene, per alcun tempo
  • fu col conte Salvatico in Casentino. Di quindi fu col marchese
  • Moruello Malespina in Lunigiana. E ancora per alcuno spazio fu co'
  • signori della Faggiuola ne' monti vicini ad Orbino. Quindi n'andò a
  • Bologna, e da Bologna a Padova, e da Padova ancor si ritornò a Verona.
  • Ma, essendo giá dopo la sua partita di Firenze piú anni passati, né
  • apparendo alcuna via da potere in quella tornare, ingannato trovandosi
  • del suo avviso, e quasi del mai dovervi tornar disperandosi, si
  • dispose del tutto d'abbandonare Italia; e, passati gli Alpi, come poté
  • se n'andò a Parigi, accioché, quivi a suo potere studiando, alla
  • filosofia il tempo, che nell'altre sollecitudini vane tolto le avea,
  • restituisse. Udí adunque quivi e filosofia e teologia alcun tempo, non
  • senza gran disagio delle cose opportune alla vita. Da questo il tolse
  • una speranza presa di potere in casa sua ritornare con la forza
  • d'Arrigo di Luzimborgo imperadore. Per che, lasciati gli studi e in
  • Italia tornatosi, e con certi rubelli de' fiorentini congiuntosi, con
  • loro insieme con prieghi, con lettere e con ambasciate s'ingegnò di
  • rimuovere il detto Arrigo dallo assedio di Brescia e di conducerlo
  • intorno alla sua cittá, estimando quella contro a lui non potersi
  • tenere. Ma la riuscita contraria gli fece palese il suo avviso essere
  • stato vano. Assediò Arrigo la cittá di Fiorenza; e ultimamente, vana
  • vedendo la stanza, se ne partí e, non dopo molto tempo passando di
  • questa vita, ogni speranza ruppe nel nostro poeta, il quale in Romagna
  • se ne passò, dove l'ultimo suo dí, il quale alle sue fatiche doveva
  • por fine, l'aspettava.
  • XII
  • DANTE OSPITE DI GUIDO NOVEL DA POLENTA
  • Era in que' tempi signor di Ravenna, antichissima cittá di Romagna, un
  • nobile cavaliere, il cui nome era Guido Novel da Polenta, ne' liberali
  • studi ammaestrato e amatore degli scenziati uomini. Il quale, udendo
  • Dante, cui per fama lungamente avanti avea conosciuto, come disperato
  • essersene venuto in Romagna, conoscendo la vergogna de' valorosi nel
  • domandare, con liberale animo si fece incontro al suo bisogno, e lui,
  • di ció volonteroso, onorevolmente ricevette e tenne, infino all'ultimo
  • dí di lui.
  • Assai credo che manifesto sia da quanti e quali accidenti contrari
  • agli studi fosse infestato il nostro poeta. Il quale né gli amorosi
  • disiri, né le dolenti lagrime, né gli stimoli della moglie, né la
  • sollecitudine casalinga, né la lusinghevole gloria de' publici ofici,
  • né il súbito e impetuoso mutamento della fortuna, né le faticose
  • circuizioni, né il lungo e misero esilio, né la intollerabile povertá,
  • tutte imbolatrici di tempo agli studianti, non poterono con le lor
  • forze vincere, né dal principale intento rimuovere, cioè da' sacri
  • studi della filosofia, sí come assai chiaramente dimostrano l'opere
  • che da lui composte leggiamo. Che diranno qui coloro, agli studi de'
  • quali non bastando della lor casa, cercano le solitudini delle selve?
  • che coloro, a' quali è riposo continuo, e a' quali l'ampie facultá
  • senza alcun lor pensiero ogni cosa opportuna ministrano? che coloro
  • che, soluti da moglie e da figliuoli, liberi posson vacare a' lor
  • piaceri? De' quali assai sono che, se ad agio non sedessero, o
  • udissero un mormorio, non potrebbono, non che meditare, ma leggere, né
  • scrivere, se non stasse il gomito riposato. Certo niuna altra cosa
  • potranno dire, se non che il nostro poeta, e per gli impeti superati e
  • per l'acquistata scienza, sia di doppia corona da onorare. Ma da
  • ritornare è alla intralasciata materia.
  • XIII
  • MORTE DI DANTE
  • Abitò adunque Dante in Ravenna piú anni nella grazia di quel signore,
  • e quivi a molti dimostrò la ragione del dire in rima, la quale
  • maravigliosamente esaltò. Ed essendo giá al cinquantesimosesto anno
  • della sua etá pervenuto, infermò, e come fedel cristiano
  • riconciliatosi, per vera contrizione e confessione delle colpe
  • commesse, a Dio, del mese di settembre, correnti gli anni di Cristo
  • MCCCXXI, il dí che la esaltazione della santa Croce si celebra, passò
  • della presente vita. La cui anima creder possiamo essere stata nelle
  • braccia della sua nobile Beatrice ricevuta e presentata nel cospetto
  • di Dio, accioché quivi in riposo perpetuo prenda merito delle fatiche
  • passate.
  • Fu la morte del nostro poeta al magnifico cavaliere assai gravosa. Il
  • quale, fatto il corpo del defunto ornare d'ornamenti poetici, e quello
  • porre sopra un funebre letto, sopra gli omeri de' piú eccellenti
  • ravignani il fece alla chiesa de' frati minori, con quello onore che a
  • tanto uomo si conveniva, portare, e quivi in una arca lapidea
  • seppellire, con animo di fargli una egregia e notabile sepoltura.
  • Quindi alla casa, nella quale era Dante prima abitato, tornandosi,
  • secondo il ravignan costume, esso medesimo, a commendazione del
  • trapassato poeta e a consolazione de' figliuoli e degli amici che dopo
  • lui rimanieno, fece uno esquisito e lungo sermone. Ma poi, infra
  • brieve spazio essendogli tolto lo Stato, cessò il proponimento della
  • magnifica sepoltura; per la qual cosa ancora in quella arca, dove fu
  • posto, le venerabili ossa dimorano.
  • XIV
  • GARA DI POETI PER L'EPITAFIO DI DANTE
  • Furono in que' tempi piú uomini nell'arte metrica ammaestrati, li
  • quali, sentendo che far si dovea al corpo di Dante una mirabile
  • sepoltura, fecero versi per porre in quella, testificanti e la scienza
  • e alcun de' piú memorabili casi di Dante, de' quali niun vi si pose
  • per lo sopradetto accidente. Nondimeno, piú tempo poi, me ne furono
  • monstrati: de' quali alquanti, fattine dal maestro Giovanni del
  • Virgilio, sí come piú laudevoli al mio giudicio, ne elessi; ed
  • estimando questa operetta quello testificare, che in parte avrebbe
  • fatto la sepoltura, di porglici diliberai come segue:
  • _Theologus Dantes nullius dogmatis expers,
  • quod foveat claro philosophia sinu:
  • gloria musarum, vulgo gratissimus auctor,
  • hic iacet, et fama pulsat utrumque polum:
  • qui loca defunctis gladiis regnumque gemellis
  • distribuit, laicis rhetoricisque modis.
  • Pascua Pieriis demum resonabat avenis;
  • Atropos heu! laetum livida rupit opus.
  • Huic ingrata tulit tristem Florentia fructum,
  • exilium, vati patria cruda suo.
  • Quem pia Guidonis gremio Ravenna Novelli
  • gaudet honorati continuisse ducis,
  • mille trecentenis ter septem Numinis annis,
  • ad sua septembris idibus astra redit._
  • XV
  • RIMPROVERO AI FIORENTINI
  • Sogliono gli odii nella morte degli odiati finirsi; il che nel
  • trapassamento di Dante non si trovò avvenire. L'ostinata malivolenza
  • de' suoi cittadini nella sua rigidezza stette ferma; niuna publica
  • lagrima gli fu conceduta, né alcuno uficio funebre fatto. Nella qual
  • pertinacia assai manifestamente sí dimostrò, i fiorentini tanto essere
  • dal cognoscimento della scienzia rimoti, che fra loro niuna distinzion
  • fosse da un vilissimo calzolaio ad un solenne poeta. Ma essi con la
  • lor superbia rimangansi; e noi, avendo gli affanni dimostrati di Dante
  • e il suo fine, all'altre cose che di lui, oltre alle dette, dir si
  • possono, ci volgiamo.
  • XVI
  • FATTEZZE E COSTUMI DI DANTE
  • Fu il nostro poeta di mediocre statura, ed ebbe il volto lungo e il
  • naso aquilino, le mascelle grandi, e il labbro di sotto proteso tanto,
  • che alquanto quel di sopra avanzava; nelle spalle alquanto curvo, e
  • gli occhi anzi grossi che piccoli, e il color bruno, e i capelli e la
  • barba crespi e neri, e sempre malinconico e pensoso. Per la qual cosa
  • avvenne un giorno in Verona (essendo giá divulgata per tutto la fama
  • delle sue opere, ed esso conosciuto da molti e uomini e donne) che,
  • passando egli davanti ad una porta, dove piú donne sedevano, una di
  • quelle pianamente, non però tanto che bene da lui e da chi con lui era
  • non fosse udita, disse all'altre donne:--Vedete colui che va in
  • inferno, e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che
  • lá giú sono!--Alla quale semplicemente una dell'altre rispose:--In
  • veritá egli dee cosí essere: non vedi tu come egli ha la barba crespa
  • e il color bruno per lo caldo e per lo fummo che è lá giú?--Di che
  • Dante, perché da pura credenza venir lo sentia, sorridendo passò
  • avanti.
  • Li suoi vestimenti sempre onestissimi furono, e l'abito conveniente
  • alla maturitá, e il suo andare grave e mansueto, e ne' domestici
  • costumi e ne' publici mirabilmente fu composto e civile.
  • Nel cibo e nel poto fu modestissimo. Né fu alcuno piú vigilante di lui
  • e negli studi e in qualunque altra sollecitudine il pugnesse.
  • Rade volte, se non domandato, parlava, quantunque eloquentissimo
  • fosse.
  • Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovanezza, e, per
  • vaghezza di quegli, quasi di tutti i cantatori e sonatori famosi suoi
  • contemporanei fu dimestico.
  • Quanto ferventemente esso fosse da amor passionato, assai è dimostrato
  • di sopra.
  • Solitario fu molto e di pochi dimestico. E negli studi, quel tempo che
  • lor poteva concedere, fu assiduo molto.
  • Fu ancora Dante di maravigliosa capacitá e di memoria fermissima, come
  • piú volte nelle disputazioni in Parigi e altrove mostrò.
  • Fu similmente d'intelletto perspicacissimo e di sublime ingegno e,
  • secondo che le sue opere dimostrano, furono le sue invenzioni mirabili
  • e pellegrine assai.
  • Vaghissimo fu e d'onore e di pompa, per avventura piú che non si
  • appartiene a savio uomo. Ma qual vita è tanto umile, che dalla
  • dolcezza della gloria non sia tócca? Questa vaghezza credo che cagion
  • gli fosse d'amare sopra ogni altro studio quel della poesia, accioché
  • per lei al pomposo e inusitato onore della coronazion pervenisse. Il
  • quale senza fallo, sí come degno n'è, avrebbe ricevuto, se fermato
  • nell'animo non avesse di quello non prendere in altra parte, che nella
  • sua patria e sopra il fonte nel quale il battesimo avea ricevuto; ma
  • dallo esilio impedito e dalla morte prevenuto, nol fece. Ma, peroché
  • spessa quistion si fa tra le genti, e che cosa sia la poesí e che il
  • poeta, e donde questo nome venuto, e perché di lauro sieno coronati i
  • poeti, e da pochi pare esser mostrato, mi piace qui di fare alcuna
  • transgressione, nella quale questo alquanto dichiari, e quindi
  • prestamente tornare al proposito.
  • XVII
  • DIGRESSIONE SULL'ORIGINE DELLA POESIA
  • La prima gente ne' primi secoli, comeché rozzissima e inculta fosse,
  • ardentissima fu di conoscere il vero con istudio, sí come noi veggiamo
  • ancora naturalmente disiderare a ciascuno. La quale veggendo il ciel
  • moversi con ordinata legge continuo, e le cose terrene aver certo
  • ordine e diverse operazioni in diversi tempi, pensarono di necessitá
  • dovere essere alcuna cosa, dalla quale tutte queste cose procedessero
  • e che tutte l'altre ordinasse, sí come superiore potenza da niuna
  • altra potenziata. E, questa investigazione seco diligentemente avuta,
  • s'imaginaron quella, la quale «divinitá» ovvero «deitá» appellarono,
  • con ogni cultivazione, con ogni onore e con piú che umano servigio
  • esser da venerare. E perciò ordinarono, a reverenzia di questa suprema
  • potenza, ampissime ed egregie case, le quali ancora estimaron fossero
  • da separare cosí di nome, come di forma separate erano, da quelle che
  • generalmente per gli uomini si abitano; e nominaronle «templi». E
  • similmente avvisaron doversi ministri, li quali fossero sacri e, da
  • ogni altra mondana sollecitudine rimoti, solamente a' divini servigi
  • vacassero, per maturitá, per etá e per abito, piú che gli altri
  • uomini, reverendi; li quali appellaron «sacerdoti». E oltre a questo,
  • in rappresentamento della imaginata essenzia divina, fecero in varie
  • forme magnifiche statue, e a' servigi di quelle vasellamenti d'oro e
  • mense marmoree e purpurei vestimenti e altri apparati assai pertinenti
  • a' sacrifici stabiliti per loro. E accioché a questa cotal potenzia
  • tacito onore o quasi mutolo non si facesse, parve loro che con parole
  • d'alto suono essa deitá fosse da umiliare e alle loro necessitá render
  • propizia. E cosí come essi estimarono questa eccedere ogni altra cosa
  • di nobiltá, cosí vollono che, di lungi ad ogni plebeio o publico stile
  • di parlare, si trovasser parole degne di proferire dinanzi alla
  • divinitá, nelle quali, oltre alle sue lode, si porgessero sacrate
  • lusinghe. E oltre a questo, accioché queste parole potessero avere piú
  • d'efficacia, vollero che fossero sotto legge di certi numeri,
  • corrispondenti per brevitá e per lunghezza a certi tempi ordinati,
  • composte, per li quali alcuna dolcezza si sentisse, e cacciassesi il
  • rincrescimento e la noia; e questo non in volgar forma o usitata, come
  • dicemmo, ma con artificiosa ed esquisita di modi e di vocaboli,
  • convenne che si facesse. La qual forma, cioè di parlare esquisito, li
  • greci appellan «_poetes_»; laonde nacque, che quello parlare, che in
  • cotal modo fatto fosse, «poesie» s'appellasse; e quegli, che ciò
  • facessero o cotal modo di parlare usassero, si chiamasson «poeti».
  • Questa adunque fu la prima origine della poesia e del suo nome, e per
  • conseguente de' poeti, come che altri n'assegnino altre ragioni forse
  • buone: ma questa mi piace piú.
  • Adunque questa buona e laudevole intenzione della rozza etá mosse
  • molti a diverse invenzioni nel mondo multiplicante per apparere; e,
  • dove i primi una sola deitá adoravano, stoltamente mostrarono a'
  • segnenti esserne molte, comeché quella una dicessero, oltre ad ogni
  • altra, ottenere il principato. Tra le quali molte, mostrarono essere
  • il Sole, la Luna, Saturno, Giove e qualunque altro pianeto, la loro
  • erronea dimostrazion roborando da' loro effetti. E da questi vennero a
  • mostrare, ogni cosa utile agli uomini, quantunque terrena fosse, in sé
  • occulta deitá conservare; alle quali tutte e versi e onori e sacrifici
  • divini s'ordinarono. E poi susseguentemente avendo giá cominciato
  • diversi in diversi luoghi, chi con uno ingegno e chi con un altro, a
  • farsi, sopra la moltitudine indòtta della sua contrada, maggiori e a
  • chiamarsi «re» e mostrarsi alla plebe con servi e con ornamenti, e a
  • farsi ubbidire, e talvolta a farsí come Dio adorare; li quali, non
  • fidandosi tanto delle lor forze, cominciarono ad aumentare le
  • religioni, e con la fede di quelle ad impaurire i suggetti e a
  • strignere con sacramenti alla loro obbedienza quegli, li quali non vi
  • si sarebbon con le forze recati. E, oltre a questo, diedono opera a
  • deificare li lor padri, li loro avoli, li lor maggiori, o a dimostrare
  • sé figliuoli degli iddii, accioché piú fosson temuti e avuti in
  • reverenza dal vulgo. Le quali cose non si poterono commodamente fare
  • senza l'oficio de' poeti, li quali, sí per ampliar la lor fama, sí per
  • compiacere a' prencipi, sí per dilettare i sudditi, e sí ancora per
  • suadere agl'intendenti il virtuosamente operare, quello che con aperto
  • parlare saria suto della loro intenzion contrario, con fizioni varie e
  • maestrevoli, male da' grossi, oggi non che a quel tempo, intese,
  • facean credere quello che i prencipi voleano si credesse; servando
  • nelli nuovi iddii e negli uomini, li quali degli iddii nati fingevano,
  • quello medesimo stilo che in quello, che vero Iddio primieramente
  • credettero, usavano. Da questo si venne allo adequare i fatti de'
  • forti uomini a quegli degl'iddii: donde nacque il cantare con eccelso
  • verso le battaglie e gli altri notabili fatti degli uomini
  • mescolatamente con quegli degli iddii. Per che si può delle predette
  • cose comprendere uficio essere del poeta alcuna veritá sotto fabulosa
  • fizion nascondere con ornate ed esquisite parole. E, percioché molti
  • ignoranti credono la poesia niuna altra cosa essere, che semplicemente
  • un favoloso e ornato parlare; oltre al promesso, mi piace brievemente
  • mostrare la poesí esser teologia, o, piú propiamente parlando, quanto
  • piú può simigliante di quella, prima che io vegna a dichiarare perché
  • di lauro si coronino i poeti.
  • XVIII
  • CHE LA POESIA È SIMIGLIANTE ALLA TEOLOGIA
  • Se noi vorrem por giú gli animi e con ragion riguardare, io mi credo
  • che assai leggermente potrem vedere gli antichi poeti avere imitate,
  • tanto quanto all'umano ingegno è possibile, le pedate dello Spirito
  • santo; il quale, sí come noi nella divina Scrittura veggiamo, per la
  • bocca di molti i suo' altissimi segreti rivelò a' futuri, facendo loro
  • sotto velame parlare ciò che a debito tempo per opera, senza alcun
  • velo, intendeva di dimostrare. Impercioché essi, se noi riguarderem
  • bene le loro opere, accioché lo imitatore non paresse diverso dallo
  • imitato, sotto coperta d'alcune fizioni, quello che stato era, o che
  • fosse al lor tempo presente, o che disideravano, o che presumevano che
  • nel futuro dovesse avvenire, discrissono. Per che, comeché ad un fine
  • l'una scrittura e l'altra non riguardasse, ma solo al modo del
  • trattare, quello del poetico stilo dir si potrebbe che della sacra
  • Scrittura dice Gregorio, cioè che essa in un medesimo sermone,
  • narrando, apre il testo e il misterio a quello sottoposto; e cosí ad
  • un'ora con l'uno li savi esercita e con l'altro li semplici
  • riconforta, e ha in publico donde li pargoli nutrichi, e in occulto
  • serva quello onde assai le menti dei sublimi intenditori con
  • ammirazione tenga sospese. Percioché pare essere un fiume piano e
  • profondo, nel quale il piccioletto agnello con gli piè vada e il
  • grande elefante ampissimamente nuoti. Ma da verificar sono le cose
  • predette con alcune dimostrazioni.
  • XIX
  • DIMOSTRAZIONE DELLA PREDETTA SENTENZA
  • Intende la divina Scrittura, l'esplicazion della quale insieme con
  • essa noi «teologia» appelliamo, quando con figura d'alcuna istoria,
  • quando col senso d'alcuna visione, quando con lo 'ntendimento d'alcuna
  • lamentazione, e in altre maniere assai, mostrarci molti secoli avanti
  • esser dallo Spirito santo a' futuri nunziato l'alto misterio della
  • incarnazione del Verbo divino, la vita di quello, le cose occorse
  • nella sua morte, e la resurrezione vittoriosa, e la mirabile
  • ascensione, e ogni altro suo atto, per lo quale noi ammaestrati,
  • possiamo a quella gloria pervenire, la quale Egli e morendo e
  • risurgendo ci aperse, lungamente stata serrata per la colpa del primo
  • uomo. Cosí i poeti nelle loro invenzioni, quando con fizioni di vari
  • iddii, quando con trasformazioni d'uomini in varie forme e quando con
  • leggiadre persuasioni ne mostrarono, sotto la corteccia di quelle, le
  • cagioni delle cose, gli effetti delle virtú e de' vizi e che fuggir
  • dobbiamo e che seguire, accioché pervenir possiamo, virtuosamente
  • operando, a Dio; il quale essi, che lui non debitamente conoscieno,
  • somma salute credeano. Volle lo Spirito santo monstrare nel rubo
  • verdissimo, nel quale Moisé vide, quasí come una fiamma ardente,
  • Iddio, la verginitá di Colei che piú che altra creatura fu pura, e che
  • dovea essere abitazione e ricetto del Signore della natura, non
  • doversi per la concezione, né per lo parto del Verbo del Padre in
  • alcuna parte diminuire. Volle per la visione veduta da Nabucdonosor,
  • nella statua di piú metalli abbattuta da una pietra convertita poi in
  • un monte, mostrare tutte le religioni, leggi e dottrine delle
  • preterite etá dalla dottrina di Cristo, il qual fu ed è viva pietra,
  • [dovere essere sommerse; e la cristiana religione, nata di questa
  • pietra,] divenire una cosa grande, immobile e perpetua, sí come li
  • monti veggiamo. Volle nelle lamentazioni di Ieremia l'eccidio futuro
  • di Ierusalem dichiarare, e quello, per la sua ingratitudine e crudeltá
  • in Cristo, avvenire.
  • Similemente li nostri poeti, fingendo Saturno aver molti figliuoli, e
  • quegli, fuor che quattro, divorar tutti, niuna altra cosa vollono per
  • tal fizion farci sentire, se non per Saturno il tempo, nel quale ogni
  • cosa si produce; e come ella in esso è prodotta, cosí in esso, di
  • tutto corrompitore, viene al niente. I quattro figliuoli dal tempo non
  • divorati sono i quattro elementi, li quali niuna diminuzione avere per
  • lunghezza di tempo veggiamo. Similmente fingono li nostri poeti Ercule
  • d'uomo essere in Dio transformato, e Licaone re d'Arcadia transmutato
  • in lupo: nulla altro volendo mostrarci, se non che, virtuosamente
  • operando come fece Ercule, l'uomo diventa Iddio per participazione; e
  • viziosamente operando, come Licaon fece, cade in infamia, e,
  • quantunque nel primo aspetto paia uomo, quella bestia è dinominato, i
  • vizi della quale sono a' suoi simiglianti: Licaone, percioché rapace e
  • avaro e ingluvioso fu, vizi familiarissimi al lupo, in lupo
  • transformato si disse. Li nostri poeti ancora discrissero mirabile la
  • bellezza de' campi elisi, e in quegli dissono dopo la morte l'anime
  • de' pietosi uomini e valenti abitare: per li quali il cristiano uomo
  • meritamente potrá intendere la dolcezza del paradiso solamente alle
  • pietose anime conceduta. E, oltre a ciò, oscura ed orrida e nel centro
  • della terra finsero la cittá di Dite, e quivi sotto vari tormenti
  • l'anime de' crudeli e malvagi uomini tormentarsi: per la quale chi
  • sará che non prenda l'amaritudine dello 'nferno e i supplici de'
  • dannati tanto quanto piú esser possono rimoti da Dio? Nelle quali
  • fizioni assai chiaro mostrano d'ingegnarsi, con la bellezza dell'uno,
  • di trar gli uomini a virtuosamente operare per acquistarlo, e, con la
  • oscuritá dell'altro, spaventargli, accioché per paura di quella si
  • ritraggano da' vizi e seguitin le virtú. Io lascio il tritare con piú
  • particulari esposizioni queste cose, per non lasciarmi sí oltre nella
  • transgression trasportare, che la principale materia patisca [_a_], e
  • per venire a dimostrare perché di lauro si coronino i poeti.
  • [Footnote _a_: fidandomi ancora che gl'intendenti, per quello che
  • detto è, conosceranno quanta forza, piú trite, al mio argomento
  • aggiugnerieno. Assai adunque per le cose dette credo che è chiaro la
  • teologia e la poesia nel modo del nascondere i suoi concetti con
  • simile passo procedere, e però potersi dire simiglianti. È il vero che
  • il subietto della sacra teologia e quello della poesia de' poeti
  • gentili è molto diverso, percioché quella nulla altra cosa nasconde
  • che vera, ove questa assai erronee e contrarie alla cristiana
  • religione ne discrive: né è di ciò da maravigliarsi molto, peroché
  • quella fu dettata dallo Spirito santo, il quale è tutto veritá, e
  • questa fu trovata dallo 'ngegno degli uomini, li quali di quello
  • Spirito o non ebbono alcuna conoscenza o non l'ebbono tanto piena.]
  • XIX^bis
  • PERCHÉ I POETI NASCONDONO IL VERO SOTTO FIZIONI
  • Io poteva per avventura procedere ad altro, se alcuni disensati ancora
  • un pochetto intorno a questo ragionamento non mi avessero ritirato.
  • Sono adunque alcuni li quali, senza aver mai veduto o voluto vedere
  • poeta (o, se veduto n'hanno alcuno, non l'hanno inteso o non l'hanno
  • voluto intendere), e di ciò estimandosi molto reputati migliori, con
  • ampia bocca dannano quello che ancora conosciuto non hanno, cioè le
  • opere de' poeti e i poeti medesimi, dicendo le lor favole essere opere
  • puerili e a niuna veritá consonanti; e, oltre a ciò, se essi erano
  • uomini d'altissimo sentimento, in altra maniera che favoleggiando
  • dovevano la loro dottrina mostrare. Grande presunzione è quella di
  • molti volere delle questioni giudicare prima che abbiano conosciuti i
  • meriti delle parti: ma, poiché sofferire si conviene, a questi cotali,
  • senza altro martirio, confesso le fizioni poetiche nella prima faccia
  • avere niuna consonanza col vero. Ma, se per questo elle sono da
  • dannare, che diranno costoro delle visioni di Daniello, che di quelle
  • di Ezechiel, che dell'altre del vecchio Testamento, scritte con divina
  • penna, che di quelle di Giovanni evangelista? Diremo, percioché
  • somiglianza di vero in assai cose nella corteccia non hanno, sieno,
  • come stoltamente dette, da rifiutare? Nol consentirá mai chi ficcherá
  • gli occhi dello 'ntelletto nella midolla. E questo voglio ancora che
  • basti per risposta alla seconda opposizione a questi giudici senza
  • legge: cioè che, se lo Spirito santo è da commendare d'avere i suoi
  • alti misteri dato sotto coverta, accioché le gran cose poste con
  • troppa chiarezza nel cospetto di ogni intelletto non venissono in
  • vilipensione, e che la veritá, con fatica e perspicacitá d'ingegno
  • tratta di sotto le scrupolose ma ponderose parole, fosse piú cara e
  • piú e con piú diletto entrasse nella memoria del trovatore; perché
  • saranno da biasimare i poeti, se sotto favolosi parlari avranno
  • nascosi gli alti effetti della natura, le moralitá e i gloriosi fatti
  • degli uomini, mossi dalle sopradette cagioni? Certo io nol conosco.
  • Perché sotto cosí fatta forma i poeti dessero la loro dottrina, oltre
  • a ciò che detto n'è, ne possono le ragioni essere queste: o per
  • imitare piú nobile autore, o perché forse in altra forma non erano
  • ammaestrati. Ma di questo non mi pare da dovere far troppo agra
  • quistione, conciosiacosaché ciascuno in cosí fatte elezioni piú tosto
  • il suo giudicio séguiti che l'altrui; e però piú tosto si potrá
  • dimandare se cotal tradizione è utile o disutile. Alla quale mi pare
  • che rispondere si possa questa utile essere stata, dove i nostri
  • giudici nel gridare la dimostrano disutile; e la ragione puote essere
  • questa. Certissima cosa è che, come gli ingegni degli uomini sono
  • diversi, cosí esser convengono diverse le maniere del dare la
  • dottrina. Assai se ne sono giá veduti, a' quali niuna sillogistica
  • dimostrazione ha potuto far comprendere il vero d'alcuna conclusione;
  • la qual poi per ragioni persuasive hanno subitamente compresa. Che
  • dunque con questi cotali varrá il sillogizzare d'Aristotile? Certo,
  • niente. Cosí al contrario alcuni vilipendono tanto le persuasioni, che
  • nulla crederanno essere vero, se sillogizzando non ne son convinti.
  • Sono altri, li quali solo il nome della filosofia, non che la
  • dottrina, spaventa, e che con sommo diletto alle lezioni delle favole
  • correranno, non estimando sotto quella alcuna particella di filosofia
  • potersi nascondere; ché, se 'l credessero, non le vorrebbono udire. Di
  • questi cotali, non è dubbio, giá assai, dalla novitá delle favole
  • mossi, divennero investigatori della veritá e domestici della
  • filosofia, del cui nome altra volta aveano avuto paura. In questi
  • cotali adunque non furono dannosi i poeti, né disutile il modo del
  • loro trattare, il qual per certo, a chi non lo intende, non può dare
  • altro piacere che faccia il suono della cetera all'asino. E questo al
  • presente basti; e vegniamo a mostrare perché i poeti si coronino
  • d'alloro. _Tra l'altre genti_ ecc.]
  • XX
  • DELL'ALLORO CONCEDUTO AI POETI
  • Tra l'altre genti, alle quali piú aprí la filosofia i suoi tesori, i
  • greci si crede che fosser quegli li quali d'essi trassero la dottrina
  • militare e la vita politica, oltre alla notizia delle cose superiori;
  • e, tra l'altre cose, la santissima sentenzia di Solone nel principio
  • della presente operetta discritta; la quale ottimamente e lungo tempo
  • servarono, fiorendo la loro republica. Alla quale osservare,
  • considerati con gran diligenzia i meriti degli uomini, con publico
  • consentimento ordinarono che, per piú degno guidardon che alcuno
  • altro, sí come a piú utile e piú onorevole fatica alla republica, li
  • poeti dopo la vittoria delle lor fatiche, cioè dopo la perfezione de'
  • lor poemi, e, oltre a ciò, gl'imperadori dopo la vittoria avuta de'
  • nimici della republica, fossono coronati d'alloro; estimando dovere
  • d'un medesimo onore esser degno colui per la cui virtú le cose
  • publiche erano e servate e aumentate, e colui per li cui versi le ben
  • fatte cose eran perpetuate, e vituperate le avverse. La quale
  • remunerazione poi parimente con la gloria dell'arme trapassò a'
  • latini, e ancora, e massimamente nelle coronazioni de' poeti, come che
  • rarissimamente avvengano, vi dimora. Ma perché a tal coronazion piú
  • l'alloro, che fronda d'altro albero, eletto sia [_a_], pare la ragion
  • questa.
  • Vogliono coloro, li quali le virtú e le nature delle piante hanno
  • investigate, il lauro, sí come noi medesimi veggiamo, giammai verdezza
  • non perdere: per la quale perpetua viriditá vollero i greci intendere
  • la perpetuitá della fama di coloro che di coronarsi d'esso si fanno
  • degni. Appresso affermano li predetti investigatori non trovarsi il
  • lauro essere stato mai fulminato, il che d'alcuno altro albero non si
  • crede: e per questo vollono gli antichi mostrare che l'opere di
  • coloro, che di quello si coronano, esser di tanta potenza dotate da
  • Dio, che né il fuoco della 'nvidia, né la folgore della lunghezza del
  • tempo, la quale ogni altra cosa consuma, quelle debba potere
  • offuscare, rodere o diminuire. Dicono, oltre a ciò, i predetti quello
  • che noi tutto il giorno sentiamo, cioè il lauro essere odorifero
  • molto: e per quello vogliono intendere i passati, l'opere di colui,
  • che degnamente se ne corona, sempre dovere esser piacevoli e graziose
  • e odorifere di laudevole fama [_b_]. E perciò era non senza cagione
  • [Footnote _a_: non dovrá parere a udire rincrescevole.
  • Sono alcuni li quali credono, percioché Dafne, amata da Febo e in
  • lauro convertita, fu da lui eletta a coronare le sue vittorie, e i
  • poeti sono a lui consacrati, quindi tale coronazione avere origine
  • avuta: la quale opinione non mi spiace, né niego cosí poter essere
  • stato; ma tuttavia mi muove altra ragione. Secondo che _vogliono
  • coloro_, ecc.]
  • [Footnote _b_: Similemente una quarta proprietá, e maravigliosa, gli
  • aggiungono; e questa è che dicono essere una specie di lauro, la cui
  • pianta non fa mai che tre radici, delle frondi del quale qualunque
  • persona n'avesse alla testa legate e dormisse, vedrebbe veracissimi
  • sogni delle cose future mostranti: per la quale proprietá intesero i
  • nostri maggiori una dimostrarsene, la quale essere ne' poeti si vede.
  • Perciò i poeti, discrivendo l'operazioni d'alcuno, delle quali
  • solamente gli effetti nudi avrá uditi, cosí le particulari incidenzie
  • mai non vedute né udite discriverá, come se all'operazione fosse stato
  • presente; e percioché veridichi in ciò assai volte sono stati trovati,
  • parendo quella essere stata specie di divinazione, furono chiamati
  • «vati», cioè profeti, ed estimarono gli uomini loro di lauro coronare,
  • a mostrare la proprietá della divinazione, nella quale paiono al lauro
  • simiglianti. _E perciò_, ecc.] il nostro Dante, sí come merito poeta,
  • di questa laurea disioso. Della quale percioché assai avem parlato,
  • estimo sia onesto di tornare al proposito.
  • XXI
  • CARATTERE DI DANTE
  • Fu adunque il nostro poeta, oltre alle cose di sopra dette, d'animo
  • altiero e disdegnoso molto: tanto che, cercandosi per alcuno amico
  • come egli potesse in Firenze tornare, né altro modo trovandosi, se non
  • che egli per alcuno spazio di tempo stato in prigione, fosse
  • misericordievolmente offerto a San Giovanni, calcato ogni fervente
  • disio del ritornarvi, rispose che Iddio togliesse via che colui, che
  • nel seno della filosofia cresciuto era, divenisse cero del suo comune.
  • Oltre a questo, di se stesso presunse maravigliosamente tanto, che
  • essendo egli glorioso nel colmo del reggimento della republica, e
  • ragionandosi tra' maggior cittadini di mandar, per alcuna gran
  • bisogna, ambasciata a Bonifazio papa ottavo, e che prencipe
  • dell'ambasciata fosse Dante, ed egli a ciò in presenza di tutti
  • quegli, che sopra ciò consigliavan, richiesto, avvenne che,
  • soprastando egli alla risposta, alcun disse:--Che pensi?--Alle quali
  • parole egli rispose:--Penso: se io vo, chi rimane? e se io rimango,
  • chi va?--quasi esso solo fosse colui che tra tutti valesse e per cui
  • tutti gli altri valessero.
  • Appresso, comeché il nostro poeta nelle sue avversitá paziente o no si
  • fosse, in una fu impazientissimo: egli infino al cominciamento del suo
  • esilio, come i suoi passati, stato guelfissimo, non essendogli aperta
  • la via a ritornare in casa sua, sí fuor di modo diventò ghibellino,
  • che ogni femminella, ogni piccol fanciullo, e quante volte avesse
  • voluto, ragionando di parte e la guelfa preponendo alla ghibellina,
  • l'avrebbe non solamente fatto turbare, ma a tanta insania commosso,
  • che, se taciuto non fosse, a gittar le pietre l'avrebbe condotto.
  • Certo io mi vergogno di dovere con alcun difetto maculare la chiara
  • fama di cotanto uomo; ma il cominciato ordine delle cose in alcuna
  • parte il richiede, percioché, se nelle cose meno laudevoli mi tacerò,
  • io torrò molta fede alle laudevoli giá mostrate. A lui medesimo
  • adunque mi scuso, il quale per avventura me scrivente con isdegnoso
  • occhio d'alta parte del ciel mi riguarda.
  • Tra cotanta vertú, tra cotanta scienza, quanta dimostrato è di sopra
  • essere stata in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la
  • lussuria, e non solamente ne' giovani anni, ma ancora ne' maturi. E
  • questo basti al presente de' suoi costumi piú notabili aver contato, e
  • all'opere da lui composte vegniamo.
  • XXII
  • LA «VITA NUOVA» E LA «COMMEDIA» INCIDENTI OCCORSI NELLA COMPOSIZIONE
  • DI QUESTA OPERA
  • Compose questo glorioso poeta piú opere ne' suoi giorni, tra le quali
  • si crede la prima un libretto volgare, che egli intitola _Vita Nuova_:
  • nel quale egli e in prosa e in sonetti e in canzoni gli accidenti
  • dimostra dell'amore, il quale portò a Beatrice.
  • Appresso piú anni, guardando egli della sommitá del governo della sua
  • cittá, e veggendo in gran parte qual fosse la vita degli uomini,
  • quanti e quali gli error del vulgo, e i cadimenti ancora de' luoghi
  • sublimi come fussero inopinati, gli venne nell'animo quello laudevol
  • pensiero che a' compor lo 'ndusse la _Comedia_. E, lungamente avendo
  • premeditato quello che in essa volesse descrivere, in fiorentino
  • idioma e in rima la cominciò: ma non avvenne il poterne cosí tosto
  • vedere il fine, come esso per avventura imaginò; percioché, mentre
  • egli era piú attento al glorioso lavoro, avendo giá di quello sette
  • canti composti, de' cento che diliberato avea di farne, sopravvenne il
  • gravoso accidente della sua cacciata, ovver fuga, per la quale egli,
  • quella e ogni altra cosa abbandonata, incerto di se medesimo, piú anni
  • con diversi amici e signori andò vagando.
  • Ma non poté la nimica fortuna al piacer di Dio contrastare. Avvenne
  • adunque che alcun parente di lui, cercando per alcuna scrittura in
  • forzieri, che in luoghi sacri erano stati fuggiti nel tempo che
  • tumultuosamente la ingrata e disordinata plebe gli era, piú vaga di
  • preda che di giusta vendetta, corsa alla casa, trovò un quadernuccio,
  • nel quale scritti erano li predetti sette canti. Li quali con
  • ammirazion leggendo, né sappiendo che fossero, del luogo dove erano
  • sottrattigli, gli portò ad un nostro cittadino, il cui nome fu Dino di
  • messer Lambertuccio, in quegli tempi famosissimo dicitore in rima, e
  • gliel mostrò. Li quali avendo veduti Dino, e maravigliatosi sí per lo
  • bello e pulito stilo, sí per la profonditá del senso, il quale sotto
  • la ornata corteccia delle parole gli pareva sentire, senza fallo
  • quegli essere opera di Dante imaginò; e, dolendosi quella essere
  • rimasa imperfetta, e dopo alcuna investigazione avendo trovato Dante
  • in quel tempo essere appresso il marchese Moruello Malespina, non a
  • lui, ma al marchese, e l'accidente e il desiderio suo scrisse, e
  • mandògli i sette canti. Gli quali poi che il marchese, uomo assai
  • intendente, ebbe veduti, e molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante,
  • domandandolo se esso sapea cui opera stati fossero. Li quali Dante
  • riconosciuti, subito rispose che sua. Allora il pregò il marchese
  • che gli piacesse di non lasciar senza debito fine sí alto
  • principio.--Certo--disse Dante--io mi credea nella ruina delle mie cose
  • questi con molti altri miei libri aver perduti; e perciò, sí per questa
  • credenza, e sí per la moltitudine delle fatiche sopravvenute per lo mio
  • esilio, del tutto avea la fantasia, sopra questa opera presa,
  • abbandonata. Ma, poiché inopinatamente innanzi mi son ripinti, e a voi
  • aggrada, io cercherò di rivocare nella mia memoria la imaginazione di
  • ciò prima avuta, e secondo che grazia prestata mi fia, cosí avanti
  • procederò.--Creder si dee lui non senza fatica aver la intralasciata
  • fantasia ritrovata; la qual seguitando, cosí cominciò:
  • Io dico, seguitando, ch'assai prima, ecc.;
  • dove assai manifestamente, chi ben guarda, può la ricongiunzione
  • dell'opera intermessa riconoscere.
  • Ricominciato adunque Dante il magnifico lavoro, non forse, secondo che
  • molti stimano, senza piú interromperlo il perdusse a fine; anzi piú
  • volte, secondo che la gravitá de' casi sopravvegnenti richiedea,
  • quando mesi e quando anni, senza potervi adoperare alcuna cosa,
  • interponeva; intanto che, piú avacciar non potendosi, avanti che tutto
  • il publicasse il sopraggiunse la morte. Egli era suo costume, come sei
  • o otto canti fatti n'avea, quegli, prima che alcun gli vedesse,
  • mandare a messer Can della Scala, il quale egli oltre ad ogni altro
  • uomo in reverenza avea; e, poi che da lui eran veduti, ne faceva copia
  • a chi la volea. E in cosí fatta maniera avendogliele tutti, fuori che
  • gli ultimi tredici canti, mandati, ancora che questi tredici fatti
  • avesse, avvenne che senza farne alcuna memoria si morí; né, piú volte
  • cercati da' figliuoli, mai furon potuti trovare; per che Iacopo e
  • Piero, suoi figliuoli, e ciascun dicitore, dagli amici pregati che
  • l'opera terminasser del padre, a ciò, come sapean, s'eran messi. Ma
  • una mirabile visione a Iacopo, che in ciò piú era fervente, apparita,
  • lui e 'l fratello non solamente della stolta presunzion levò, ma
  • mostrò dove fossero li tredici canti tanto da lor cercati.
  • Raccontava uno valente uom ravignano, il cui nome fu Pier Giardino,
  • lungamente stato discepolo di Dante, grave di costumi e degno di fede,
  • che dopo l'ottavo mese dal dí della morte del suo maestro, venne una
  • notte, vicino all'ora che noi chiamiamo «mattutino», alla casa sua
  • Iacopo di Dante, e dissegli sé quella notte poco avanti a quell'ora
  • avere nel sonno veduto Dante suo padre, vestito di candidissimi
  • vestimenti e d'una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui;
  • il quale gli parea domandare se 'l vivea, e udire da lui per risposta
  • di sí, ma della vera vita, non della nostra. Per che, oltre a questo,
  • gli pareva ancor domandare se egli avea compiuta la sua opera avanti
  • il suo passare alla vera vita; e, se compiuta l'avea, dove fosse
  • quello che vi mancava, da loro giammai non potuto trovare. A questo
  • gli pareva similemente udir per risposta:--Sí, io la compie';--e
  • quinci gli parea che il prendesse per mano, e menasselo in quella
  • camera dove era uso di dormire quando in questa vita vivea, e toccando
  • una parte di quella, diceva:--Egli è qui quello che voi tanto avete
  • cercato.--E, questa parola detta, ad un'ora il sonno e Dante gli parve
  • che si partissono. Per la qual cosa affermava sé non esser potuto
  • stare senza venirgli a significare ciò che veduto avea, accioché
  • insieme andassero a cercare il luogo mostrato a lui, il quale egli
  • ottimamente nella memoria avea segnato, a vedere se vero spirito o
  • falsa delusione questo gli avesse disegnato. Per la qual cosa, comeché
  • ancora assai fosse di notte, mossisi insieme, vennero alla casa nella
  • quale Dante quando morí dimorava; e, chiamato colui che allora in essa
  • stava e dentro da lui ricevuti, al mostrato luogo n'andarono, e quivi
  • trovarono una stuoia al muro confitta, sí come per lo passato
  • continuamente veduta v'aveano. La quale leggiermente in alto levata,
  • vidon nel muro una finestretta da niun di loro mai piú veduta, né
  • saputo che ella vi fosse, e in quella trovaron piú scritte, tutte per
  • l'umiditá del muro muffate e vicino al corrompersi se guari piú state
  • vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, vider segnate per
  • numeri, e conobbero quello, che in esse scritto era, esser de' rittimi
  • della _Comedia_: per che, secondo l'ordine dei numeri continuatele,
  • insieme li tredici canti, che alla _Comedia_ mancavan, ritrovâr tutti.
  • Per la qual cosa lietissimi quegli riscrissono e, secondo l'usanza
  • dell'autore, prima gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta
  • opera gli ricongiunson, come si convenía; e in cotal maniera l'opera,
  • in molti anni compilata, si vide finita.
  • XXIII
  • PERCHÉ DANTE COMPOSE LA «COMMEDIA» IN VOLGARE A CHI EGLI LA DEDICÒ
  • Muovon molti, e intra essi alcun savi uomini, una quistion cosí fatta:
  • che, conciofossecosaché Dante fosse in iscienza solennissimo uomo,
  • perché a comporre cosí grande opera e di sí alta materia, come la sua
  • _Comedia_ appare, si mosse piú tosto a scrivere in rittimi e nel
  • fiorentino idioma che in versi, come gli altri poeti giá fecero. Alla
  • quale si può cosí rispondere. Aveva Dante la sua opera cominciata per
  • versi in questa guisa:
  • _Ultima regna canam, fluido contermina mundo,
  • spiritibus quae lata patent, quae praemia solvunt
  • pro meritis cuicumque suis,_ ecc.
  • Ma, veggendo egli li liberali studi del tutto essere abbandonati, e
  • massimamente da' prencipi, a' quali si soleano le poetiche opere
  • intitolare, e che soleano essere promotori di quelle; e, oltre a ciò,
  • veggendo le divine opere di Virgilio e quelle degli altri solenni
  • poeti venute in non calere e quasi rifiutate da tutti, estimando non
  • dover meglio avvenir della sua, mutò consiglio e prese partito di
  • farla corrispondente, quanto alla prima apparenza, agl'ingegni dei
  • prencipi odierni; e, lasciati stare i versi, ne' rittimi la fece che
  • noi veggiamo. Di che seguí un bene, che de' versi non sarebbe seguito:
  • che, senza tôr via lo esercitare degl'ingegni de' letterati, egli a'
  • non letterati diede alcuna cagion di studiare, e a sé acquistò in
  • brevissimo tempo grandissima fama, e maravigliosamente onorò il
  • fiorentino idioma.
  • Questo libro della _Comedia_, secondo che ragionano alcuni, intitolò
  • egli a tre solennissimi italiani: la prima parte di quello, cioè lo
  • _'Nferno_, ad Uguiccion della Faggiuola, il quale allora in Toscana
  • era signor di Pisa; la seconda, cioè il _Purgatorio_, al marchese
  • Moruello Malespina; la terza, cioè il _Paradiso_, a Federico terzo, re
  • di Cicilia. Alcuni voglion dire lui averlo intitolato tutto a messer
  • Can della Scala; e io il credo piú tosto, per la maniera che tenne di
  • mandar prima a lui quello che composto avea che ad alcuno altro.
  • XXIV
  • ALTRE OPERE COMPOSTE DA DANTE
  • Compose ancora questo egregio autore nella venuta d'Arrigo settimo
  • imperadore un libro in latina prosa, nel quale, in tre libri distinto,
  • prova a bene esser del mondo dovere essere imperadore, e che Roma di
  • ragione il titolo dello imperio possiede, e ultimamente che l'autoritá
  • dello 'mperio procede da Dio senza alcun mezzo. Gli argomenti del
  • quale percioché usati furono in favore di Lodovico duca di Baviera
  • contro alla Chiesa di Roma, fu il detto libro, sedente Giovanni papa
  • ventiduesimo, da messer Beltrando cardinal dal Poggetto, allora per la
  • Chiesa di Roma legato in Lombardia, dannato sí come contenente cose
  • eretiche, e per lui proibito fu che studiare alcun nol dovesse. E se
  • un valoroso cavaliere fiorentino, chiamato messer Pino della Tosa, e
  • messer Ostagio da Polenta, li quali amenduni appresso del legato eran
  • grandi, non avessero al furor del legato obviato, egli avrebbe nella
  • cittá di Bologna insieme col libro fatte ardere l'ossa di Dante[_a_].
  • Oltre a questi, compose il detto Dante egloghe assai belle, le quali
  • furono intitolate e mandate da lui, per risposta di certi versi
  • mandatigli, a maestro Giovanni del Virgilio.
  • Compose ancora molte canzoni distese e sonetti e ballate, oltre a
  • quelle che nella sua _Vita nuova_ si leggono.
  • E sopra tre delle dette canzoni, comeché intendimento avesse sopra
  • tutte di farlo, compose uno scritto in fiorentin volgare, il quale
  • nominò _Convivio_, assai bella e laudevole operetta.
  • [Footnote _a_: Se giustamente o non, Iddio il sa di vero. _Oltre a
  • questi_ ecc.]
  • Appresso, giá vicino alla sua morte, compose un libretto in prosa
  • latina, il quale egli intitolò _De vulgari eloquentia_; e comeché per
  • lo detto libretto apparisca lui avere in animo di distinguerlo e
  • terminarlo in quattro libri, o che piú non ne facesse dalla morte
  • soprappreso, o che perduti sien gli altri, piú non appariscon che i
  • due primi.
  • In cosí fatte cose, quali di sopra narrate sono, consumò il
  • chiarissimo uomo quella parte del suo tempo, la quale egli agli
  • amorosi sospiri, alle pietose lagrime, alle sollecitudini private e
  • publiche e a' vari fluttuamenti della iniqua fortuna poté imbolare:
  • opere troppo piú a Dio e agli uomini accettevoli che gl'inganni, le
  • fraudi, le menzogne, le rapine e' tradimenti, li quali la maggior
  • parte degli uomini usano oggi, cercando per qualunque via un medesimo
  • fine, cioè di divenir ricchi, quasi nelle ricchezze ogni bene, ogni
  • onore, ogni beatitudine stea. Oh menti sciocche, una brieve particella
  • d'un'ora separará dal caduco corpo lo spirito, e tutte queste
  • vituperevoli fatiche annullerá; e il tempo, nel quale ogni cosa si
  • suol consumare, o senza indugio recherá a niente la memoria del ricco,
  • o quella per alcuno spazio con gran vergogna di lui serverá! Il che
  • del nostro poeta certo non avverrá; anzi, sí come noi veggiamo degli
  • strumenti bellici avvenir, che, usandogli, piú chiari diventano
  • ognora, cosí il suo nome, quanto piú sará stropicciato dal tempo,
  • tanto piú chiaro e piú lucente diventerá.
  • XXV
  • SPIEGAZIONE DEL SOGNO DELLA MADRE DI DANTE
  • Mostrato è sommariamente qual fosser l'origine, gli studi e la vita e'
  • costumi, e quali sieno l'opere state dello splendido uomo Dante
  • Alighieri, poeta chiarissimo, e con esse alcuna altra cosa, facendo
  • transgressione, secondo che conceduto m'ha Colui che d'ogni grazia è
  • donatore. Ma la mia fatica non è ancora al suo fine venuta,
  • rammemorandomi una particella nel processo promessa, cioè il sogno
  • della madre del nostro poeta, quando gravida era in lui, e il
  • significato di quello: nel quale se un pochetto mi stendessi, priego
  • pazientemente il sófferino i lettori.
  • Dico adunque che la madre del nostro poeta, essendo gravida di quella
  • gravidezza, della quale esso poi a debito tempo nacque, dormendo, le
  • parve nel sonno vedere sé essere al piè d'uno altissimo alloro, allato
  • a una chiara fontana, e quivi partorire un figliuolo, il quale le
  • pareva il piú pascersi delle bache che dello alloro cadevano, e bere
  • disiderosamente dell'acqua di quella fontana; e da questo cibo
  • nudrito, le parea che in piccol tempo crescesse e divenisse pastore, e
  • nella vista grandissima vaghezza mostrasse d'aver delle frondi di
  • quello alloro, le cui bache l'avean nutricato; e, sforzandosi d'aver
  • di quelle, avanti che ad esse giunto fosse, le pareva che egli
  • cadesse; e, aspettando ella di vederlo levare, non lui, ma in luogo di
  • lui le pareva vedere un bellissimo paone esser levato. Dalla qual
  • maraviglia la gentil donna commossa, senza piú avanti vedere, ruppe il
  • dolce sonno. Né tenne quello, che veduto aveva, nascoso, comeché,
  • recitatolo a molti, neuno ne fosse, che quello per quel comprendesse
  • che seguir ne dovea. Il che, poi che avvenuto è, piú leggiermente
  • conoscer si puote, sí come io appresso mi credo mostrare[_a_].
  • [Footnote _a_: Opinione è degli astrolagi e di molti filosofi
  • naturali, per la virtú e influenzia de' corpi superiori, gl'inferiori,
  • quali che essi si sieno, e producersi e nutricarsi, e ciascheduno,
  • secondo la qualitá della virtú infusa, essere piú utile ad alcuna o
  • alcune cose che al rimanente dell'altre: il che assai appare negli
  • uomini, se le loro attitudini guarderemo. Percioché noi tra molti ne
  • vedremo alcuno, che senza dottrina, senza maestro, senza alcuna
  • dimostrazione, sospinto solamente da uno istinto naturale, divenire
  • ottimo cantatore; e, se quanti fabbri furono mai gli fussono
  • d'intorno, non gli potrebbono insegnare tenere un martello in mano,
  • non che formare una spada; e, se pure, constretto, o per molta
  • consuetudine dell'arte fabbrile alcuna cosa imparasse o facesse, come
  • in suo arbitrio sará, al naturale suo intento, cioè al canto, si
  • tornerá, se da sé giá per forza della sua libertá non lasciasse il
  • canto, e al martello s'attenesse. Cosí alcuno altro nascerá a
  • disegnare e a intagliare sí disposto, che ogni piccola dimostrazione
  • il fará in ciò in brevissimo tempo sommo maestro, dove in qualunque
  • altra leggiera arte fia durissima cosa ad introdurlo. Che andrò io
  • della varietá delle singolari disposizioni degli uomini dicendo, se
  • non quello che il nostro poeta medesimo ne dice:
  • Un ci nasce Solone, ed altro Xerse,
  • altri Melchisedech, ed altri quello
  • che, volando per l'aere, il figlio perse?
  • Appare adunque varie constellazioni a varie cose disporre gli ingegni
  • degli uomini; e però, considerato chi fu Dante e quale la sua
  • principale affezione, assai bene si conoscerá il cielo nella sua
  • nativitá essere disposto a dover producere un poeta. E, perché
  • l'alloro, come davanti avemo mostrato, è quello albero, le cui frondi
  • testimoniano nella coronazione la facoltá del poeta, meritamente
  • possiamo dire, l'alloro dalla donna veduto significare e la
  • disposizione del cielo nella nativitá futura di Dante, e la precipua
  • affezione e studio di colui che nascere dovea, sí come chiaramente
  • n'ha dimostrato quello che appresso la nativitá di Dante è seguito.
  • _L'essersi colui_, ecc.]
  • Possiamo adunque, riguardando, come di sopra è detto, l'alloro esser
  • de' poeti ornamento, per quello dalla donna veduto intendere la
  • disposizion celeste esser stata atta, nella concezion di Dante, a
  • dover producere un poeta.
  • L'essersi colui, che nato era, delle bache che dello alloro cadevano
  • nudrito, assai chiaramente dimostra quali dovevano essere gli studi di
  • Dante; percioché, sí come il corpo si nutrica e cresce del cibo, cosí
  • gl'ingegni degli uomini si nutricano e aumentano degli studi. E le
  • bache, che frutto son dell'alloro, non vogliono altro significare che
  • i frutti della poesia nati, li quali sono i libri da' poeti composti,
  • e da' quali Dante senza dubbio e nutricò e aumentò il suo ingegno.
  • Il chiarissimo fonte, del quale pareva alla donna che bevesse il suo
  • figliuolo, niuna altra cosa credo che voglia significare se non il
  • copioso e abbondantissimo seno della filosofia, del quale, ciò che
  • compor si vuole, è di necessitá che si prenda; e, sí come il poto è
  • ordinatore e disponitor nello stomaco del cibo preso, cosí la
  • filosofia, d'ogni cosa buona maestra verissima, con la sua dottrina è
  • ottima componitrice d'ogni cosa a debito fine. Nelle cui scuole, come
  • di sopra mostrammo, accioché sé e le sue invenzioni ordinare sapesse,
  • e intender compiutamente l'altrui, il nostro poeta bevve piú tempo
  • digestivo e salutevole beveraggio.
  • Appresso il parere pastor divenuto, la sublimitá del suo ingegno ne
  • mostra, per la quale in brieve tempo divenne tanto e tale, che non
  • solamente bastevole fu a governar sé, ma eziandio a mostrare agli
  • altri ingegni la sua dottrina. Sono, al mio giudicio, di pastori due
  • maniere: corporali e spirituali [_a_]. I corporali sono i pastor
  • silvani, li re e' padri delle famiglie; li spirituali
  • [Footnote _a_: Li corporali similmente sono di due qualitá, l'una
  • delle quali sono quegli che, per le selve e per gli prati, le pecore,
  • gli buoi e gli altri armenti pascendo menano; l'altra sono
  • gl'imperadori, i re, i padri delle famiglie, i quali con giustizia e
  • in pace hanno a conservare i popoli loro commessi, e a trovare onde
  • vengano a' tempi opportuni i cibi a' sudditi e a' figliuoli. Li
  • spirituali pastori similmente dire si possono di due maniere: delle
  • quali è l'una quella di coloro che pascono l'anime de' viventi di cibo
  • spirituale, cioè della parola di Dio, e questi sono i prelati, i
  • predicatori e i sacerdoti, nella cui custodia sono commesse l'anime
  • labili di qualunque sotto il governo a ciascuno ordinato dimora;
  • l'altra è quella di coloro, li quali in alcuna scienzia ammaestrati
  • prima, poi ammaestrano altrui leggendo o componendo. E di questa
  • maniera di pastori vide la madre il suo figliuolo divenuto. Lo
  • sforzarsi ad aver delle frondi assai manifesto ne mostra essere il
  • desiderio della laureazione, peroché ogni fatica aspetta premio, e il
  • premio dello avere alcuna cosa poetica composta, è l'onore che per la
  • corona dello alloro si riceve. Ma séguita che cadere il vide, quando
  • piú a ciò si sforzava; il quale cadere niuna altra cosa fu se non quel
  • cadimento che tutti facciamo senza levarci, cioè il morire: il che a
  • lui avvenne quando giá avea finito quello per che meritamente la
  • laureazione gli seguiva. Seguentemente dicea che in luogo di lui vide
  • levarsi un paone; ove intender si dee che, dopo alla morte di
  • ciascuno, a servare il nome suo appo i futuri surgono l'opere sue. E
  • perciò in luogo d'Alessandro macedonico, di Iuda Maccabeo, di Scipione
  • Affricano, abbiamo le loro vittorie e l'altre magnifiche opere; in
  • luogo d'Aristotile, di Solone e di Virgilio, abbiamo i loro libri, le
  • loro composizioni, eterne conservatrici de' nomi e della presenzia
  • loro nel cospetto di que' che vivono; e cosí _in luogo di Dante_ ecc.]
  • sono i prelati e' sacerdoti e similmente i dottori, in qualunque
  • facultá de' quali il nostro Dante fu uno.
  • Lo sforzarsi ad aver delle frondi assai manifestamente ne mostra
  • essere stato il disiderio della laureazione, nel quale mentre si
  • faticava cadde, cioè morí.
  • E vide la madre in luogo di lui levarsi un paone: per che intender si
  • dee che, dopo alla morte di ciascuno, a servare il nome suo appo i
  • futuri surgono l'opere sue. Laonde in luogo di Dante abbiamo la sua
  • _Comedia_, la quale ottimamente si può conformare ad un paone. Il
  • paone, secondo che comprendere si può, ha queste proprietá: che la sua
  • carne è odorifera e incorruttibile; la sua penna è angelica, e in
  • quella ha cento occhi; li suoi piedi sono sozzi, e tacita l'andatura;
  • e, oltre a ciò, ha sonora e orribile voce: le quali cose con la
  • _Comedia_ del nostro poeta ottimamente si convengono.
  • Dico adunque primieramente che, cercando in assai parti lo intrinseco
  • senso della _Comedia_, e in assai lo intrinseco e lo estrinseco, si
  • troverá essere semplice e immutabile veritá, non di gentilizio puzzo
  • spiacevole, ma odorifera di cristiana soavitá, e in niuna cosa dalla
  • religione di quella scordante.
  • Dissi, appresso, il paone avere angelica penna, e in quella cento
  • occhi. Certo io non vidi mai alcuno angelo; ma, udendo che voli,
  • estimo che penne aver debba; e, non sappiendone alcuna fra questi
  • nostri uccelli piú bella né cosí peregrina, considerata la nobiltá di
  • loro, imagino che cosí la debbiano aver fatta, e però non da queste le
  • loro, ma queste da quelle dinomino; e intendo per quelle, delle quali
  • questo paon si cuopre, la bellezza della peregrina istoria che appare
  • nella lettera della _Comedia_; e il cambiare del color di quella,
  • secondo i vari mutamenti di questo uccello, niuna altra cosa esser
  • sento, se non la varietá de' sensi che a quella in una maniera e in
  • altra, leggendola, si posson dare. E i cento occhi, chi non intenderá
  • i cento canti di quella, ne' quali ella cosí è ordinata e distinta e
  • ornata, come ne' lor luoghi distinti mirabilmente gli occhi si veggono
  • nel paone?
  • Sono e al paone i piè sozzi e l'andatura queta: le quali cose
  • ottimamente alla _Comedia_ del nostro autor si confanno; percioché, sí
  • come sopra i piedi pare che tutto il corpo si sostenga, cosí _prima
  • facie_ pare che sopra il modo del parlare ogni opera in iscrittura
  • composta si sostenga; e il parlare volgare, nel quale e sopra il quale
  • ogni giuntura della _Comedia_ si sostiene, a rispetto dell'alto e
  • maestrevole stilo letterale che usa ciascuno altro poeta, è senza
  • dubbio sozzo. L'andar quieto e tacito significa l'umiltá dello stilo,
  • il quale nelle comedie di necessitá si richiede, come color sanno che
  • intendon che vuol dir «comedia».
  • Ultimamente dico che la voce del paone è sonora e orribile; la quale,
  • comeché la soavitá delle parole del nostro poeta paia e sia molta,
  • nondimeno chi bene in alcune parti riguarderá, ottimamente conoscerá
  • confarsi con la voce della _Comedia_, e massimamente dove con
  • acerbissime invezioni grida ne' vizi d'alcuni, oppur, distesamente
  • procedendo, d'alcuni altri morde le colpe o gastiga i miseri
  • peccatori. E niuna è piú orrida voce di quella del gastigante, e
  • massimamente a colui che ha commesso o a colui che, a mandare i suoi
  • appetiti ad effetto, schifa l'ostacolo del riprensore. Per la qual
  • cosa e per l'altre di sopra mostrate assai appare, colui che fu,
  • vivendo, pastore, dopo la morte esser divenuto paone, sí come creder
  • si puote essere stato per divina spirazione nel sonno mostrato alla
  • cara madre[_a_].
  • [Footnote _a_: Questa esposizione del sogno della madre del nostro
  • poeta conosco essere assai superficialmente per me fatta; e questo per
  • piú cagioni. Primieramente, perché per avventura la sufficienzia, che
  • a tanta cosa si richiederebbe, non c'era; appresso, posto che stata ci
  • fosse, piú tosto altro luogo per sé richiedeva che questo, ad altra
  • materia congiunta; ultimamente, quando la sufficienzia ci fosse stata,
  • e la materia l'avesse patito, era ben fatto, piú che detto sia, non
  • essere detto da me, accioché ad altrui piú di me sufficiente e piú
  • vago di ciò alcun luogo si lasciasse di dire. _La mia picciola barca_,
  • ecc.]
  • XXVI
  • CONCLUSIONE
  • La mia picciola barca è pervenuta al porto, al quale ella drizzò la
  • proda partendosi dallo apposito lito; e, comeché il peleggio sia stato
  • piccolo e il mare basso e tranquillo, nondimeno, di ciò che senza
  • impedimento è venuta, ne sono da render grazie a Colui che felice
  • vento ha prestato alle sue vele. Al Quale con quella umiltá e
  • divozione che io posso maggiore, non cosí grandi come si converrieno,
  • ma quelle che io posso, rendo, benedicendo in eterno il nome suo.
  • III
  • COMENTO ALLA «DIVINA COMMEDIA»
  • PROEMIO
  • [Lez. I]
  • «Nel mezzo del cammin di nostra vita», ecc. La nostra umanitá,
  • quantunque di molti privilegi dal nostro Creatore nobilitata sia,
  • nondimeno di sua natura è sí debile, che cosa alcuna, quantunque
  • menoma sia, fare non può né bene né compiutamente, senza la divina
  • grazia. La qual cosa gli antichi valenti uomini e' moderni
  • considerando, a quella supplicemente addomandare e con ogni divozione
  • a nostro potere impetrare, almeno ne' princípi d'ogni nostra
  • operazione, pietosamente e con paterna affezione ne confortano. Alla
  • qual cosa dee ciascuno senza alcuna difficultá divenire, leggendo
  • quello che ne scrive Platone, uomo di celestiale ingegno, nel fine del
  • prologo del suo _Timeo_, per sé dicendo: «_Nam cum omnibus mos sit et
  • quasi quaedam religio, qui vel de maximis rebus, vel de minimis
  • aliquid acturi sunt, precari divinitatem ad auxilium; quanto nos
  • aequius est, qui universitatis naturae substantiaeque rationem
  • praestaturi sumus, invocare divinam opem, nisi plane quodam saevo
  • furore atque implacabili raptemur amentia?_». E, se Platone confessa
  • sé, piú che alcun altro, avere del divino aiuto bisogno, io che debbo
  • di me presumere, conoscendo il mio intelletto tardo, lo 'ngegno
  • piccolo e la memoria labile? E spezialmente, sottentrando a peso molto
  • maggiore che a' miei ómeri si convegna, cioè a spiegare l'artificioso
  • testo, la moltitudine delle storie, e la sublimitá de' sensi nascosi
  • sotto il poetico velo della _Commedia_ del nostro Dante; e
  • massimamente ad uomini d'alto intendimento e di mirabile perspicacitá,
  • come universalmente solete esser voi, signori fiorentini: certo, oltre
  • ogni considerazione umana, debbo credere abbisognarmi. Adunque,
  • accioché quello che io debbo dire sia onore e gloria dell'altissimo
  • nome di Dio, e consolazione e utilitá degli auditori, intendo, avanti
  • che io piú oltre proceda, quanto piú umilmente posso, ricorrere ad
  • invocare il suo aiuto; molto piú della sua benignitá fidandomi che
  • d'alcuno mio merito. E, impercioché di materia poetica parlar dovemo,
  • poeticamente quello invocherò con Anchise troiano, dicendo que' versi
  • che nel secondo del suo _Eneida_ scrive Virgilio:
  • _Iupiter omnipotens, precibus si flecteris ullis,
  • aspice nos: hoc tantum: et, si pietate meremur,
  • da deinde auxilium, pater,_ ecc.
  • [Invocata adunque la divina clemenzia che alla presente fatica ne
  • presti della sua grazia, avanti che alla lettera del testo si venga,
  • estimo sieno da vedere tre cose, le quali generalmente si soglion
  • cercare ne' princípi di ciascuna cosa che appartenga a dottrina: la
  • primiera è di mostrare quante e quali sieno le cause di questo libro;
  • la seconda, qual sia il titolo del libro; la terza, a qual parte di
  • filosofia sia il presente libro supposto.]
  • [Le cause di questo libro son quattro: la materiale, la formale, la
  • efficiente e la finale. La materiale è, nella presente opera, doppia,
  • cosí come è doppio il suggetto, il quale è colla materia una medesima
  • cosa; percioché altro suggetto è quello del senso letterale, e altro
  • quello del senso allegorico, li quali nel presente libro amenduni
  • sono, sí come manifestamente apparirá nel processo. È adunque il
  • suggetto secondo il senso letterale: lo stato dell'anime dopo la morte
  • de' corpi semplicemente preso; percioché di quello, e intorno a
  • quello, tutto il processo della presente opera intende. Il suggetto
  • secondo il senso allegorico è: come l'uomo, per lo libero arbitrio
  • meritando e dismeritando, è alla giustizia di guiderdonare e di punire
  • obbligato. La causa formale è similmente doppia, percioch'egli è la
  • forma del trattato e la forma del trattare. La forma del trattato è
  • divisa in tre, secondo la triplice divisione del libro. La prima
  • divisione è quella secondo la quale tutta l'opera si divide, cioè in
  • tre cantiche; la seconda divisione è quella secondo la quale ciascuna
  • delle tre cantiche si divide in canti; la terza divisione è quella
  • secondo la quale ciascun canto si divide in rittimi. La forma, o vero
  • il modo del trattare, è poetico, fittivo, discrittivo, digressivo e
  • transuntivo; e con questo, difinitivo, divisivo, probativo,
  • reprobativo e positivo d'esempli. La causa efficiente è esso medesimo
  • autore Dante Alighieri, del quale piú distesamente diremo appresso,
  • dove del titolo del libro parleremo. La causa finale della presente
  • opera è: rimuovere quegli che nella presente vita vivono, dallo stato
  • della miseria, allo stato della felicitá.]
  • [La seconda cosa principale, che è da vedere, è qual sia il titolo del
  • presente libro, il quale secondo alcuni è questo: «Incomincia la
  • _Commedia_ di Dante Alighieri fiorentino»; alcun altro, seguendo piú
  • la 'ntenzione dell'autore, dice il titolo essere questo: «Incominciano
  • le cantiche della _Commedia_ di Dante Alighieri fiorentino». La quale,
  • percioché, come detto è, è in tre parti divisa, dice il titolo di
  • questa prima parte essere: «Incomincia la prima cantica delle cantiche
  • della _Commedia_ di Dante Alighieri»; volendo per questa mostrare
  • dovere il titolo di tutta l'opera essere: «Cominciano le cantiche
  • della Commedia di Dante» ecc., come detto è.]
  • [Ma, perché questo poco resulta, il lasceremo nell'albitrio degli
  • scrittori, e verremo a quello per che all'autore dové parere di
  • doverlo cosí intitolare, dicendo la cagione del titolo secondo,
  • percioché in quello si conterrá la cagione del primo, il quale quasi
  • da tutti è usitato. E ad evidenzia di questo, secondo il mio giudicio,
  • è da sapere, sí come i musici ogni loro artificio formano sopra certe
  • dimensioni di tempi lunghe e brievi, e acute e gravi, e della varietá
  • di queste, con debita e misurata proporzione congiunta, e quello poi
  • appellano «canto»; cosí i poeti, non solamente quelli che in latino
  • scrivono, ma eziandio coloro che, come il nostro autore fa,
  • volgarmente dettano: componendo i lor versi, secondo la diversa
  • qualitá d'essi, di certo e diterminato numero di piedi, intra se
  • medesimi, dopo certa e limitata quantitá di parole, consonanti: sí
  • come nel presente trattato veggiamo che, essendo tutti i rittimi
  • d'equal numero di sillabe, sempre il terzo piè nella sua fine è
  • consonante alla fine del primo, che in quella consonanza finisce. Per
  • che pare che a questi cotali versi, o opere composte per versi, quello
  • nome si convenga che i musici alle loro invenzioni dánno, come davanti
  • dicemmo, cioè «canti», e per conseguente quella opera, che di molti
  • canti è composta, doversi «cantica» appellare, cioè cosa in sé
  • contenente piú canti.]
  • [Appresso si dimostra nel titolo questo libro essere appellato
  • «commedia». A notizia della qual cosa è da sapere che le poetiche
  • narrazioni sono di piú e varie maniere, sí come è tragedia, satira e
  • commedia, buccolica, elegia, lirica ed altre. Ma, volendo di quella
  • sola, che al presente titolo appartiene, vedere, vogliono alcuni mal
  • convenirsi a questo libro questo titolo, argomentando primieramente
  • dal significato del vocabolo, e appresso dal modo del trattare de'
  • comici, il quale pare molto essere differente da quello che l'autore
  • serva in questo libro. Dicono adunque primieramente mal convenirsi le
  • cose cantate in questo libro col significato del vocabolo; percioché
  • «commedia» vuol tanto dire quanto canto di villa, composto da
  • «_comos,_», che in latino viene a dire «villa», e «_odos_», che viene
  • a dire «canto»; e i canti villeschi, come noi sappiamo, sono di basse
  • materie, sí come di loro quistioni intorno al cultivar della terra, o
  • conservazione di lor bestiame, o di lor bassi e rozzi innamoramenti e
  • costumi rurali: a' quali in alcuno atto non sono conformi le cose
  • narrate in alcuna parte della presente opera; ma sono di persone
  • eccellenti, di singulari e notabili operazioni degli uomini viziosi e
  • virtuosi, degli effetti della penitenza, de' costumi degli angeli e
  • della divina essenza. Oltre a questo, lo stilo comico è umile e
  • rimesso, accioché alla materia sia conforme; quello che della presente
  • opera dir non si può; percioché, quantunque in volgare scritto sia,
  • nel quale pare che comunichino le femminette, egli è nondimeno ornato
  • e leggiadro e sublime; delle quali cose nulla sente il volgar delle
  • femmine. Non dico però che, se in versi latini fosse, non mutato il
  • peso delle parole volgari, ch'egli non fosse molto piú artificioso e
  • piú sublime, percioché molto piú d'arte e di gravitá ha nel parlar
  • latino che nel materno.]
  • [E appresso, dell'arte spettante al commedo;] mai nella commedia non
  • introducere se medesimo in alcun atto a parlare, ma sempre a varie
  • persone, che in diversi luoghi e tempi e per diverse cagioni deduce a
  • parlare insieme, fa ragionare quello che crede che appartenga al tema
  • impreso della commedia: dove in questo libro, lasciato l'artificio del
  • commedo, l'autore spessissime volte, e quasi sempre, or di sé or
  • d'altrui ragionando favella. Similmente nelle commedie non s'usano
  • comparazioni né recitazioni d'altre istorie che di quelle che al tema
  • assunto appartengono; dove in questo libro si pongono comparazioni
  • infinite, e assai istorie si raccontano, che dirittamente non fanno al
  • principale intento. Sono ancora le cose, che nelle commedie si
  • raccontano, cose che per avventura mai non furono, quantunque non
  • sieno sí strane da' costumi degli uomini che essere state non possano:
  • la sustanziale istoria del presente libro, dello essere dannati i
  • peccatori, che ne' lor peccati muoiono, a perpetua pena, e quegli, che
  • nella grazia di Dio trapassano, essere elevati all'eterna gloria, è,
  • secondo la cattolica fede, vera e santa sempre. Chiamano, oltre a
  • tutto questo, i commedi le parti intra sé distinte delle lor commedie
  • «scene»; percioché, recitando li commedi quelle nel luogo detto
  • «scena», nel mezzo del teatro, quante volte introducevano varie
  • persone a ragionare, tante della scena uscivano i mimi trasformati da
  • quelli che prima avevano parlato e fatto alcun atto, e in forma di
  • quegli che parlar doveano, venivano davanti al popolo riguardante e
  • ascoltante il commedo che recitava: dove il nostro autore chiama
  • «canti» le parti della sua _Commedia_. E cosí, accioché fine pognamo
  • agli argomenti, pare, come di sopra è detto, non convenirsi a questo
  • libro nome di «commedia». Né si può dire non essere stato della mente
  • dell'autore che questo libro non si chiamasse «commedia», come
  • talvolta ad alcuno di alcuna sua opera è avvenuto; conciosiacosaché
  • esso medesimo nel ventunesimo canto di questa prima cantica il chiami
  • commedia, dicendo: «Cosí di ponte in ponte altro parlando, Che la mia
  • commedia cantar non cura», ecc. Che adunque diremo alle obiezioni
  • fatte? Credo, conciosiacosaché oculatissimo uomo fosse l'autore, lui
  • non avere avuto riguardo alle parti che nelle commedie si contengono,
  • ma al tutto, e da quello avere il suo libro dinominato,
  • figurativamente parlando. Il tutto della commedia è (per quello che
  • per Plauto e per Terenzio, che furono poeti comici, si può
  • comprendere): che la commedia abbia turbolento principio e pieno di
  • romori e di discordie, e poi l'ultima parte di quella finisca in pace
  • e in tranquillitá. Al qual tutto è ottimamente conforme il libro
  • presente: percioché egli incomincia da' dolori e dalle turbazioni
  • infernali, e finisce nel riposo e nella pace e nella gloria, la quale
  • hanno i beati in vita eterna. E questo dee poter bastare a fare che
  • cosí fatto nome si possa di ragion convenire a questo libro.
  • [Resta a vedere chi fosse l'autore di questo libro: la qual cosa non
  • pure in questo libro, ma in ciascun altro pare di necessitá di doversi
  • sapere; e questo, accioché noi non prestiamo stoltamente fede a chi
  • non la merita, conciosiacosaché noi leggiamo: «_Qui misere credit,
  • creditur esse miser_». E qual cosa è piú misera che credere al
  • patricida dell'umana pietá, al libidinoso della castitá, o all'eretico
  • della fede cattolica? Rade volte avviene che l'uomo contro alla sua
  • professione favelli. Voglionsi adunque esaminare la vita, e' costumi e
  • gli studi degli uomini, accioché noi cognosciamo quanta fede sia da
  • prestare alle loro parole.]
  • [Fu adunque l'autore del presente libro, sí come il titolo ne
  • testimonia, Dante Alighieri, per ischiatta nobile uomo della nostra
  • cittá; e la sua vita non fu uniforme, ma, da varie mutazioni
  • infestata, spesse volte in nuove qualitá di studi si permutò, della
  • qual non si può convenevolmente parlare che con essa non si ragioni
  • de' suoi studi. E però egli primieramente dalla sua puerizia nella
  • patria si diede agli studi liberali, e in quegli maravigliosamente
  • s'avanzò; percioché, oltre alla prima arte, fu, secondo che appresso
  • si dirá, maraviglioso loico, e seppe retorica, sí come nelle sue opere
  • appare assai bene; e, percioché nella presente opera appare lui essere
  • stato astrolago, e quello esser non si può senza arismetrica e
  • geometria, estimo lui similemente in queste arti essere stato
  • ammaestrato. Ragionasi similmente lui nella sua giovanezza avere udita
  • filosofia morale in Firenze, e quella maravigliosamente bene avere
  • saputa: la qual cosa egli non volle che nascosa fosse nell'undicesimo
  • canto di questo trattato, dove si fa dire a Virgilio: «Non ti rimembra
  • di quelle parole, Con le qua' la tua Etica pertratta», ecc., quasi
  • voglia per questa s'intenda la filosofia morale in singularitá essere
  • stata a lui familiarissima e nota. Similemente udí in quella gli
  • autori poetici, e studiò gli storiografi, e ancora vi prese altissimi
  • princípi nella filosofia naturale, sí come esso vuole che si senta per
  • li ragionamenti suoi in questa opera avuti con ser Brunetto Latino, il
  • quale in quella scienza fu reputato solennissimo uomo. Né fu,
  • quantunque a questi studi attendesse, senza grandissimi stimoli,
  • datigli da quella passione, la qual noi generalmente chiamiamo
  • «amore»: e similmente dalla sollecitudine presa degli onori publici,
  • a' quali ardentemente attese, infino al tempo che, per paura di
  • peggio, andando le cose traverse a lui e a quegli che quella setta
  • seguivano, convenne partir di Firenze. Dopo la qual partita, avendo
  • alquanti anni circuita Italia, credendosi trovar modo a ritornare
  • nella patria, e di ciò avendo la speranza perduta, se n'andò a Parigi,
  • e quivi ad udire filosofia naturale e teologia si diede; nelle quali
  • in poco tempo s'avanzò tanto, che fatti e una e altra volta certi atti
  • scolastici, sí come sermonare, leggere e disputare, meritò grandissime
  • laude da' valenti uomini. Poi in Italia tornatosi, e in Ravenna
  • riduttosi, avendo giá il cinquantesimosesto anno della sua etá
  • compiuto, come cattolico cristiano fece fine alla sua vita e alle sue
  • fatiche, dove onorevolmente fu appo la chiesa de' frati minori
  • seppellito, senza aver preso alcun titolo o onore di maestrato, sí
  • come colui che attendeva di prendere la laurea nella sua cittá,
  • com'esso medesimo testimonia nel principio del canto venticinquesimo
  • del _Paradiso_. Ma al suo disiderio prevenne la morte, come detto è. I
  • suoi costumi furono gravi e pesati assai, e quasi laudevoli tutti; ma,
  • percioché giá delle predette cose scrissi in sua laude un trattatello,
  • non curo al presente di piú distenderle. Le quali cose se con sana
  • mente riguardate saranno, mi pare esser certo che assai dicevole
  • testimonio sará reputato e degno di fede, in qualunque materia è stata
  • nella sua _Commedia_ da lui recitata.]
  • [Ma del suo nome resta alcuna cosa da recitare, e pria del suo
  • significato, il quale assai per se medesimo si dimostra; percioché
  • ciascuna persona, la quale con liberale animo dona di quelle cose, le
  • quali egli ha di grazia ricevute da Dio, puote essere meritamente
  • appellato Dante. E che costui ne desse volentieri, l'effetto nol
  • nasconde. Esso, a tutti coloro che prender ne vorranno, ha messo
  • davanti questo suo singulare e caro tesoro, nel quale parimente onesto
  • diletto e salutevole utilitá si trova da ciascuno che non caritevole
  • ingegno cercare ne vuole. E, percioché questo gli parve
  • eccellentissimo dono, sí per la ragion detta, e sí perché con molta
  • sua fatica, con lunghe vigilie e con istudio continuo l'acquistò, non
  • parve a lui dovere essere contento che questo nome da' suoi parenti
  • gli fosse imposto casualmente, come molti ciascun dí se ne pongono;
  • per dimostrar quello essergli per disposizion celeste imposto, a due
  • eccellentissime persone in questo suo libro si fa nominare; delle
  • quali la prima è Beatrice, la quale apparendogli in sul triunfale
  • carro del celestiale esercito in su la suprema altezza del monte di
  • purgatorio, intende essere la sacra teologia, dalla quale si dee
  • credere ogni divino misterio essere inteso, e con gli altri insieme
  • questo, cioè che egli per divina disposizione chiamato sia Dante. A
  • confermazione di ciò, si fa a lei Dante appellare in quella parte del
  • trentesimo canto del _Purgatorio_, nel quale essa, parlandogli, gli
  • dice: «Dante, perché Virgilio se ne vada»: quasi voglia s'intenda, se
  • ella di questo nome non lo avesse conosciuto degno, o non l'avrebbe
  • nominato, o avrebbelo per altro nome chiamato. Oltre a ciò,
  • soggiugnendo, per la ragion giá detta, in quello luogo di necessitá
  • registrarsi il nome suo, e questo ancora, accioché paia lui a tal
  • termine della teologia esser pervenuto che, essendo Dante, possa senza
  • Virgilio, cioè senza la poesia, o vogliam dire senza la ragione delle
  • terrene cose, valere alle divine. L'altra persona, alla quale nominar
  • si fa, è Adamo nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di
  • nominare tutte le cose create; e, perché si crede lui averle
  • degnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare
  • che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza di
  • Adamo. La qual cosa fa nel canto ventiseesimo del _Paradiso_, lá dove
  • Adamo gli dice: «Dante, la voglia tua discerno meglio» ecc. E questo
  • basti intorno al titolo avere scritto.]
  • [La terza cosa principale, la qual dissi essere da investigare, è a
  • qual parte di filosofia sia sottoposto il presente libro; il quale,
  • secondo il mio giudizio, è sottoposto alla parte morale, ovvero etica:
  • percioché, quantunque in alcun passo si tratti per modo speculativo,
  • non è perciò per cagione di speculazione ciò posto, ma per cagion
  • dell'opera, la quale quivi ha quel modo richiesto di trattare.]
  • [Espedite le tre cose sopra dette, è da vedere della rubrica
  • particolare che segue, cioè: «Incomincia il primo canto dello
  • _'Nferno_». Ma avanti che io piú oltre proceda, considerando la
  • varietá e la moltitudine delle materie che nella presente lettura
  • sopravverranno, il mio poco ingegno e la debolezza della mia memoria,
  • intendo che, se alcuna cosa meno avvedutamente o per ignoranza mi
  • venisse detta, la qual fosse meno che conforme alla cattolica veritá,
  • che per non detta sia, e da ora la rivoco, e alla emendazione della
  • santa Chiesa me ne sommetto.]
  • [Dice adunque la nostra rubrica: «Incomincia il primo canto dello
  • _'Nferno_»: intorno alla quale è da vedere s'egli è inferno, e s'el
  • n'è piú che uno, e in qual parte del mondo sia, onde si vada in esso,
  • qual sia la forma di quello, a che serva, e se per altro nome si
  • chiama che «inferno». E primieramente dico ch'egli è inferno: il che
  • per molte autoritá della Scrittura si pruova, e primieramente per
  • Isaia, il quale dice: «_Dilatavit_ _infernus animam suam, et aperuit
  • os suum absque ullo termino_»; e Vergilio nel sesto dell'_Eneida_
  • dice: «_Inferni ianua regis_»; e Iob: «_In profundissimum infernum
  • descendet anima mea_». Per le quali autoritá appare essere inferno.]
  • [Appresso si domandava s'egli n'era piú d'uno. Appare per lo senso
  • della Scrittura sacra che ne sieno tre, de' quali i santi chiamano
  • l'uno superiore, e il secondo mezzano, e il terzo inferiore; vogliendo
  • che il superiore sia nella vita presente, piena di pene, di angosce e
  • di peccati. E di questo parlando, dice il salmista: «_Circumdederunt
  • me dolores mortis, et pericula inferni invenerunt me_»; e in altra
  • parte dice: «_Descendant in infernum viventes_»; quasi voglia dire
  • «nelle miserie della presente vita».]
  • [E di questo inferno sentono i poeti co' santi, fingendo questo
  • inferno essere nel cuore de' mortali; e, in ciò dilatando la fizione,
  • dicono a questo inferno essere un portinaio, e questo dicono essere
  • Cerbero infernal cane, il quale è interpretato divoratore: sentendo
  • per lui la insaziabilitá de' nostri disidèri, li quali saziare né
  • empiere non si possono. E l'uficio di questo cane non è di vietare
  • l'entrata ad alcuno, ma di guardare che alcuno dello 'nferno non esca;
  • volendo per questo che lá dove entra la cupiditá delle ricchezze,
  • degli stati, de' diletti e dell'altre cose terrene, ella o non n'esce
  • mai, o con difficultá se ne trae; sí come essi mostrano, fingendo
  • questo cane essere stato tratto da Ercule dello 'nferno, cioè questa
  • insaziabilitá de' disidèri terreni esser dal virtuoso uomo tratta
  • fuori del cuore di quel cotale virtuoso. Appresso dicono in questo
  • inferno essere Carone nocchiero e il fiume d'Acheronte: e per
  • Acheronte sentono la labile e flussa condizione delle cose disiderate
  • e la miseria di questo mondo; e per Carone intendono il tempo, il
  • quale per vari spazi le nostre volontá e le nostre speranze d'un
  • termine trasporta in un altro, o voglian dire che, secondo i vari
  • tempi, varie cose che muovono gli appetiti essere al cuore
  • trasportate. Dicono, oltre a ciò, sedere in questo inferno Minos, Eaco
  • e Radamanto, giudici e sentenziatori delle colpe dell'anime che in
  • quello inferno vanno; e a costoro questo uficio attribuiscono,
  • percioché grandissimi legisti furono e giusti uomini: per loro
  • intendendo la coscienza di ciascuno, la quale, sedendo nella nostra
  • mente, è prima e avveduta giudicatrice delle nostre operazioni, e di
  • quelle col morso suo ci affligge e tormenta. E appresso, a quali pene
  • ella condanna i peccatori, in alquanti tormentati disegnano.]
  • [Dicono quivi essere Tantalo, re di Frigia, il quale, percioché pose
  • il figliuolo per cibo davanti agl'iddii, in un fiume e tra grande
  • abbondanza di pomi, di fame e di sete morire; sentendo per costui la
  • qualitá dell'avaro, il quale, per non diminuire l'acquistato, non
  • ardisce toccarne, e cosí in cose assai patisce disagio, potendosene
  • adagiare. E senza fallo sono quello che Tantalo è interpretato secondo
  • Fulgezio, cioè «volente visione»; percioché gli avari alcuna cosa non
  • vogliono de' loro tesori se non vedergli.]
  • [Fingono ancora in quello essere Isione, il quale, percioché essendo,
  • secondo che alcuni vogliono, segretario di Giove e di Giunone,
  • richiese Giunone di voler giacer con lei; la quale in forma di sè gli
  • pose innanzi una nuvola, con la quale giacendo, d'essa ingenerò i
  • centauri; e Giove il dannò a questa pena in inferno, che egli fosse
  • legato con serpenti a' raggi d'una ruota, la quale mai non ristesse di
  • volgersi: volendo per questo che per Isione s'intendano coloro li
  • quali sono disiderosi di signoria, e per forza alcuna tirannia
  • occupano, la quale ha sembianza di regno, che per Giunone s'intende; e
  • di questa tirannia sopravvegnendo i sospetti, nascono i centauri, cioè
  • gli uomini dell'arme, co' quali i tiranni tengono le signorie contro
  • a' piaceri de' popoli: ed hanno i tiranni questa pena, che sono sempre
  • in revoluzioni; e, se non sono, par loro essere, con occulte
  • sollicitudini: le quali afflizioni per la ruota volubile e per le
  • serpi s'intendono.]
  • [Oltre a questi, vi discrivono Tizio: percioché disonestamente
  • richiese Latona, dicono lui da Apollo essere stato allo 'nferno
  • dannato a dovergli sempre essere il fegato beccato da avvoltoi, e
  • quello, come consumato è, rinascere intero; per costui sentendo quegli
  • che d'alto e splendido luogo sono gittati in basso stato, li quali
  • sempre sono infestati da mordacissimi pensieri, intenti come tornar
  • possano lá onde caduti sono; né prima dall'una sollicitudine sono
  • lasciati, che essi sono rientrati nell'altra; e cosí senza requie
  • s'affliggono.]
  • [Pongonvi ancora le figliuole di Danao, e dicono, per l'avere esse
  • uccisi i mariti, esser dannate ad empier d'acqua certi vasi senza
  • fondo; per la qual cosa, sempre attignendo, si faticano invano:
  • volendo per questo dimostrare la stoltizia delle femmine, le quali,
  • avendosi la ragion sottomessa (la quale dee essere lor capo e lor
  • guida, come è il marito) intendono con loro artifici far quello che
  • giudicano non aver fatto la natura, cioè, lisciandosi e dipignendosi,
  • farsi belle; di che segue le piú volte il contrario, e perciò è la lor
  • fatica perduta. O voglian dire sentirsi per queste la effeminata
  • sciocchezza di molti, li quali, mentre stimano con continuato coito
  • sodisfare all'altrui libidine, sé vòtano ed altrui non riempiono. Ma,
  • accioché io non vada per tutte le pene in quello discritte, che
  • sarebbono molte, dico che questo del superiore inferno sentirono i
  • poeti gentili.]
  • [Il secondo inferno, dissi, chiamavano mezzano, sentendo quello essere
  • vicino alla superficie della terra, il qual noi volgarmente chiamiamo
  • limbo, e la santa Scrittura talvolta il chiama il seno d'Abraam: e
  • questo vogliono esser separato da' luoghi penali, vogliendo in esso
  • essere istati i giusti antichi aspettanti la venuta di Cristo. E di
  • questo mostra il nostro autore sentire, dove pon quegli o che non
  • peccarono o che, bene adoperando, morirono senza battesimo. Ma questo
  • è differente da quello de' santi, in quanto quegli che v'erano,
  • disideravano e speravano, e venne la loro salute, e quegli, che
  • l'autor pone, disiderano, ma non isperano.]
  • [Estimarono ancora essere un inferno inferiore, e quello esser luogo
  • di pene eterne date a' dannati. E di questo dice il Vangelo: «_Mortuus
  • est dives, et sepultus est in inferno_». Ed il salmista: «_In inferno
  • autem quis confitebitur tibi?_». E che questo sia, si legge nel
  • Vangelio, in quella parte ove il ricco seppellito in inferno, vedendo
  • sopra sé Lazzaro nel grembo d'Abraam, il priega che intinga il dito
  • minimo nell'acqua, e gittandogliele in bocca, il rifrigeri alquanto. E
  • di questo inferno tratta similmente il nostro autore dal quinto canto
  • in giú.]
  • [Domandavasi appresso, dove sia l'entrata ad andare in questo inferno;
  • conciosiacosaché l'autore quella, nel principio del terzo canto,
  • scrivendo, dove ella sia in alcuna parte non mostra: della qual cosa
  • appo gli antichi non è una medesima oppenione. Omero, il quale pare
  • essere de' piú antichi poeti che di ciò menzione faccia, scrive nel
  • libro undicesimo della sua _Odissea_, Ulisse per mare essere stato
  • mandato da Circe in oceano per dovere in inferno discendere a sapere
  • da Tiresia tebano i suoi futuri accidenti; e quivi dice lui essere
  • pervenuto appo certi popoli, li quali chiama scizi, dove alcuna luce
  • di sole mai non appare, e quivi avere lo 'nferno trovato. Virgilio, il
  • quale in molte cose il séguita, in questo discorda da lui, scrivendo
  • nel sesto del suo _Eneida_ l'entrata dello 'nferno essere appo il lago
  • d'Averno tra la cittá di Pozzuolo e Baia, dicendo:
  • _Spelunca alta fuit vastoque immanis hiatu,
  • scrupea, tuta lacu nigro nemorumque tenebris;
  • quam super haud ullae poterant impune volantes
  • tendere iter pennis: talis sese halitus atris
  • faucibus effundens supera ad convexa ferebat:
  • unde locum Graii dixerunt nomine Avernum,_ ecc.
  • E per questa spelunca scrive essere disceso Enea appresso la Sibilla
  • in inferno. Stazio, nel primo del suo _Thebaidos_, dice questo luogo
  • essere in una isola non guari lontana da quella estremitá d'Acaia, la
  • quale è piú propinqua all'isola di Creti, chiamata «_Traenaron_»: e di
  • quindi dice essere, a' tempi d'Edipo re di Tebe, d'inferno venuta nel
  • mondo Tesifone, pregata da lui a mettere discordia tra Etiocle e
  • Pollinice, suoi figliuoli, cosí scrivendo:
  • ......._illa per umbras,
  • et caligantes animarum examine campos
  • Traenareae limen petit irremeabile portae,_ ecc.
  • E con costui mostra d'accordarsi Seneca tragedo, _in tragoedia
  • Herculis furentis_, dove dice Cerbero infernal cane essere stato
  • tratto d'inferno da Ercule e da Teseo per la spelunca di Trenaro,
  • dicendo cosí:
  • _Postquam est ad oras Traenari ventum, et nitor
  • percussit oculos lucis,_ ecc.
  • Pomponio Mela, nel primo libro della sua _Cosmografia_, dice questo
  • luogo essere appo i popoli, li quali abitano vicini all'entrata nel
  • mare maggiore, scrivendo in questa forma: «_In eo primum Mariatidinei
  • urbem habitant, ab Argivo, ut ferunt, Hercule datam, Heraclea
  • vocitatur. Id famae fidem adiecit: iuxta specus est Acherusia, ad
  • manes, ut aiunt, pervius; atque inde extractum Cerberum existimant_»,
  • ecc. Altri dicono di Mongibello, e di Vulcano e di simili, quello
  • affermando con favole non assai convenienti alle femminelle.]
  • [La forma di questo inferno, parlando di lui come di cosa materiale,
  • discrive l'autore essere a guisa d'un corno il quale diritto fosse, e
  • di questo fermarsi la punta in sul centro della terra, e la bocca di
  • sopra venire vicina alla superficie della terra; in quello,
  • aggirandosi l'uomo intorno al voto del corno a guisa che l'uomo fa in
  • queste scale ravvolte, che vulgarmente si chiamano «chiocciole»,
  • discendersi; benché in alcuna parte appaia questo luogo, se non quanto
  • allo spazio della via onde si scende, essere in parte cavernoso e in
  • parte solido: cavernoso, in quanto vi distingue luoghi, li quali
  • appella «cerchi», e ne' quali i miseri son puniti: e alcuna volta vi
  • discriva scogli e alcuni valichi e fiumi, li quali non potrebbono per
  • lo vacuo, per quello ordine che egli discrive, discendere.]
  • [Serve lo 'nferno alla divina giustizia, ricevendo l'anime de'
  • peccatori, le quali l'ira di Dio hanno meritata, e in sé gli tormenta
  • e affligge, secondo che hanno piú o meno peccato, essendo loro eterna
  • prigione.]
  • [Ultimamente si domandava se altri nomi avea che «inferno»; il quale
  • averne piú appo i poeti manifestamente appare. Virgilio, sí come nel
  • sesto dell'_Eneida_ si legge, il chiama Averno, dove dice:
  • _Tros Anchisiades, facilis descensus Averni._
  • E nominasi questo luogo Averno, _ab «a», quod est «sine», «vernus»,
  • quod est «laetitia»_: cioè luogo «senza letizia». E in altra parte nel
  • preallegato libro il chiama Tartaro: quivi:
  • ......._tum Tartarus ipse
  • bis patet in praeceps_, ecc.
  • E questo nome è detto da «tortura», cioè da tormentamento, il quale i
  • miseri in questo ricevono; ed è, secondo Virgilio, questo la piú
  • profonda parte dello 'nferno. Chiamalo ancora Dite nel preallegato
  • libro, dove dice:
  • _Perque domos Ditis vacuas, et inania regna._
  • Ed è cosí chiamato dal suo re, il quale da' poeti è chiamato Dite,
  • cioè ricco e abbondante; percioché in questo luogo grandissima
  • moltitudine d'anime discendono sempre. Nominalo similmente Orco nel
  • libro spesse volte allegato, dove scrive:
  • _Vestibulum ante ipsum, primisque in faucibus Orci._
  • Ed è chiamato Orco, cioè oscuro, percioché è oscurissimo, come nel
  • processo apparirá. Oltre a questo l'appella Erebo nel giá detto libro,
  • dicendo:
  • _Venimus, et magnos Erebi transnavimus amnes._
  • E però è chiamato Erebo, secondo che dice Uguccione, perché egli
  • s'accosta molto co' suoi supplici a coloro, li quali miseramente
  • riceve e in sé tiene. Ed è ancora chiamato questo luogo Baratro, come
  • appresso dice l'autore nel canto ventiduesimo di questa parte, dove
  • dice: «Cotal di quel baratro era la scesa». E chiamasi Baratro dalla
  • forma di un vaso di giunchi, il quale è ritondo, nella parte superiore
  • ampio e nella inferiore angusto. Chiamalo ancora Abisso, sí come
  • nell'Apocalisse si legge ove dice: «_Bestia quae ascendet de abysso,
  • faciet adversus illos bellum_»; e in altra parte: «_Data est illi
  • clavis putei abyssi, et aperuit puteum abyssi_». Il qual nome
  • significa «profonditá». Hanne ancora il detto luogo alcuni, ma basti
  • al presente aver narrati questi.]
  • [Vedute le predette cose, avanti che all'ordine della lettura si
  • vegna, pare doversi rimuovere un dubbio, il quale spesse volte giá è
  • stato, e massimamente da litterati uomini, mosso, il quale è questo.
  • Dicono adunque questi cotali:--Secondo che ciascun ragiona, Dante fu
  • litteratissimo uomo, e se egli fu litterato, come si dispuose egli a
  • comporre tanta opera e cosí laudevole, come questa è, in volgare?--A'
  • quali mi pare si possa cosí rispondere: Certa cosa è che Dante fu
  • eruditissimo uomo, e massimamente in poesia, e disideroso di fama,
  • come generalmente siam tutti. Cominciò il presente libro in versi
  • latini, cosí:
  • _Ultima regna canam fluido contermina mundo,
  • spiritibus quae lata patent, quae praemia solvunt
  • pro meritis cuicumque suis,_ ecc.
  • E giá era alquanto proceduto avanti, quando gli parve da mutare stilo:
  • e il consiglio, che il mosse, fu manifestamente conoscere i liberali
  • studi e' filosofici essere del tutto abbandonati da' prencipi e da'
  • signori e dagli altri eccellenti uomini, li quali solevano onorare e
  • rendere famosi i poeti e le loro opere: e però, veggendo quasi
  • abbandonato Vergilio e gli altri, o essere nelle mani d'uomini plebei
  • e di bassa condizione, estimò cosí al suo lavorío dovere addivenire, e
  • per conseguente non seguirnegli quello per che alla fatica si
  • sommettea. Di che gli parve dovere il suo poema fare conforme, almeno
  • nella corteccia di fuori, agl'ingegni de' presenti signori, de' quali
  • se alcuno n'è che alcuno libro voglia vedere, e esso sia in latino,
  • tantosto il fanno trasformare in volgare: donde prese argomento che,
  • se volgare fosse il suo poema, egli piacerebbe, dove in latino sarebbe
  • schifato. E perciò, lasciati i versi latini, in rittimi volgari
  • scrisse, come veggiamo. Questo soluto, ne resta venire ecc., _ut
  • supra_.]
  • CANTO PRIMO
  • I
  • SENSO LETTERALE
  • [Lez. II]
  • [Resta a venire all'ordine della lettura, e primieramente alle
  • divisioni. Dividesi adunque il presente volume in tre parti
  • principali, le quali sono li tre libri ne' quali l'autore medesimo
  • l'ha diviso: de' quali il primo, il quale per leggere siamo al
  • presente, si divide in due parti, in proemio e trattato. La seconda
  • comincia nel principio del secondo canto. La prima parte si divide in
  • due: nella prima discrive l'autore la sua ruina; nella seconda
  • dimostra il soccorso venutogli per sua salute. La seconda comincia
  • quivi: «Mentre ch'io rovinava in basso loco». Nella prima fa l'autore
  • tre cose: primieramente discrive il luogo dove si ritrovò; appresso
  • mostra donde gli nascesse speranza di potersi partire di quel luogo;
  • ultimamente pone qual cosa fosse quella che lo 'mpedisse a dover di
  • quello luogo uscire: la seconda quivi: «Io non so ben ridir»; la terza
  • quivi: «Ed ecco quasi».]
  • [Dice adunque cosí: «Nel mezzo del cammin di nostra vita». Ove ad
  • evidenzia di questo principio è da sapere, la vita de' mortali è,
  • massimamente di quegli li quali a quel termine divengono, il quale
  • pare che per convenevole ne sia posto, di settanta anni; quantunque
  • alquanti, e pochi, piú ne vivano, e infinita moltitudine meno, sí come
  • per lo salmista si comprende nel salmo ottantanovesimo, dove dice:
  • «_Anni nostri sicut aranea meditabuntur; dies annorum nostrorum in
  • ipsis septuaginta anni. Si autem in potentatibus, octoginta anni; et
  • amplius eorum, labor et dolor_»; e perciò colui il quale perviene a
  • trentacinque anni, si può dire essere nel mezzo della nostra vita. Ed
  • è figurata in forma d'uno arco, dalla prima estremitá del quale infino
  • al mezzo si salga, e dal mezzo infino all'altra estremitá si discenda;
  • e questo è stimato, percioché infino all'etá di trentacinque anni, o
  • in quel torno, pare sempre le forze degli uomini aumentarsi, e quel
  • termine passato diminuirsi. E a questo termine d'anni pare che
  • l'autore pervenuto fosse, quando prima s'accorse del suo errore. E che
  • egli fosse cosí, assai bene si verifica per quello che giá mi
  • ragionasse un valente uomo chiamato ser Piero di messer Giardino da
  • Ravenna, il quale fu uno de' piú intimi amici e servidori che Dante
  • avesse in Ravenna; affermandomi avere avuto da Dante, giacendo egli
  • nella infermitá della quale e' morí, lui avere di tanto trapassato il
  • cinquantesimosesto anno, quanto dal preterito maggio aveva infino a
  • quel dí. E assai ne consta Dante esser morto negli anni di Cristo
  • 1321, dí 14 di settembre: per che, sottraendo ventuno di cinquantasei,
  • restano trentacinque; e cotanti anni avea nel 1300, quando mostra
  • d'avere la presente opera incominciata. Per che appare ottimamente la
  • sua etá esser discritta dicendo: «Nel mezzo del cammin», cioè dello
  • spazio, «di nostra vita», cioè di noi mortali. «Mi ritrovai», errando,
  • «per una selva oscura»; a differenza d'alcune selve, che sono
  • dilettevoli e luminose, come è la pineta di Chiassi. «Ché la diritta
  • via era smarrita». Vuole mostrare qui che di suo proponimento non era
  • entrato in questa selva, ma per ismarrimento.]
  • [«E quanto a dir», cioè a discrivere, «qual era», questa selva, «è
  • cosa dura», quasi voglia dire impossibile, «esta selva selvaggia e
  • aspra e forte». Pon qui tre condizioni di questa selva: dice prima che
  • ell'era «selvaggia», quasi voglia dinotare non avere in questa alcuna
  • umana abitazione, e per conseguente essere orribile; dice appresso
  • ch'ella era «aspra», a dimostrare la qualitá degli alberi e de'
  • virgulti di quella, li quali doveano essere antichi, con rami lunghi e
  • ravvolti, contessuti e intrecciati intra se stessi, e similemente
  • piena di pruni, di tribuli e di stecchi, senza alcuno ordine
  • cresciuti, e in qua e in lá distesi: per le quali cose era aspra cosa
  • e malagevole ad andare per quella; e in quanto dice «forte», dichiara
  • lo 'mpedimento giá premostrato, vogliendo per l'asprezza di quelli,
  • essa esser forte, cioè difficile a potere per essa andare e fuori
  • uscirne. E questo dice esser tanto, «Che nel pensier», cioè nella
  • rammemorazione d'esservi stato dentro, «rinnova la paura». Umano
  • costume è, tante volte da capo rimpaurire quante l'uom si ricorda de'
  • pericoli ne' quali l'uomo è stato.]
  • [«Tanto è amara», non al gusto ma alla sensibilitá umana, «che poco è
  • piú morte». Ed è la morte, secondo il filosofo, l'ultima delle cose
  • terribili, intanto che ciascuno animale naturalmente ad ogni estremo
  • pericolo si mette per fuggirla. Adunque, se la morte è poco piú amara
  • che quella selva, assai chiaro appare lei dovere essere molto amara,
  • cioè ispaventevole ed intricata: le quali cose prestano amaritudine
  • gravissima di mente. «Ma, per trattar del ben ch'io vi trovai».
  • Maravigliosa cosa pare quella che l'autore dice qui, e cioè che egli
  • alcun bene trovasse in una selva tanto orribile quanto egli ha
  • mostrato esser questa; e, percioché egli nella lettera non esprime
  • qual bene in quella trovasse, assai si può vedere questo bene trovato
  • da lui convenirsi trarre di sotto alla corteccia litterale; e perciò,
  • dove di questa parte apriremo l'allegoria, chiariremo quello che qui
  • voglia intendere. «Dirò dell'altre cose», cioè che non sono bene,
  • «ch'io v'ho scorte», cioè vedute; e questo altresí si conoscerá
  • nell'allegoria.]
  • [«I' non so ben ridir com'io v'entrai». In questa parte mostra
  • l'autore donde gli nascesse speranza di potersi partire di quel luogo,
  • e primieramente risponde a una tacita quistione. Potrebbe alcuno
  • domandare:--Se questa selva era cosí paurosa e amara cosa, come
  • v'entrastú entro?--A che egli risponde sé non saperlo, e assegna la
  • ragione, dicendo: «Sí era pien di sonno in su quel punto, Che la
  • verace via», la quale mi menava lá dove io dovea e volea andare,
  • «abbandonai».]
  • «Ma poi ch'i' fui», errando e cercando come di quella uscir potessi,
  • «appiè d'un colle giunto», cioè pervenuto, «Lá dove terminava»,
  • finiva, «quella valle», nella quale era questa selva oscura, «Che
  • m'avea di paura il cor compunto», cioè afflitto, «Guardai in alto e
  • vidi le sue spalle», cioè la sommitá quasi, sí come le spalle nostre
  • sono quasi la piú alta parte della persona nostra, «Coperte giá de'
  • raggi del pianeta», cioè del sole, il quale è l'uno de' sette pianeti.
  • E perciò dice del sole, percioché esso solo è di sua natura luminoso,
  • e ogni altro corpo che luce, o pianeto o stella o qualunque altro, ha
  • da questo la luce, sí come da fonte di quella, sí come per esperienza
  • si vede negli eclissi lunari; e questa luce ha solo, non per la sua
  • potenza, ma per singular dono del suo Creatore, e hanne in tanta
  • abbondanza, che ad ogni parte dintorno a sé manda infinita moltitudine
  • di raggi, per li quali, ovunque pervenir possano, si diffonde
  • copiosamente la luce sua; e questi raggi, sagliendo il sole dallo
  • inferiore emisperio al superiore, le prime parti che toccano del corpo
  • della terra, alla quale, sagliendo il sole, pervengono, sono le
  • sommitá de' monti. Per la qual cosa appare qui che il giorno
  • cominciava ad apparire, quando l'autore cominciò ad avvedersi dove
  • era, ed a volere di quel luogo uscire; e di potere ciò fare gli venne
  • speranza, rammemorandosi che la luce di questo pianeto «mena diritto
  • altrui per ogni calle», cioè per ogni via, in quanto, essendo il sole
  • sopra la terra, vede l'uomo dov'e' si va, e ancora con miglior
  • giudicio si dirizza lá dove andar vuole, mediante la luce di costui.
  • E, per questa speranza presa, dice: «Allor fu la paura un poco queta»,
  • cioè meno infesta, «Che nel lago del cuor». È nel cuore una parte
  • concava, sempre abbondante di sangue, [nel quale, secondo l'oppinione
  • di alcuni, abitano li spiriti vitali], e di quella, sí come di fonte
  • perpetuo, si ministra alle vene quel sangue e il calore, il quale per
  • tutto il corpo si spande; ed è quella parte ricettacolo di ogni nostra
  • passione: e perciò dice che in quella gli era perseverata la passione
  • della paura avuta. E perciò dice: «m'era durata, La notte ch'i' passai
  • con tanta pièta», cioè con tanta afflizione, sí per la diritta via la
  • quale smarrita avea, e sí per lo non vedere, per le tenebre della
  • notte, donde né come egli si potesse alla diritta via ritornare.
  • «E qual è quei, che con lena», cioè virtú, «affannata», affaticata.
  • «Uscito fuor del pelago alla riva»: come colui il quale rompe in mare,
  • che, dopo molto notare, faticato e vinto perviene alla riva, e
  • «Volgesi all'acqua perigliosa», della quale è uscito, «e guata»; e in
  • quel guatare, cognosce molto meglio il pericolo del quale è scampato,
  • che esso non cognosceva, mentre che in esso era, percioché allora,
  • spronandolo la paura del perire, a null'altra cosa aveva l'animo che
  • solo allo scampare; ma, scampato, con piú riposato giudicio vede
  • quante cose poteano la sua salute impedire e, quasi in esso fosse,
  • molto piú teme, che non facea quando v'era: e però séguita adattando
  • sé alla comparazione: «Cosí l'animo mio, ch'ancor fuggiva», cioè che
  • ancora scampato esser non gli parea, ma come se nel pericolo fosse
  • ancora, di fuggire si sforzava; e, cosí parendogli, «Si volse
  • indietro», come fa colui che notando è pervenuto alla riva, «a rimirar
  • lo passo», pericoloso della oscura selva, «Che non lasciò giammai»
  • uscire di sé «persona viva». Questa parola non si vuole strettamente
  • intendere [esser viva], percioché qui usa l'autore una figura che si
  • chiama «iperbole», per la quale non solamente alcuna volta si dice il
  • vero, ma si trapassa oltre al vero: come fa Vergilio, che, per
  • manifestare la leggerezza della Cammilla, dice ch'ella sarebbe corsa
  • sopra l'onde del mare turbato, e non s'arebbe immollate le piante de'
  • piedi. E perciò si vuole intender qui sanamente l'autore, cioè che di
  • quello pericoloso passo pochi ne sieno usciti vivi; percioché, se
  • alcuno non avesse vivo lasciato giammai, l'autore, che dice sé esserne
  • uscito, come sarebbe vivo?
  • «E poi ch'ebbi posato il corpo lasso», per la fatica sostenuta,
  • «Ripresi via per la piaggia diserta»; e cosí mostra avere abbandonata
  • la valle per dover salire al monte, cioè in sí fatta maniera andando,
  • «Sí che 'l piè fermo sempre era il piú basso». [Mostra l'usato costume
  • di coloro che salgono, che sempre si ferman piú in su quel piè che piú
  • basso rimane.]
  • «Ed ecco, quasi al cominciar dell'erta». In questa terza parte
  • dimostra l'autore qual cosa fosse quella che lo 'mpedisse a dovere di
  • quel luogo uscire, e dice ciò essere stato tre bestie, per la fierezza
  • delle quali, non che salir piú avanti, ma egli fu per tornare indietro
  • nel pericolo del quale era incominciato ad uscire. Dice adunque: «Ed
  • ecco quasi al cominciar dell'erta», cioè della costa, su per la quale
  • salir dovea per partirsi della pericolosa valle, «Una lonza leggera e
  • presta molto, Che di pel maculato era coperta».
  • Poi, discritta la forma della bestia, dice: «E non mi si partía
  • dinanzi al volto». Appresso dice che questo stargli sempre davanti,
  • che essa «impediva tanto il mio cammino», per lo quale al monte salir
  • volea, «Ch'i' fui per ritornar», nella valle, «piú volte vòlto».
  • «Temp'era dal principio». Discrive qui l'autore l'ora che era del dí,
  • quando egli era da questa bestia impedito, e la qualitá della stagione
  • dell'anno; e quanto a l'ora del dí, dice ch'era principio «del
  • mattino»: il che assai appare per li raggi del sole, li quali ancora
  • non si vedeano se non nella sommitá del monte. «E 'l sol montava 'n
  • su», cioè sopra l'orizzonte orientale di quella regione, vegnendo
  • dallo emisperio inferiore al superiore; «con quelle stelle», in
  • compagnia, «Ch'eran con lui, quando l'Amor divino», cioè lo Spirito
  • santo, «Mosse da prima», cioè nel principio del mondo, «quelle cose
  • belle», cioè il cielo e le stelle. Dimostra qui l'autore per una bella
  • e leggiadra discrizione la qualitá della stagione dell'anno. Ad
  • evidenzia della quale è da sapere che gli antichi filosofi caldei, e
  • appresso loro gli egizi, furono li primi che per considerazione
  • conobbero il movimento dell'ottava sfera e de' pianeti, e similmente
  • quello che per gli movimenti de' corpi superiori negl'inferiori ne
  • seguiva; e per lunghe esperienzie avvedendosi che, essendo il sole in
  • diverse parti del cielo, evidentemente quaggiú si permutavano le
  • qualitá dell'anno, e queste qualitá essere quattro, cioè quelle che
  • noi primavera, state, autunno e verno chiamiamo; intesa giá qual fosse
  • nel cielo la via del sole, quella, secondo il numero di queste,
  • divisero in quattro parti eguali. E poi, perché sentirono ciascuna di
  • queste parti avere i principi differenti dalle fini, e 'l mezzo
  • sentire della natura del principio e della fine; ciascuna di queste
  • quattro parti divisero in tre parti equali; e cosí fu da loro la via
  • del sole divisa in dodici parti equali, e quelle chiamaron «segni». E,
  • accioché l'uno si cognoscesse dall'altro, immaginando figurarono in
  • ciascuna parte alcun animale [ornato di certa quantitá di stelle,
  • ingegnandosi di figurare, in quelle, animali], la natura del quale
  • fosse conforme agli effetti di quella parte, nella quale con la
  • immaginazione il figuravano. E, percioché la prima qualitá dell'anno
  • estimarono essere la primavera, quella vollero fosse il principio
  • dell'anno; e cosí quella parte del cielo, nella quale essendo il sole
  • questa primavera veniva, vollero che fosse la prima parte della via
  • del sole, e quivi figurarono un segno, il quale noi chiamiamo Ariete;
  • nel principio del quale affermano alcuni Nostro Signore aver creato e
  • posto il corpo del sole. E perciò, volendo l'autore dimostrare per
  • questa discrizione il principio della primavera, dice che il sole
  • saliva su dallo emisperio inferiore al superiore, con quelle stelle le
  • quali eran con lui, quando il divino Amore lui e l'altre cose belle
  • creò, e diede loro il movimento, il qual sempre poi continuato hanno;
  • volendo per questo darne ad intendere che, quando da prima pose la
  • mano alla presente opera, è circa al principio della primavera; e cosí
  • fu, sí come appresso apparirá. [Egli nella presente fantasia entrò a
  • dí 25 di marzo.]
  • «Sí ch'a bene sperar». Questa lettera si vuole cosí ordinare: «L'ora
  • del tempo e la dolce stagione m'era cagione a sperar bene di quella
  • fiera alla gaetta pelle»; o vero, se la lettera dice «di quella fiera
  • la gaetta pelle», si vuole ordinare cosí: «m'era cagione a sperar bene
  • la gaetta pelle di quella fiera». Ciascuna di queste due lettere si
  • può sostenere, percioché sentenzia quasi non se ne muta. Reassumendo
  • adunque la lettera come giace nel testo, dice: «Sí che a bene sperar
  • m'era cagione Di quella fiera», cioè di quella lonza, «alla gaetta
  • pelle», cioè leggiadretta, percioché pulita molto è la pelle della
  • lonza; o vero, secondo l'altra lettera, «m'era cagione di bene sperar»
  • di dovere ottenere la pelle di quella fiera (la quale esso intendea di
  • prendere, se potuto avesse, con una corda la quale cinta avea, secondo
  • che esso medesimo dice in questo medesimo libro, nel canto sedicesimo,
  • dove scrive: «Io aveva una corda intorno cinta, E con essa pensai,
  • alcuna volta, Prender la lonza alla pelle dipinta») «L'ora del tempo»,
  • cioè il principio del dí, «e la dolce stagione», cioè la primavera.
  • Ma puossi qui domandare: che speranza poteva qui porgere di vittoria
  • sopra la lonza l'ora del mattino e la stagion della primavera?
  • Conciosiacosaché in questi due tempi soglia piú di ferocitá essere
  • negli animali, percioché l'ora del mattino gli suole generalmente
  • tutti rendere affamati, e per conseguente feroci, e la stagione del
  • tempo gli soglia render innamorati piú che alcun altra stagion del
  • tempo; e gli animali sogliono per queste due cose, per lo cibo e per
  • venere, esser ferocissimi, e massimamente la lonza, la quale è di sua
  • natura lussuriosissimo animale: e cosí pare che di quello, di che si
  • conforta, si dovesse piú tosto sconfortare. Puossi nondimeno cosí
  • rispondere: che, conceduto quello, che detto è, essere negli animali
  • bruti, è credibile negli uomini similemente in questo tempo crescere
  • il vigore, in quanto essi, che razionali sono, veggendo partire le
  • tenebre della notte, le quali sogliono essere e sono piene di paura,
  • nel tempo lucido veggono come possano l'arti del loro ingegno usare a
  • vincere, e in che guisa possano i pericoli e l'esser vinti fuggire. E
  • il tempo della primavera, secondo i fisici, è conforme alla
  • compression sanguinea, e però in quella il sangue è piú chiaro, piú
  • caldo e piú ardire amministra al cuore e forze al corpo; e quinci per
  • avventura si puote nell'autore accendere ottima speranza di vittoria.
  • «Ma non sí», gli diede speranza l'ora del tempo ecc., «Che paura non
  • mi desse La vista», cioè la veduta, «che m'apparve», appresso la
  • lonza, «d'un leone. Questi parea che contr'a me venesse» (e cosí
  • appare questo leone essere il secondo ostaculo, il quale il suo
  • cammino di salire al monte impedí) «Colla test'alta», nel qual atto si
  • mostrava audace, «e con rabbiosa fame» (questo il faceva meritamente
  • da temere, come di sopra è detto), «Sí che parea che l'aer ne
  • temesse», in quanto l'aere, impulso dall'impeto del venire del leone,
  • indietro si traeva, il quale è atto di chi fugge. Con questo mostrava,
  • impropriamente parlando, di aver paura di lui.
  • «Ed una lupa» (questo è il terzo ostaculo, il quale il suo salire
  • impediva) «che di tutte brame Pareva carca nella sua magrezza». Brama
  • è propriamente il bestiale appetito di manicare, peroché oltremodo
  • pieno di voler si mostra; lo quale essere in questa lupa testimonia la
  • magrezza sua, della quale noi prosumiamo quello animale, in cui la
  • veggiamo, esser male stato pasciuto, e per conseguente magro e indi
  • bramoso. «Che molte genti fe' giá viver grame», cioè dolorose.
  • «Questa» lupa «mi porse tanto di gravezza», cioè di noia, «Colla paura
  • ch'uscía di sua vista», cioè era sí orribile nello aspetto, che ella
  • porgea paura altrui, «Ch'io perdei la speranza dell'altezza», cioè di
  • poter pervenire alla sommitá del monte, sopra le cui spalle avea
  • veduti i raggi del sole.
  • «E quale è que' che volentieri acquista». Per questa comparazione ne
  • dimostra l'autore qual divenisse per lo impedimento pórtogli da questa
  • bestia, dicendo: «E quale è que'», o mercatante o altro, «che
  • volentieri acquista», cioè guadagna, «E giugne 'l tempo che perder lo
  • face», qual che sia la cagione, «Che 'n tutti i suoi pensier», ne'
  • quali si solea guadagnando rallegrare, perdendo «piange e s'attrista;
  • Tal mi fece la bestia senza pace», cioè questa lupa, la qual dice
  • esser animale senza pace, percioché la notte e 'l dí sempre sta
  • attenta e sollecita a poter predare e divorare: «Che venendomi
  • incontro», come soglion fare le bestie che vogliono altrui assalire,
  • «a poco a poco», tirandom'io indietro, «Mi ripignea lá ove il sol
  • tace», cioè nella oscura selva, della quale io era uscito. Ed è
  • questo, cioè «dove 'l sol tace», improprio parlare, e non l'usa
  • l'autore pur qui, ma ancora in altre parti in questa opera, sí come
  • nel canto quinto quando dice: «I' venni in luogo d'ogni luce muto».
  • Assai manifesta cosa è che il sole non parla, né similemente alcuno
  • luogo, de' quai dice qui che l'un tace, cioè il sole, e il luogo è
  • muto di luce; e sono questi due accidenti, il tacere e l'esser muto,
  • propriamente dell'uomo (quantunque il Vangelo dica che uno avea un
  • dimonio addosso, e quello era muto): ma questo modo di parlare si
  • scusa per una figura, la qual si chiama «acirologia». Vuole adunque
  • dir qui l'autore, che la paura, ch'egli avea di questo animale, il
  • ripignea lá dove il sol non luce, cioè in quella oscuritá, la quale
  • egli disiderava di fuggire.
  • «Mentre ch'io rovinava in basso loco». Qui dissi si cominciava la
  • seconda parte di questo canto, nella quale l'autor dimostra il
  • soccorso venutogli ad aiutarlo uscire di quella valle. E fa in questa
  • parte sei cose: egli primieramente chiede misericordia a Virgilio
  • quivi apparitogli, quantunque nol conoscesse; appresso, senza
  • nominarsi, per piú segni dimostra Virgilio chi egli è; poi l'autore,
  • estollendo con piú titoli Virgilio, s'ingegna di accattare la
  • benivolenza sua, e mostragli di quello che egli teme; oltre a ciò,
  • Virgilio gli dichiara la natura di quella lupa, e il disfacimento di
  • lei, consigliandolo della via, la quale dee tenere; appresso, l'autore
  • priega Virgilio che gli mostri quello che detto gli ha; ultimamente,
  • movendosi Virgilio, l'autore il segue. E segue la seconda quivi: «Ed
  • egli a me»; la terza quivi: «Or se' tu quel Virgilio»; la quarta
  • quivi: «A te conviene»; la quinta quivi: «Ed io a lui:--Poeta»; la
  • sesta quivi: «Allor si mosse».
  • Dice adunque nella prima: «Mentre ch'io rovinava», cioè tornava, «in
  • basso loco», cioè nella valle della quale era cominciato a partire,
  • «Dinanzi agli occhi mi si fu offerto Chi per lungo silenzio parea
  • fioco». Il che avviene, o perché da alcuna secchezza intrinsica è sí
  • rasciutta la via del polmone, dal quale la prolazione si muove, che le
  • parole non ne possono uscire sonore e chiare, come fanno quando in
  • quella via è alquanta d'umiditá rivocata; o è talvolta che il lungo
  • silenzio, per alcun difetto intrinsico dell'uomo, provoca tanta
  • umiditá viscosa in questa via, che similemente rende l'uomo meno
  • espeditamente parlante, infino a tanto che o rasciutta o sputata non
  • è. [Ma non credo l'autore questo intenda qui, ma piú tosto, per
  • difetto delli nostri ingegni, i libri di Virgilio essere intralasciati
  • giá e tanto tempo, che la chiara fama di loro è quasi perduta o
  • divenuta piú oscura che esser non solea.]
  • [«Quando vidi costui», cioè Virgilio apparitogli dinanzi, «pel gran
  • diserto», cioè per quella tenebrosa valle, meritamente chiamata
  • dall'autore «diserto», sendo sí aspra, come di sopra ha detto, e priva
  • di luce; «-Miserere di me--gridai a lui». Sí come molte volte
  • gl'impauriti e sbigottiti usano, per essere del loro avvenuto caso
  • soccorsi, gridare; tale l'autore, nella paura presa della orribile
  • bestia, fece alla veduta di Virgilio, umilmente verso di lui
  • gridando:--Abbi misericordia di me,--quasi dicendo:--Aiutami,--come
  • piú innanzi si dichiarerá.]
  • «--Qual che tu sii, od ombra od uomo certo».--Non conosceva quivi
  • l'autore, per lo impedimento della paura, se costui, che apparito gli
  • era, era piú tosto spirito che uomo o uomo che spirito; e in questo
  • parlare in forse il chiama «ombra», il qual è vocabolo usitatissimo
  • de' poeti; e questo muove da ciò, che altrimenti prendere non si
  • possono, che l'uomo possa pigliare l'ombra che alcun corpo faccia. E,
  • percioché questa materia, cioè che cosa sia l'ombra ovvero anima, e
  • come l'ombra prenda quel corpo, il quale agli occhi nostri appare che
  • ella abbia, quando talvolta n'appaiono, si tratterá, sí come in luogo
  • ciò richiedente, nel venticinquesimo canto del _Purgatorio_, non curo
  • qui di farne piú luogo sermone.
  • «Risposemi:--Non uom». In questa seconda particella si dimostra chi
  • costui fosse che apparito gli era; e questo si dimostra per sei cose
  • spettanti al domandato. Dice adunque «non uomo», a dimostrare che
  • l'uomo è composto d'anima e di corpo, e però, separato l'uno
  • dall'altro, non rimane uomo, né il corpo per se medesimo, né l'anima
  • per sé; e in quanto dice «uomo giá fui», mostra sé essere spirito giá
  • stato congiunto con corpo.
  • «E li parenti miei». È colui che si manifesta qui, Virgilio; e prima
  • si manifesta dalla regione nella quale nacque, in quanto dice, «furon
  • lombardi». Dove è da sapere che Virgilio fu figliuolo di Virgilio
  • lutifigolo, cioè d'uomo il quale faceva quell'arte, cioè di comporre
  • diversi vasi di terra; e la madre di lui, secondo che dice Servio
  • _Sopra l'«Eneida»_, quasi nel principio, ebbe nome Maia. Dice adunque
  • che costoro furono lombardi, cosí dinominati da Lombardia, provincia
  • situata tra 'l monte Appennino e gli Alpi e 'l mare Adriano; e avanti
  • che Lombardia si chiamasse, fu chiamata Gallia, da' galli che quella
  • occuparono e cacciaronne i toscani; e prima che Gallia si chiamasse,
  • quella parte dove è Mantova, fu chiamata Venezia, da quegli èneti che
  • seguirono Antenore troiano dopo il disfacimento di Troia. La cagione
  • perché Lombardia si chiama, è che, partitisi certi popoli dell'isola
  • di Scandinavia, la quale è tra ponente e tramontana in Oceano,
  • chiamati dalle barbe grandi e da' capegli, li quali s'intorcevano
  • davanti al viso, «longobardi», e sotto diversi signori, e dopo
  • lunghissimo tempo in varie regioni venendo, dimorati, si fermarono in
  • Ungheria, e in quella stettero nel torno di quarantasei anni; poi, a'
  • tempi di Giustiniano imperadore, essendo patricio in Italia per lui un
  • suo eunuco, chiamato Narsete, e non essendo bene nella grazia di
  • Sofia, moglie di Giustiniano, ed essendo da lei minacciato che
  • richiamare il farebbe e metterebbelo a filare colle femmine sue,
  • sdegnato rispose che, s'ella sapesse filare, al bisogno le sarebbe
  • venuto, percioché egli ordirebbe tal tela, ch'ella non la fornirebbe
  • di tessere in vita sua; e carichi molti somieri di diversi frutti, con
  • una solenne ambasciata gli mandò in Ungheria ad Albuino, il quale
  • allora era re de' longobardi, mandandolo pregando che egli co' suoi
  • popoli venissero ad abitare quel paese, ove quegli frutti nascevano.
  • Albuino, che giá in Gallia era stato, ed era amico di Narsete,
  • lasciata Ungheria a certi popoli vicini, li quali si chiamavano ávari,
  • in Gallia con tutti i suoi maschi e femmine, piccoli e grandi, ne
  • venne, e con la loro forza, e col consiglio e aiuto di Narsete, tutto
  • il paese occuparono; e, toltogli il nome antico, da sé lo dinominarono
  • Lombardia, il qual nome infino a' nostri dí persevera.
  • «Mantovani, per patria, amendui». Mantova fu giá notabil cittá; ma,
  • percioché d'essa si tratterá nel ventesimo canto di questo pienamente,
  • qui non curo di piú scriverne.
  • «Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi». Qui dimostra Virgilio chi
  • egli fosse dal tempo della sua nativitá. E' pare che l'autore voglia
  • lui esser nato vicino al fine della dettatura di Giulio Cesare, la
  • qual cosa non veggo come esser potesse; percioché se al fine della
  • dettatura di Giulio nato fosse, ed essendo cinquantadue anni vissuto
  • come fece, sarebbe Cristo nato avanti la sua morte: dove Eusebio, in
  • libro _De temporibus_, scrive lui essere morto l'anno dello 'mperio
  • d'Ottaviano Cesare...[1], che fu avanti la nativitá di Cristo da
  • quattordici o quindici anni; e il predetto Eusebio scrive, nel detto
  • libro, della sua nativitá cosí: «_Virgilius Maro in vico Andes, haud
  • longe a Mantua natus, Crasso et Pompeio consulibus_»; il quale anno fu
  • avanti che Giulio Cesare occupasse la dettatura (la qual tenne quattro
  • anni e parte del quinto) bene venti anni.
  • «E vissi a Roma». Certa cosa è che Vergilio, avendo lo ingegno
  • disposto e acuto agli studi, primieramente studiò a Cremona, e di
  • quindi n'andò a Milano, lá dov'egli studiò in medicina; e, avendo lo
  • 'ngegno pronto alla poesia, e vedendo i poeti esser nel cospetto
  • d'Ottaviano accetti, se n'andò a Napoli, e quivi si crede sotto
  • Cornuto poeta udisse alquanto tempo. E quivi similmente dimorando, sí
  • come egli medesimo testimonia nel fine del libro, avendo prima
  • composto la _Buccolica_, e racquistato per opera d'Ottaviano i campi
  • paterni, li quali a Mantova erano stati conceduti ad un centurione
  • chiamato Arrio, compose la _Georgica_. Poi, sí come Macrobio in libro
  • _Saturnaliorum_ scrive, mostra mentre che scrisse l'_Eneida_ si stesse
  • in villa: il dove non dice, ma, per quello che delle sue ossa fece
  • Ottaviano, si presume che questa villa fosse propinqua a Napoli, e
  • prossimana al promontorio di Posillipo, tra Napoli e Pozzuolo. [E
  • portò tanto amore a quella cittá che, essendo solennissimo astrolago,
  • vi fece certe cose notabili con l'aiuto della strologia; percioché,
  • essendo Napoli fieramente infestato da continua moltitudine di mosche,
  • di zenzare e di tafani, egli vi fece una mosca di rame, sotto sí fatta
  • costellazione che, postala sopra il muro della cittá, verso quella
  • parte onde le mosche e' tafani da un padule indi vicino, vi venivano,
  • mai, mentre star fu lasciata, in Napoli non entrò né mosca né tafano.
  • Fecevi similmente un cavallo di bronzo, il quale avea a far sano ogni
  • [Footnote 1: In bianco nei codd. [Ed.].] cavallo che avesse i dolori,
  • o altra naturale infermitá, avendo tre volte menatolo d'intorno a
  • questo. Fece, oltre a questo, due teste di marmo intagliate, delle
  • quali l'una piagnea e l'altra ridea, e posele ad una porta, la quale
  • si chiamava porta Nolana, l'una dall'un lato della porta, e l'altra
  • dall'altro; ed avevan questa proprietá, che chi veniva per alcuna sua
  • vicenda a Napoli, e disavvedutamente entrava per quella porta, se egli
  • passava dalla parte della porta dove era posta quella che piagnea, mai
  • non potea recare a fine quello per che egli venuto v'era, e se pure il
  • recava, penava molto, e con gran noia e fatica il faceva; se passava
  • dall'altra parte, dove era quella che rideva, di presente spacciava la
  • bisogna sua.] E però credo che egli vivesse poco a Roma, ma che egli
  • talvolta vi usasse, questo è credibile.
  • «Sotto il buono Augusto», cioè Ottaviano Cesare, il quale, essendo per
  • nazione della gente Ottavia, anticamente cittadina di Velletri,
  • d'Ottavio padre e di Giulia, sirocchia di Giulio Cesare, nacque; il
  • quale poi Giulio Cesare s'adottò in figliuolo e per testamento gli
  • lasciò questo nome di Cesare. Poi, avendo egli perseguitati e disfatti
  • tutti coloro li quali avevano congiurato contro a Giulio Cesare, e
  • finite nella morte d'Antonio e di Cleopatra le guerre cittadine, e
  • molte nazioni aggiunte allo 'mperio di Roma; ed essendo a Roma venuti
  • ambasciadori indiani e di Scizia, genti ancora appena da' romani
  • conosciute, a domandare l'amicizia e la compagnia sua e de' romani; e,
  • oltre a ciò, avendo i parti renduti i regni romani tolti a Crasso e ad
  • Antonio; parendo a' romani questo essere maravigliosa cosa, il
  • vollero, secondo che alcuni dicono, adorare per iddio: la qual cosa
  • egli rifiutò del tutto. E nondimeno, avendogli tutto il governo della
  • republica commesso, e tenendo ragionamento di doverlo cognominare
  • Romolo, per consiglio di Numacio Planco senatore fu cognominato
  • Augusto, cioè accrescitore. Ma, percioché in molte parti di questo
  • libro si fa di lui menzione, per questa credo assai sia detto.
  • Chiamalo il «buon Augusto» l'autore, percioché, quantunque crudel
  • giovane fosse, nella etá matura diventò umano e benigno prencipe e
  • buono per la republica.
  • «Nel tempo degl'iddii falsi e bugiardi». Sono falsi, non veri iddii,
  • «_quia dii gentium daemonia_»: «bugiardi» gli chiama, percioché il
  • demonio, sí come e' medesimo in altra parte dice, è padre di menzogna.
  • [Lez. III]
  • «Poeta fui». Apresi ancora qui Virgilio per questo nome di «poeta»
  • piú all'autore; [intorno al qual nome, chiamato da molti e conosciuto
  • da pochi, estimo sia alquanto da estendersi. È dunque da vedere donde
  • avesse la poesia e questo nome origine, qual sia l'uficio del poeta, e
  • che onore sia retribuito al buon poeta. Estimaron molti, forse piú da
  • invidia che da altro sentimento ammaestrati, questo nome «poeta»
  • venire da un verbo detto «_poio pois_», il quale, secondo che li
  • grammatici vogliono, vuol tanto dire, quanto «_fingo fingis_»: il qual
  • «_fingo_» ha piú significazioni; percioché egli sta per «comporre»,
  • per «ornare», per «mentire» e per altri significati. Quegli adunque
  • che dall'avvilire altrui credon sé esaltare, dissono e dicono che dal
  • detto verbo «_poio_» viene questo nome «poeta»; e percioché quello
  • suona «_poio_» che «_fingo_», lasciati stare gli altri significati di
  • «_fingo_», e preso quel solo nel quale egli significa «mentire»,
  • conchiudendo, vogliono che «poeta» e «mentitore» sieno una medesima
  • cosa; e per questo sprezzano e avviliscono e annullano in quanto
  • possono i poeti, ingegnandosi, oltre a questo, di scacciargli e di
  • sterminargli del mondo, nel cospetto del non intendente vulgo
  • gridando: i poeti per autoritá di Platone dover esser cacciati delle
  • cittá. E, oltre a ciò, prendendo d'una pistola di Geronimo a Damaso
  • papa _De filio prodigo_ questa parola: «_Carmina poëtarum sunt
  • cibus daemoniorum_»; quasi armati dell'arme d'Achille, con ardita fronte
  • contra i poeti tumultuosamente insultano; aggiugnendo a' loro argomenti
  • le parole della Filosofia a Boezio, dove dice:--«_Quis--inquit--has
  • scenicas meretriculas ad hunc aegrum permisit accedere, quae dolores
  • eius non modo nullis remediis foverent, verum dulcibus insuper alerent
  • venenis?_»--E, se piú alcuna cosa truovano, similmente, come contro a
  • nemici della repubblica, contro ad essi l'oppongono.]
  • [Ma, percioché a questi cotali a tempo sará risposto, vengo alla prima
  • parte, cioè donde avesse origine il nome del «poeta». Ad evidenza
  • della qual cosa è da sapere, secondo che il mio padre e maestro messer
  • Francesco Petrarca scrive a Gherardo suo fratello, monaco di Certosa,
  • gli antichi greci, poiché per l'ordinato movimento del cielo e
  • mutamento appo noi de' tempi dell'anno, e per altri assai evidenti
  • argomenti, ebbero compreso uno dover essere colui il quale con
  • perpetua ragione dá ordine a queste cose, e quello essere Iddio, e tra
  • loro gli ebbero edificati templi, e ordinati sacerdoti e sacrifici;
  • estimando di necessitá essere il dovere nelle oblazioni di questi
  • sacrifici dire alcune parole, nelle quali le laudi degne a Dio, e
  • ancora i lor prieghi a Dio si contenessero; e conoscendo non esser
  • degna cosa a tanta deitá dir parole simili a quelle che noi, l'uno
  • amico con l'altro, familiarmente diciamo o il signore al servo suo:
  • costituirono che i sacerdoti, li quali eletti e sommi uomini erano,
  • queste parole trovassero. Le quali questi sacerdoti trovarono; e, per
  • farle ancora piú strane dall'usitato parlare degli uomini,
  • artificiosamente le composero in versi. E perché in quelle si
  • contenevano gli alti misteri della divinitá, accioché per troppa
  • notizia non venissero in poco pregio appo il popolo, nascosero quegli
  • sotto fabuloso velame. Il qual modo di parlare appo gli antichi greci
  • fu appellato «_poetes_»; il qual vocabolo suona in latino, «esquisito
  • parlare»; e da «_poetes_» venne il nome del «poeta», il qual nulla
  • altra cosa suona che «esquisito parlatore». E quegli, che prima
  • trovarono appo i greci questo, furono Museo, Lino e Orfeo. E, perché
  • ne' lor versi parlavano delle cose divine, furono appellati non
  • solamente «poeti», ma «teologi»; e per le opere di costoro dice
  • Aristotile che i primi che teologizzarono furono i poeti. E, se bene
  • si riguarderá alli loro stili, essi non sono dal modo del parlare
  • differenti da' profeti, ne' quali leggiamo, sotto velamento di parole
  • nella prima apparenza fabulose, l'opere ammirabili della divina
  • potenza. È vero che coloro, spirati dallo Spirito santo, quel dissero
  • che si legge, il quale credo tutto esser vero, sí come da verace
  • dettatore stato dettato; quello, che i poeti finsero, fecero per forza
  • d'ingegno, e in assai cose non il vero, ma quello che essi secondo i
  • loro errori estimavan vero, sotto il velame delle favole ascosero. Ma
  • i poeti cristiani, de' quali sono stati assai, non ascosero sotto il
  • loro fabuloso parlare alcuna cosa non vera, e massimamente dove
  • fingessero cose spettanti alla divinitá e alla fede cristiana: la qual
  • cosa assai bene si può cognoscere per la _Buccolica_ del mio
  • eccellente maestro messer Francesco Petrarca, la quale chi prenderá e
  • aprirá, non con invidia, ma con caritevole discrezione, troverá sotto
  • alle dure cortecce salutevoli e dolcissimi ammaestramenti; e
  • similmente nella presente opera, sí come io spero che nel processo
  • apparirá. E cosí si cognoscerá i poeti non essere mentitori, come
  • gl'invidiosi e ignoranti li fanno.]
  • [Appresso l'uficio del poeta è, sí come per le cose sopradette assai
  • chiaro si può comprendere, questo nascondere la veritá sotto favoloso
  • e ornato parlare: il che avere sempre fatto i valorosi poeti si
  • troverá da chi con diligenza ne cercherá. Ma ciò che io ora ho detto,
  • è da intendere sanamente. Io dico «la veritá», secondo l'oppenione di
  • quegli tali poeti; percioché il poeta gentile, al quale niuna notizia
  • fu della cattolica fede, non poté la veritá di quella nascondere nelle
  • sue fizioni, nascosevi quelle che la sua erronea religione estimava
  • esser vere; percioché, se altro che quello, che vero avesse istimato,
  • avesse nascoso, non sarebbe stato buon poeta.]
  • [E, percioché i poeti furono estimati non solamente teologi, ma
  • eziandio esaltatori dell'opere de' valorosi uomini, per li quali li
  • stati de' regni, delle province e delle cittá si servano; e, oltre a
  • ciò, quegli ne' lor versi di fare eterni si sforzarono; e similemente
  • furono grandissimi commendatori delle virtú e vituperatori de' vizi:
  • estimarono lor dovere estollere con quel singulare onore che i
  • principi triunfanti per alcuna vittoria erano onorati; cioè che dopo
  • la vittoria d'alcuna loro laudevole impresa, in comporre alcun
  • singular libro, essi fossero coronati di alloro, a dimostrare che,
  • come l'alloro serva sempre la sua verdezza, cosí sempre era da
  • conservare la lor fama. Le fatiche de' quali, se molto laudevoli non
  • fossero, non è credibile che il senato di Roma, al qual solo
  • apparteneva il concedere, a cui degno ne reputava, la laurea, avesse
  • quella ad un poeta conceduta, ch'egli concedette ad Affricano, a
  • Pompeo, a Ottaviano e agli altri vittoriosi prencipi e solenni uomini:
  • la qual cosa per avventura non considerano coloro che meno
  • avvedutamente gli biasimano. E se per avventura volesson dire:--Noi
  • gli biasimiamo perché furon gentili, le scritture de' quali sono da
  • schifare sí come erronee;--direi che da tollerar fosse, se Platone,
  • Aristotile, Ipocrate, Galieno, Euclide, Tolomeo e altri simili assai,
  • cosí gentili come i poeti furono, fossero similemente schifati; il che
  • non avvenendo, non si può forse altro dire se non che singular
  • malivolenzia il faccia fare.]
  • [Ma da rispondere è alle obbiezioni di questi valenti uomini fatte
  • contro a' poeti.]
  • [Dicono adunque, aiutati dall'autoritá di Platone, che i poeti sono da
  • esser cacciati delle cittá, quasi corrompitori de' buoni costumi. La
  • qual cosa negare non si può che Plato nel libro della sua _Republica_
  • non lo scriva; ma le sue parole non bene intese da questi cotali fanno
  • loro queste cose senza sentimento dire. Fu ne' tempi di Platone, e
  • avanti, e poi perseverò lungamente, ed eziandio in Roma, una spezie di
  • poeti comici, li quali, per acquistare ricchezze e il favore del
  • popolo, componevan lor commedie, nelle quali fingevano certi adultèri
  • e altre disoneste cose, state perpetrate dagli uomini, li quali la
  • stoltizia di quella etá aveva mescolati nel numero degl'iddii; e
  • queste cotal commedie poi recitavano nella scena, cioè in una piccola
  • casetta, la quale era constituita nel mezzo del teatro, stando
  • dintorno alla detta scena tutto il popolo, e gli uomini e le femmine,
  • della cittá ad udire. E non gli traeva tanto il diletto e il disiderio
  • di udire, quanto di vedere i giuochi che dalla recitazione del commedo
  • procedevano; i quali erano in questa forma: che una spezie di buffoni,
  • chiamati «mimi», l'uficio de' quali è sapere contraffare gli atti
  • degli uomini, uscivano di quella scena, informati dal commedo in
  • quegli abiti ch'erano convenienti a quelle persone, gli atti delle
  • quali dovevano contraffare, e questi cotali atti, onesti o disonesti
  • che fossero, secondo che il commedo diceva, facevano. E, percioché
  • spesso vi si facevano intorno agli adultèri, che i commedi recitavano,
  • di disoneste cose, si movevano gli appetiti degli uomini e delle
  • femmine, riguardanti, a simili cose disiderare e adoperare; di che i
  • buon costumi e le menti sane si corrompevano, e ad ogni disonestá
  • discorrevano. Perciò, accioché questo cessasse, Platone, considerando,
  • se la republica non fosse onesta, non poter consistere, scrisse, e
  • meritamente, questi cotali dovere essere cacciati delle cittá. Non
  • adunque disse d'ogni poeta. Chi fia di sí folle sentimento, che creda
  • che Platone volesse che Omero fosse cacciato della cittá, il quale è
  • dalle leggi chiamato «padre d'ogni virtú»? chi Solone, che nello
  • estremo de' suoi dí, ogni altro studio lasciato, ferventissimamente
  • studiava in poesia? Le leggi del qual Solone, non solamente lo
  • scapestrato vivere degli ateniesi regolarono, ma ancora composero i
  • costumi de' romani, giá cominciati a divenire grandi. Chi crederá
  • ch'egli avesse cacciato Virgilio, chi Orazio o Giovenale, acerrimi
  • riprenditori de' vizi? chi crederá ch'egli avesse cacciato il
  • venerabile mio maestro messer Francesco Petrarca, la cui vita e i cui
  • costumi sono manifestissimo esemplo d'onestá? chi il nostro autore, la
  • cui dottrina si può dire evangelica? E se egli questi cosí fatti poeti
  • cacciasse, cui riceverá egli poi per cittadino? Sardanapalo, Tolomeo
  • Evergete, Lucio Catellina, Neron cesare? Ma in veritá questa
  • obbiezione potevano essi o potrebbono agevolmente tacere. Non è egli
  • sí gran calca fatta da' poeti onesti d'abitare nelle cittá: Omero
  • abitò il piú per li luoghi solitari d'Arcadia; Virgilio, come detto è,
  • in villa; messer Francesco Petrarca a Valchiusa, luogo separato d'ogni
  • usanza d'uomini; e, se investigando si verrá, questo medesimo si
  • troverá di molti altri.]
  • [Dicono oltre a questo, le parole scritte da san Girolamo: «_Daemonum
  • cibus sunt carmina poëtarum_». Le quali parole senza alcun dubbio son
  • vere. Ma chi avesse in questa medesima pístola letto, avrebbe potuto
  • vedere di quali versi san Girolamo avesse inteso; e massimamente nella
  • figura, la qual pone, d'una femmina non giudea, ma prigione de'
  • giudei, la qual dice che, avendo raso il capo, e posti giú i
  • vestimenti suoi, e toltesi l'unghie e i peli, potersi ad uno ismaelita
  • per via di matrimonio congiugnere: forse con minor fervore, avendo la
  • figura intesa, avrebbero quelle parole contro a' poeti allegate. E,
  • accioché questo piú apertamente s'intenda, non vuole altro la figura
  • posta da san Girolamo, se non, per quegli atti che la scrittura di Dio
  • dice dover fare, se non, una purgazione del paganesimo o d'altra setta
  • fatta, potere qualunque femmina nel matrimonio venir de' giudei: e
  • cosí, purgate certe inconvenienze del numero de' poeti, restare i
  • versi de' poeti non come cibo di dimonio, ma come angelico potersi da'
  • fedeli cristiani usare. E questa purgazione per la grazia di Dio si
  • può dir fatta, poi che Costantino imperadore, battezzato da san
  • Silvestro, diede luogo al lume della veritá; percioché per la santitá
  • e sollecitudine dei papi e degli altri ecclesiastici pastori,
  • scacciando i sopradetti comici e ogni disonesto libro ardendo, par
  • questa poesia antica purgata, e potersi, ne' libri autorevoli e
  • laudevoli rimasi, congiugnere con ogni cristiano.]
  • [Non dico perciò (che è quello, a che san Girolamo nella predetta
  • pistola attende molto) che il prete o il monaco, o qual altro
  • religioso voglian dire, al divino oficio obbligato, debba il breviario
  • posporre a Virgilio; ma, avendo con divozione e con lagrime il divino
  • oficio detto, non è peccare in Spirito santo il vedere gli onesti
  • versi di qualunque poeta. E, se questi cotali non fossero piú
  • religiosi o piú dilicati, che stati sieno i santi dottori, essi
  • ritroverebbero questo cibo, il quale dicono de' demòni, non solamente
  • non essere stato gittato via o messo nel fuoco, come alcuni per
  • avventura vorrebbono, ma essere stato con diligenzia servato, trattato
  • e gustato da Fulgenzio, dottore e pontefice cattolico, sí come appare
  • in quello libro, il quale esso appella delle _Mitologiae_, da lui con
  • elegantissimo stilo scritto, esponendo le favole de' poeti. E
  • similmente troverebbono sant'Agostino, nobilissimo dottore, non avere
  • avuto in odio la poesia, né i versi de' poeti, ma con solerte
  • vigilanza quegli avere studiati e intesi: il che se negare alcun
  • volesse, non puote; conciosiacosaché spessissime volte questo santo
  • uomo ne' suoi volumi induca Virgilio e gli altri poeti; né quasi mai
  • nomina Virgilio senza alcun titolo di laude.]
  • [Similmente e Geronimo, dottore esimio e santissimo uomo,
  • maravigliosamente ammaestrato in tre linguaggi, il quale gli ignoranti
  • si sforzano di tirare in testimonio di ciò che essi non intendono, con
  • tanta diligenzia i versi de' poeti studiò e servò nella memoria, che
  • quasi paia nulla nelle sue opere non avere senza la testimonianza loro
  • fermata. E, se essi non credono questo, veggano, tra gli altri suoi
  • libri, il prologo del libro il quale egli chiama _Hebraicarum
  • quaestionum_, e considerino se quello è tutto terenziano. Veggano se
  • esso spessissime volte, quasi suoi assertori, induce Virgilio e
  • Orazio; e non solamente questi, ma Persio e gli altri minori poeti.
  • Leggano, oltre a questo, quella facundissima epistola da lui scritta a
  • sant'Agostino, e cerchino se in essa l'ammaestrato uomo pone i poeti
  • nel numero de' chiarissimi uomini, li quali essi si sforzano di
  • confondere.]
  • [Appresso, se essi nol sanno, leggano negli _Atti degli apostoli_ e
  • troveranno se Paolo, vaso d'elezione, studiò i versi poetici, e quegli
  • conobbe e seppe. Essi troveranno lui non avere avuto in fastidio,
  • disputando nello areopago contro la ostinazione degli ateniesi,
  • d'usare la testimonianza de' poeti; e in altra parte avere usato il
  • testimonio di Menandro comico poeta, quando disse: «_Corrumpunt mores
  • bonos colloquia mala_». E similmente, se io bene mi ricordo, egli
  • allega un verso di Epimenide poeta, il quale attissimamente si
  • potrebbe dire contro a questi sprezzatori de' poeti, quando dice:
  • «_Cretenses semper mendaces, malae bestiae, ventres pigri_». E cosí
  • colui, il quale fu rapito insino al terzo cielo, non estimò quello,
  • che questi piú santi di lui vogliono, cioè esser peccato o
  • abbominevole cosa aver letti e apparati i versi de' poeti. Oltre a
  • tutto questo, cerchino quello che scrisse Dionisio areopagita,
  • discepolo di Paolo e glorioso martire di Gesú Cristo, nel libro il
  • quale compose _Della celeste gerarchia_. Esso dice e proseguita e
  • pruova la divina teologia usare le poetiche fizioni, dicendo intra
  • l'altre cose cosí: «_Etenim valde artificialiter theologia poëticis
  • sacris formationibus, in non figuratis intellectibus usa est, nostram,
  • ut dictum est, animam relevans, et ipsi propria et coniecturali
  • reductione providens, et ad ipsum reformans anagogicas sanctas
  • Scripturas_»; ed altre cose ancora assai, le quali a questa somma
  • seguitano. E ultimamente, accioché io lasci star gli altri, li quali
  • io potrei inducere incontro a questi nemici del poetico nome, non esso
  • medesimo Gesú Cristo, nostro salvadore e signore, nella evangelica
  • dottrina parlò molte cose in parabole, le quali son conformi in parte
  • allo stilo comico? Non esso medesimo incontro a Paolo, abbattuto dalla
  • sua potenza in terra, usò il verso di Terenzio, cioè: «_Durum est tibi
  • contra stimulum calcitrare_»? Ma sia di lungi da me che io creda
  • Cristo queste parole, quantunque molto davanti fosse, da Terenzio
  • prendesse. Assai mi basta a confermare la mia intenzione, il nostro
  • Signore aver voluto alcuna volta usare la parola e la sentenzia
  • prolata giá per la bocca di Terenzio, accioché egli appaia che del
  • tutto i versi de' poeti non sono cibo del diavolo. Che adunque diranno
  • questi li quali cosí presuntuosamente s'ingegnano di scalpitare il
  • nome poetico? Certo, al giudicio mio, e' non gli possono giustamente
  • dannare, se non che co' versi poetici non si guadagnan danari, che
  • credo sia quello che in tanta abbominazione gli ha loro messi nel
  • petto, perché a' loro desidèri non sono conformi.]
  • [Resta a spezzare l'ultima parte delle loro armi, le quali in gran
  • parte deono esser rotte, se a quel si riguarda che alla sentenza di
  • Platone fu risposto di sopra. Essi vogliono che la filosofia abbia
  • cacciate le muse poetiche da Boezio, sí come femmine meretrici e
  • disoneste, e i conforti delle quali conducono chi l'ascolta, non a
  • sanitá di mente, ma a morte. Ma quel testo, male inteso, fa errare chi
  • reca quel testo in argomento contro a' poeti. Egli è senza alcun
  • dubbio vero la filosofia esser venerabile maestra di tutte le scienze
  • e di ciascuna onesta cosa; e in quello luogo, dove Boezio giaceva
  • della mente infermo, turbato e commosso dello esilio a gran torto
  • ricevuto, egli, sí come impaziente, avendo per quello cacciata da sé
  • ogni conoscenza del vero, non attendeva colla considerazione a trovare
  • i rimedi opportuni a dover cacciar via le noie che danno gl'infortuni
  • della presente vita; anzi cercava di comporre cose, le quali non
  • liberasson lui, ma il mostrassero afflitto molto, e per conseguente
  • mettessero compassion di lui in altrui. E questa gli pareva sí soave
  • operazione che (senza guardare che egli in ciò faceva ingiuria alla
  • filosofica veritá, la cui opera è di sanare, non di lusingare il
  • passionato), che esso, con la dolcezza delle lusinghe del potersi
  • dolere, insino alla sua estrema confusione avrebbe in tale impresa
  • proceduto; e, peroché questo è esercizio de' comici di sopra detti (a
  • fine di guadagnare), di lusingare e di compiacere alle inferme menti,
  • chiama la Filosofia queste muse «_meretriculae scenicae_», non perché
  • ella creda le muse esser meretrici, ma per vituperare con questo
  • vocabolo l'ingegno dell'artefice che nelle disoneste cose le induce.
  • Assai è manifesto non esser difetto del martello fabbrile, se il
  • fabbro fa piú tosto con esso un coltello, col quale s'uccidono gli
  • uomini, che un bómere, col quale si fende la terra, e rendesi abile a
  • ricevere il seme del frutto, del quale noi poscia ci nutrichiamo. E
  • che le Muse sieno qui istrumento adoperante secondo il giudicio
  • dell'artefice, e non secondo il loro, ottimamente il dimostra la
  • Filosofia, dicendo in quel medesimo luogo che è disopra mostrato,
  • quando dice:--Partitevi di qui, Serene dolci infino alla morte, e
  • lasciate questo infermo curare alle mie muse, cioè alla onestá e alla
  • integritá del mio stilo, nel quale mediante le mie muse io gli
  • mostrerò la veritá, la quale egli al presente non conosce, sí come
  • uomo passionato e afflitto.--Nelle quali parole si può comprendere non
  • essere altre muse, quelle della filosofia, che quelle de' comici
  • disonesti e degli elegiaci passionati, ma essere d'altra qualitá
  • l'artefice, il quale questo istrumento dee adoperare. Non adunque nel
  • disonesto appetito di queste muse, le quali chiama la Filosofia
  • «meretricule», sono vituperate le muse, ma coloro che in disonesto
  • esercizio l'adoperano.]
  • [Restavano sopra la presente materia a dir cose assai, ma percioché in
  • altra parte piú distesamente di questo abbiamo scritto, basti questo
  • averne detto al presente, e alla nostra impresa ne ritorniamo. Fu
  • adunque Virgilio, poeta, e non fu popolar poeta, ma solennissimo, e le
  • sue opere e la sua fama chiaro il dimostrano agl'intendenti.]
  • [Lez. IV]
  • «E cantai». Usa Virgilio questo vocabolo in luogo di «composi [versi»;
  • e la ragione in parte si dimostrò, dove di sopra si disse perché
  • «cantiche» si chiamano l'opere de' poeti; alla quale si puote
  • aggiugnere una usanza antica de' greci, dalla qual credo non meno
  • esser mossa la ragione perché «cantare» si dicono i versi poetici, che
  • da quella che giá è detta. E l'usanza era questa: ch'e' nobili giovani
  • greci si reputavano quasi vergogna il non saper cantare e sonare, e
  • questi loro canti e suoni usavano molto ne' lor conviti. E non erano
  • li lor canti di cose vane, come il piú delle canzoni odierne sono,
  • anzi erano versi poetici, ne' quali d'altissime materie o di laudevoli
  • operazioni da valenti uomini adoperate, sí come noi possiam vedere
  • nella fine del primo dell'_Eneida_ di Virgilio, dove, dopo la notabile
  • cena di Didone fatta ad Enea, Iopa, sonando la cetera, canta gli
  • errori del sole e della luna, e la prima generazione degli uomini e
  • degli altri animali, e donde fosse l'origine delle piove e del fuoco,
  • e altre simili cose: dal quale atto poté nascere il dirsi che i
  • poetici versi si cantino. E per conseguente Virgilio, dell'opere da sé
  • composte dice «cantai». Il qual non solamente compuose l'_Eneida_, ma
  • molti altri libri, si come, secondoché Servio scrive, l'_Ostirina_,
  • l'_Ethna_, il _Culice_, la _Priapea_, il _Cathalecthon_, le _Dire_,
  • gli _Epigrammati_, la _Copa_, il _Moreto_ e altri; ma sopra tutti fu
  • l'_Eneida_, la quale in laude d'Ottaviano compuose. Poi, partendosi da
  • Napoli, e andandone ad Atene ad udir filosofia, non avendo corretto il
  • detto _Eneida_, quello lasciò a due suoi amici valenti poeti, cioè a
  • Tucca e a Varrone, con questo patto che, se avvenisse che egli avanti
  • la tornata sua morisse, che essi il dovessero ardere; per che, essendo
  • a Brandizio morto, senza potere esser pervenuto ad Atene, e Tucca e
  • Varrone sappiendo questo libro in laude di Ottaviano essere stato
  • composto, e che esso il sapeva, temettero d'arderlo senza coscienza
  • d'Ottaviano; e perciò, raccontata a lui la intenzion di Virgilio,
  • ebbero in comandamento di non doverlo ardere per alcuna cagione, ma il
  • correggessero, con questo patto, che essi alcuna cosa non
  • v'aggiugnessero, e, se vi trovasser cosa da doverne sottrarre,
  • potessero. Il che essi con fede fecero. Poi Ottaviano, fatte recare le
  • sue ossa da Brandizio a Napoli, vicino al luogo dove gli era dilettato
  • di vivere, il fece seppellire, cioè infra 'l secondo miglio da Napoli,
  • lungo la via che si chiamava Puteolana, accioché esso quivi giacesse
  • morto, dove gli era dilettato di vivere.]
  • «Di quel giusto Figliuol d'Anchise», cioè d'Enea, del quale Virgilio
  • nel primo dell'_Eneida_ fa ad Ilioneo dire alla reina Dido queste
  • parole:
  • _Rex erat Aeneas nobis, quo iustior alter
  • nec pietate fuit, nec bello maior et armis,_
  • nelle quali testimonia Enea essere stato giustissimo. Anchise fu della
  • schiatta de' re di Troia, figliuolo di Capis, figliuolo di Assaraco,
  • figliuolo di Troio, e fu padre d'Enea, come qui si dice, «che venne da
  • Troia». Troia è una provincia nella minore Asia, vicina d'Ellesponto,
  • alla quale è di ver' ponente il mare Egeo, dal mezzodí Meonia, da
  • levante Frigia maggiore, da tramontana Bitinia, cosí dinominata da
  • Troio, re di quella. «Poi che il superbo Ilión fu combusto». Ilione fu
  • una cittá di Troia, cosí nominata da Ilio, re di Troia, e fu la cittá
  • reale, e quella, secondo che Pomponio Mela scrive nel primo della sua
  • _Cosmografia_, che fu da' greci assediata, e ultimamente presa e arsa
  • e disfatta. Chiamalo «superbo» dall'altezza dello stato del re Priamo
  • e de' suoi predecessori.
  • E poi che manifestato s'è, egli fa una breve domanda all'autore,
  • dicendo:--«Ma tu perché ritorni a tanta noia?» quanta è a essere nella
  • selva, della quale partito ti se';--e quinci segue e fanne
  • un'altra:--«Perché non sali al dilettoso monte, Ch'è principio e
  • cagion di tutta gioia?».--
  • Espedite queste parole di Virgilio, segue la terza parte di questa
  • seconda, nella qual dissi che con ammirazion l'autore rispondeva, e,
  • col commendar Virgilio, s'ingegnava d'accattare la sua benivolenza. E,
  • rispondendo alla dimanda di lui, gli mostra quello per che al monte
  • non sale, e il suo aiuto addimanda, e dice:--«Or se' tu quel Virgilio
  • e quella fonte, Che spande di parlar sí largo fiume?».--Commendalo qui
  • l'autore dell'amplitudine della sua facundia, quella facendo
  • simigliante ad un fiume. «Rispos'io lui con vergognosa fronte».
  • Vergognossi l'autore d'essere da tanto uomo veduto in sí miserabile
  • luogo, e dice «con vergognosa fronte», percioché in quella parte del
  • viso prima appariscano i segni del nostro vergognarci; comeché qui si
  • può prendere il tutto per la parte, cioè tutto il viso per la
  • fronte.--«O degli altri poeti» latini «onore», percioché per Virgilio
  • è tutto il nome poetico onorato, «e lume». Sono state l'opere di
  • Virgilio a' poeti, che appresso di lui sono stati, un esempio, il
  • quale ha dirizzate le loro invenzioni a laudevole fine, come la luce
  • dirizza i passi nostri in quella parte dove d'andare intendiamo.
  • «Vagliami il lungo studio e il grande amore». Poi che l'autore ha
  • poste le laude di Virgilio, accioché per quelle il muova al suo
  • bisogno, ora il priega per li meriti di se medesimo, per li quali
  • estima Virgilio sí come obbligatogli il debba aiutare, e dice:
  • «Vagliami», a questo bisogno, «il lungo studio». Vuol mostrare d'avere
  • l'opera di Virgilio studiata, non discorrendo, ma con diligenza. «E 'l
  • grande amore». E per questo intende mostrare un atto caritativo, che
  • fatto gli ha studiare il libro di Virgilio, e non, come molti fanno,
  • averlo studiato per trovarvi che potere mordere e biasimare. «Che m'ha
  • fatto cercare il tuo volume», l'_Eneida_.
  • «Tu se' lo mio maestro». Qui con reverirlo vuol muover Virgilio
  • chiamandolo «maestro», «e 'l mio autore». In altra parte si legge
  • «signore», e credo che stia altresí bene; percioché qui, umiliandosi,
  • vuol pretendere il signore dovere ne' bisogni il suo servidore
  • aiutare. «Tu se' solo colui da cui io tolsi», cioè presi, «il bello
  • stilo», del trattato, e massimamente dello _'Nferno_, «che m'ha fatto
  • onore», cioè fará. E pon qui il preterito per lo futuro, facendo
  • solecismo.
  • «Vedi la bestia», e mostragli la lupa, della quale di sopra è detto,
  • «per cui io mi volsi», dal salire al dilettoso monte. E qui gli
  • risponde all'interrogazion fatta; appresso il priega dicendo: «Aiutami
  • da lei, famoso saggio»; nelle quali parole vuol mostrare colui
  • veramente esser saggio, il quale non solamente è saggio nel suo
  • segreto, ma eziandio nel giudicio degli altri per lo quale esso
  • diventa famoso. «Ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi». Triemano le
  • vene e' polsi quando dal sangue abbandonate sono, il che avviene
  • quando il cuore ha paura; percioché allora tutto il sangue si ritrae a
  • lui ad aiutarlo e riscaldarlo, e il rimanente di tutto l'altro corpo
  • rimane vacuo di sangue, e freddo e palido.
  • --«A te convien tenere altro viaggio». In questa quarta particella fa
  • l'autore due cose: prima dichiara ciò che Virgilio dice della natura
  • di quella lupa, e il suo futuro disfacimento; appresso gli dimostra
  • Virgilio quel cammino che gli par da tenere, accioché egli possa di
  • quello luogo pericoloso uscire. La seconda quivi: «Ond'io per lo tuo
  • me'». Dice dunque:--«A te convien tenere altro viaggio», che quello il
  • quale di tenere ti sforzi,--«rispose» Virgilio, «poi che lagrimar mi
  • vide,--Se vuoi campar», senza morte uscire, «d'esto loco selvaggio»,
  • come di sopra è dimostrato. E, seguendo, Virgilio gli dice la cagione
  • perché a lui convien tenere altro cammino, dicendo: «Ché quella
  • bestia», cioè quella lupa, «per la qual tu gride», domandando
  • misericordia, «Non lascia altrui passar per la sua via», non della
  • lupa, ma di colui che andar vuole; «Ma tanto lo 'mpedisce», ora in una
  • maniera e ora in un'altra, «che l'uccide. Ed ha», questa lupa, «natura
  • sí malvagia e ria, Che mai non empie la bramosa voglia» del divorare,
  • «Ma dopo il pasto ha piú fame che pria». Vuole Virgilio per queste
  • parole rimuovere un pensier vano, il quale potrebbe cadere
  • nell'autore, dicendo:--Quantunque questa bestia sia bramosa e abbia la
  • fame grande, egli potrá avvenire che ella prenderá alcuno animale e
  • pascerassi, e, pasciuta, mi lascerá andare dove io disidero;--il qual
  • avviso si rimuove per quelle parole: «E dopo il pasto ha piú fame che
  • pria».
  • «Molti son gli animali a cui s'ammoglia», cioè co' quali si congiugne.
  • Questo è fuori dell'uso della natura di qualunque animale,
  • congiugnersi con molti animali di diverse spezie; ma con alcuno assai
  • bestie il fanno, sí come il cavallo coll'asino, la leonessa col
  • leopardo e la lupa col cane. E questo non è da dubitare che l'autore
  • non sapesse; per che, avendol posto, assai bene possiam comprendere
  • l'autore volere altro sentire che quello che semplicemente suona la
  • lettera, e cosí in ciò che sèguita del rimettimento di questa lupa in
  • inferno: la sposizione delle quali cose a suo tempo riserberemo. «E
  • piú saranno ancora», che stati non sono, «infin che 'l veltro Verrá».
  • È il veltro una spezie di cani, maravigliosamente nimica de' lupi, de'
  • quali veltri dice, come appare, doverne venire uno, «che la fará morir
  • con doglia».
  • «Questi», cioè questo veltro, «non ciberá», cioè mangerá, «terra né
  • peltro». Peltro è una spezie vile di metallo composta d'altri. «Ma
  • sapienza, amore e virtute». Questi non sogliono essere cibi de' cani;
  • e perciò assai chiaro appare lui intendere altro che non par che dica
  • la lettera. «E sua nazion sará tra feltro e feltro». È il feltro
  • vilissima spezie di panno, come ciascun sa manifestamente.
  • «Di quella umile». Usa qui l'autore un tropo, il quale si chiama
  • «ironia», per vocabolo contrario mostrando quello che egli intende di
  • dimostrare; cioè per «umile», «superba», sí come noi tutto 'l dí
  • usiamo, dicendo d'un pessimo uomo:--Or questi è il buono uomo;--d'un
  • traditore:--Questi è il leale uomo;--e simili cose. Dice adunque: «Di
  • quella umile», cioè superba, «Italia fia salute». È Italia una gran
  • provincia, nominata da Italo, figliuolo di Corito re e fratello di
  • Dardano (del quale piú distesamente diremo appresso nel quarto canto),
  • terminata dall'Alpi e dal mare Tirreno e dall'Adriano, contenente in
  • sé molte province; e perciò, a voler dimostrare di qual parte di
  • questa Italia dice, soggiugne: «Per cui morí», cioè fu uccisa, «la
  • vergine Camilla».
  • Fu questa Camilla, secondo che Virgilio scrive nell'undicesimo
  • dell'_Eneida_, figliuola di Metabo, re di Priverno, e di Casmilla, sua
  • moglie. E, percioché nel partorire questa fanciulla morí la madre,
  • piacque al padre di levare una lettera sola, cioè quella «s», che era
  • nel nome di Casmilla, sua moglie, e nominare la figliuola Camilla. La
  • quale essendo ancora piccolissima, avvenne, per certe divisioni de'
  • privernati, Metabo re a furore fu cacciato di Priverno. Il quale, non
  • avendo spazio di potere alcun altra cosa prendere, prese questa
  • piccola sua figliuola e una lancia, e con essa, essendo dai privernati
  • seguito, si mise in fuga; e, pervegnendo a un fiume, il quale si
  • chiamava Amaseno, e trovandol per una grandissima piova cresciuto
  • molto, e sé veggendo convenirgli lasciar la fanciulla, se notando il
  • volea trapassare, subitamente prese consiglio d'involgere questa
  • fanciulla in un suvero e legarla alla sua lancia, e quella lanciare di
  • lá dal fiume e poi esso notando passarlo. Per che, legatola e
  • dovendola gittare oltre, umilemente la raccomandò a Diana, a lei
  • botandola, se ella salva gliela facesse dall'altra parte del fiume
  • ritrovare; e lanciatola e poi notando seguitola, e dall'altra parte
  • trovata senza alcuna lesione la figliuola, andatosene con essa in
  • certe selve vicine, allevò questa sua figliuola alle poppe d'una
  • cavalla. Alla quale, come crescendo venne, appiccò una faretra alle
  • spalle, e posele un arco in mano, e insegnolle non filare, ma saettare
  • e gittar le pietre con la rombola, e correr dietro agli animali [e i
  • suoi vestimenti erano di pelli d'animali] salvatichi. Ne' quali
  • esercizi costei giá divenuta grande fu maravigliosa femmina; e fu in
  • correre di tanta velocitá, che, correndo, ella pareva si lasciasse
  • dietro i venti; e fu sí leggiera, che Virgilio, iperbolicamente
  • parlando, dice che ella sarebbe corsa sopra l'onde del mare senza
  • immollarsi le piante de' piedi. Costei da molti nobili uomini
  • addomandata in matrimonio, mai alcuna cosa non ne volle udire, ma,
  • virginitá servando, si dilettava d'abitar le selve nelle quali era
  • stata allevata e di cacciare. Poi pare che richiamata fosse nel regno
  • paterno; e, ritornatavi, e sentendo la guerra di Turno con Enea, da
  • Turno richiesta, con molti de' suoi volsci andò in aiuto di lui; dove
  • un dí, fieramente contro a' troiani combattendo, fu fedita d'una
  • saetta nella poppa da uno che avea nome Arruns; della qual fedita essa
  • morí incontanente.
  • «Eurialo, Turno e Niso di ferute». Eurialo e Niso furono due giovani
  • troiani, li quali in Italia aveano seguito Enea. Ed essendo insieme
  • con Ascanio, figliuolo d'Enea, rimasi a guardia del campo d'Enea, il
  • quale era andato a cercare aiuto contro a Turno a certi popoli
  • circunvicini, avvenne che, premendo Turno molto Ascanio, si dispose
  • Ascanio, per téma di non poter sofferire la forza di Turno, di far
  • sentire ad Enea come da assedio era gravemente stretto, accioché di
  • tornare in soccorso di lui il padre s'affrettasse. Alla qual cosa fare
  • Niso si profferse, e ingegnavasi di farlo occultamente da Eurialo;
  • percioché conosceva il pericolo esser grande, ed Eurialo ancora un
  • garzone, ed egli nol voleva mettere a quel pericolo. Ma non seppe sí
  • fare che Eurialo nol sentisse; per la qual cosa convenne che Eurialo
  • andasse con lui. E, usciti una notte del campo d'Ascanio, convenendo
  • loro passar per lo mezzo de' nemici, e tacitamente andando e
  • trovandogli tutti dormire, n'uccison molti. Ed Eurialo, vago come i
  • garzon sono, di certe armadure belle, tratte a coloro li quali uccisi
  • aveano, carico, seguitando Niso, avvenne che si scontrarono in una
  • grande quantitá di nemici, li quali come Niso vide, tantosto si
  • ricolse in un bosco, credendo avere appresso di sé Eurialo; ma egli
  • era rimaso, e giá intorniato da' nimici, quando Niso lui non esser
  • seco si avvide. Per che voltosi, e vedendol nel mezzo de' nemici, e
  • loro correntigli addosso per ucciderlo, tornando addietro, cominciò a
  • gridare che perdonassero ad Eurialo, sí come a non colpevole, e
  • uccidesson lui, il quale aveva tutto quello male fatto. Ma poco valse:
  • essi uccisono Eurialo e poi ucciser lui; e cosí amenduni quivi morti
  • rimasero.
  • «Turno». Costui fu figliuolo di Dauno, re d'Ardea, e nepote carnale
  • d'Amata, moglie di Latino, re de' laurenti, giovane ardentissimo e di
  • gran cuore; il quale, vedendo Latino re avere data Lavina sua
  • figliuola per moglie ad Enea, la qual prima avea promessa a lui,
  • sdegnato, avea mosso guerra ad Enea, e per questo molte battaglie
  • aveano fatte; ultimamente, secondo che Virgilio scrive nel fine del
  • dodicesimo dell'_Eneida_, soprastandogli Enea in una singular
  • battaglia stata fra loro, e veggendogli cinto il balteo, il quale era
  • stato di Pallante, cui ucciso avea, lui addomandante perdono, uccise.
  • E cosí dalle morti di costoro ha l'autore discritta di qual parte
  • d'Italia intenda, cioè di quella lá dove è Roma, con alcune piccole
  • circustanze: la quale in tanta superbia crebbe, che le parve poco il
  • voler soprastare a tutto il mondo; né per la ruina del romano imperio
  • cessò però la romana superbia, perseverando in essa la sede
  • apostolica. Nella quale, al tempo che l'autore di prima pose mano alla
  • presente opera, sedeva Bonifazio papa ottavo, il quale, quantunque
  • altiero signor fosse molto, parve per avventura ancor molto piú
  • all'autore, in quanto piegare non fu potuto a' piaceri né alle domande
  • fatte da quegli della setta della quale fu l'autore.
  • «Questi», cioè questo veltro, «la caccerá per ogni villa», cioè
  • estermineralla del mondo, «Finché l'avrá rimessa nell'inferno, Lá onde
  • invidia prima dipartilla». In queste parole chiaramente si può
  • intendere, l'autore dire una cosa e sentire un'altra; conciosiacosaché
  • manifesto sia in inferno non generarsi lupi, e perciò di quello non
  • poterne essere stato tratto alcuno, per doverlo in questa vita menare.
  • «Ond'io per lo tuo me'». In questa particella seconda della quarta,
  • dice l'autore il consiglio preso da Virgilio per sua salute, e,
  • secondo l'usanza poetica, mostra in poche parole ciò che dee trattare
  • in tutto questo suo volume; e dice cosí: «Ond'io», considerata la
  • natura di questa lupa che t'impedisce, «per lo tuo me', penso e
  • discerno», giudico, «Che tu mi segua, ed io sarò tua guida, E
  • trarrotti di qui», cioè di questo luogo pericoloso, «per luogo
  • eterno», cioè per lo 'nferno e per lo purgatorio, i quali son luoghi
  • eterni; «Dove», cioè in quel luogo, «udirai le dispietate strida», in
  • quanto paiono d'uomini crudeli e senza alcuna umanitá; «E vederai gli
  • spiriti dolenti, Che la seconda morte ciascun grida»; cioè la morte
  • dell'anima, percioché quella del corpo, la quale è la prima, essi
  • l'hanno avuta. Addomandano adunque la seconda, credendo per quella le
  • pene, che sentono, non dover poscia sentire. [Ma i nostri teologi
  • tengono che, quantunque essi la spiritual morte domandino, non perciò,
  • potendola avere, la vorrebbono, percioché per alcuna cagione non
  • vorrebbon perdere l'essere. Deesi adunque intendere li dannati chiamar
  • la seconda morte, sí come noi mortali spesse volte chiamiamo la prima;
  • la quale se venir la vedessimo, senza alcun dubbio a nostro potere la
  • fuggiremmo. O puossi sporre cosí: tiensi per li teologi esser piú
  • spezie di morte, delle quali è la prima quella della quale tutti
  • corporalmente moiamo; la seconda dicono che è morte di miseria, la
  • qual veramente io credo essere infissa ne' dannati, in tanta
  • tribulazione e angoscia sono: e questo è quello che ciascun dannato
  • grida, non dimandandola, ma dolendosi.]
  • «E vederai color che son contenti Nel fuoco», della penitenza; e dice
  • «contenti», percioché quella penitenza, che non si facesse con
  • contentamento d'animo di colui che la facesse, non varrebbe alcuna
  • cosa a salute; «perché speran di venire, Quando che sia», finito il
  • tempo della penitenzia, «alle beate genti. Alle quali» beate genti,
  • «se tu vorrai salire», però che sono in cielo, «Anima fia a ciò di me
  • piú degna: [Con lei ti lascerò nel mio partire». E questa fia quella
  • di Stazio poeta, con la quale egli poscia il lasciò in su la sommitá
  • del monte di purgatorio, sopra la riva del fiume di Lete, come nel
  • trentesimo canto del _Purgatorio_ si legge.] «Ché quello imperador»,
  • cioè Iddio, «che lassú», cioè in cielo, «regna, Perch'io fui
  • ribellante», non seguendola, «alla sua legge», a' suoi comandamenti,
  • «Non vuol che in sua cittá», in paradiso, «per me si vegna. In tutte
  • parti impera», comandando, «e quivi», nel cielo empireo, «regge: Quivi
  • è la sua cittá», nel cielo, «e l'alto seggio», reale. «O felice colui,
  • cui quivi elegge!», per abitatore di quello, come i beati sono.--
  • «Io cominciai:--Poeta». In questa quinta particella l'autore, udito il
  • consiglio di Virgilio, e approvandolo, lo scongiura che quivi il meni,
  • dicendo: «io ti richieggio, Per quello Iddio», cioè Gesú Cristo, «che
  • tu non conoscesti, Accioch'io fugga questo male», cioè il pericolo nel
  • quale al presente sono, «e peggio», cioè la morte, «Che tu mi meni lá
  • ove or dicesti», cioè in inferno e in purgatorio, «Sí ch'i' vegga la
  • porta di san Pietro», cioè la porta del purgatorio, dove sta il
  • vicario di san Piero: «Con quelli i quai tu fai», cioè di' essere,
  • «cotanto mesti», cioè dolorosi, dannati alle pene eterne.--
  • «Allor si mosse», entrando nel cammino dimostrato; ed è atto d'uomo
  • disposto a quello di che è richiesto, che senza eccezione il mette ad
  • esecuzione. Ed è questa l'ultima particella delle sei, che dissi esser
  • partita la seconda parte principale del primo canto. «Ed io gli tenni
  • dietro», cioè il seguitai.
  • II
  • SENSO ALLEGORICO
  • [Lez. V]
  • «Nel mezzo del cammin di nostra vita», ecc. Poi che, per la grazia di
  • Dio, è quello, che secondo il senso litterale si può, dimostrato, è da
  • tornarsi al principio di questo canto, e quello che sotto la rozza
  • corteccia delle parole è nascoso, cioè il senso allegorico, aprire e
  • dichiarare. Intorno alla qual cosa credo udirete cose per le quali vi
  • si potrebbe forse meritamente dire le parole che l'autore medesimo
  • dice nel secondo canto del _Paradiso_, cioè: «Que' gloriosi che
  • passâro a Colco, Non s'ammiraron, come voi farete, Quando vider Giason
  • fatto bifolco». Percioché allora per effetto potrete vedere quanto
  • d'arte e quanto di sentimento sia stato e sia nello stilo poetico,
  • oltre alla stima che molti fanno. E peroché gustando con lo 'ntelletto
  • il mellifluo e celestial sapore, nascoso sotto il velo del favoloso
  • discrivere, forse vi dorrete il nostro poeta e gli altri avere tanta
  • soavitá riposta, in guisa che senza difficultá aver non si puote; e
  • direte:--Perché non diedono i poeti la loro dottrina libera e aperta
  • ed espedita, come molti altri fanno la loro, sí che, chi volesse, ne
  • potesse prendere frutto piú tosto?--In risponsione della qual cosa si
  • possono due ragioni dimostrare: e la prima può esser questa.
  • Costume generale è, di tutte le cose meritamente da aver care, il
  • discreto uomo non tenerle in piazza, ma sotto il piú forte serrame
  • c'ha nella sua casa, e con grandissima diligenza guardarle, e ad
  • alquanti suoi amici, ma a pochi e rade volte, mostrarle; e questo fa,
  • accioché il troppo farne copia non faccia quelle divenire piú vili. Il
  • che per atto possiam tutto il dí vedere avvenire; e, se in ogni altra
  • cosa nascosa ci fosse questa veritá, guardiamo al sole, del quale
  • alcuna cosa sí bella, non che piú, veggiamo, né alcuna sí chiara
  • muoversi, non tirato né sospinto, se non dal divino ordine impostogli;
  • pieno di tanta luce, che ogni altro lucido corpo illumina, ogni
  • terrena cosa vivifica, accresce e nutrica e al suo fine conduce: il
  • quale, per troppo mostrarsi, è non solamente poco prezzato, ma son di
  • quegli che di vederlo ischifano. Per la qual cosa, accioché questo non
  • seguiti, non so qual altra cosa noi possiamo con piú certa ragion dire
  • che sia piú cara, piú da gradire e meglio da riporre e da guardare,
  • che sono gli alti effetti della natura e i secreti misteri e i sublimi
  • della divinitá. Questi, se negl'intelletti universalmente del vulgo
  • divenissero, in poco tempo ne seguirebbe che sarebbon pregiati meno
  • che non è il sole, o che i ragionamenti meccanici e le favole delle
  • femminelle. E per questo lo Spirito santo, d'ogni cosa dottissimo, gli
  • alti segreti della divina mente nascose, come noi possiam vedere,
  • nelle figure del _Vecchio Testamento_, nelle _Visioni_ di certi
  • profeti, e ancora nell'_Apocalissi_ di Giovanni evangelista, sotto
  • parole tanto nella prima faccia differenti dal vero e meno conformi
  • nell'apparenza a' sensi nascosi, che per poco piú esser non
  • potrebbono. Le vestigie del quale, con quelle forze che possono gli
  • umani ingegni seguir la divinitá, con ogni arte s'ingegnarono di
  • seguitare i poeti, quelle cose che essi estimavano piú degne sotto
  • favoloso parlare nascondendo, accioché dove carissime sono, non
  • divenissero vili ad ogni uomo, aperte lasciandole. Il che assai bene
  • pare ne dimostri Macrobio, nel primo libro _De somnio Scipionis_, cosí
  • dicendo: «_De diis autem, ut dixi, caeteris et de anima, non frustra
  • se, nec ut oblectent, ad fabulosa convertunt, sed quia sciunt inimicam
  • esse naturae apertam nudamque expositionem sui: quae, sicut vulgaribus
  • hominum sensibus intellectum sui vario rerum tegmine operimentoque
  • subtraxit, ita a prudentibus arcana sua voluit per fabulosa tractari.
  • Sic ipsa mysteria figurarum cuniculis operiuntur, ne vel hoc adeptis
  • nudam rerum talium natura se praebeat, sed summatibus tantum viris,
  • sapientia interprete, veri arcani consciis. Contenti sint reliqui ad
  • venerationem, figuris defendentibus a vilitate secretum_», ecc.
  • La seconda ragione può essere questa. Suole quello, che con difficultá
  • s'acquista, piacer piú e guardarsi meglio che quello che senza alcuna
  • fatica o poca si truova; e questo le grandi ereditá rimase a' nostri
  • giovani cittadini hanno mostrato. Non essendo adunque alcun dubbio
  • esser molta malagevolezza il trarre la nascosa veritá di sotto al
  • fabuloso parlare, dee seguire essere incomparabile diletto, a colui
  • che, per suo studio, vede averla saputa trovare; laonde non solamente
  • ogni affanno avutone se ne dimentica, ma ne rimane una dolcezza
  • nell'animo, la quale quasi con legame indissolubile ferma, nella
  • memoria di colui che ritrovata l'ha, la veritá: dove quella che senza
  • alcuna difficultá s'acquista, come leggiermente venne, cosí
  • leggiermente si parte. Di che séguita che dell'avere faticato
  • s'acquista, dove del non avere studiato l'uomo si ritruova di scienza
  • vòto.
  • [La terza ragione mi pare dovere esser questa. E' non pare che alcun
  • dubbio sia li cieli, i pianeti e le stelle esser ministri della divina
  • potenza, e, secondo la virtú loro attribuita, i corpi inferiori
  • generare, mediante quelle cagioni che dalla natura sono ordinate, e
  • quegli nutrire e nel lor fine menargli. E, percioché essi corpi
  • superiori sono in continuo moto e in diversi modi si congiungono e si
  • separano l'uno dall'altro, par di necessitá che gli effetti da lor
  • prodotti in diversi tempi e in materie diverse, debbano esser diversi
  • e a diverse cose disposti; e quinci par che séguiti la diversitá degli
  • aspetti degli uomini, de' quali non pare che alcuno alcun altro
  • somigli; e similmente degli ofici, li quali veggiam manifestamente
  • essere, eziandio naturalmente, diversi negli uomini. Dalla qual cosa
  • mosso, dice il nostro autore nel _Paradiso_:
  • Un ci nasce Solone, ed altro Serse,
  • altri Melchisedech, ed altri quello
  • che, volando per l'aere, il figlio perse.
  • E questo si dee cognoscere muovere dal divino intelletto, il quale
  • cognosce una universitá, come è quella dell'umana generazione, non
  • poter consistere in sé, se non avesse diversitá d'ufici. E perciò,
  • accioché dell'altre cose lasciamo al presente stare, alcun ci nasce
  • atto a filosofia, alcuno ad astrologia, alcuno a poesia e alcuni altri
  • ad altre scienze. Colui, che nasce atto a poesia, séguita, quanto può
  • e sa, d'esercitarsi nel poetico oficio; e, quantunque da Dio sia alle
  • nostre anime, le quali esso _immediate_ crea, data la ragione e il
  • libero arbitrio, per lo quale, non ostante la forza de' cieli, ciascun
  • può far quello che piú gli aggrada, pare che il piú seguitin gli
  • uomini quello a che essi sono atti nati. Laonde quegli che al poetico
  • oficio è nato, eziandio volendo, non pare che possa fare altro che
  • quello che a tale oficio s'appartiene; e, percioché a quello oficio
  • s'appartiene quello che di sopra è detto, se egli in quello
  • laudevolmente s'esercita, non è per avventura da maravigliarsene]. E
  • perciò non si rammarichi alcuno, se dai poeti è sotto favole nascosa
  • la veritá, ma piú tosto si dolga della sua negligenza, per la quale e'
  • perde o ha perduto quello che il farebbe lieto, faticandosi d'avere
  • ritrovata la cara gemma nella spazzatura nascosa. E questo basti avere
  • a questa parte risposto.
  • Fu adunque il nostro poeta, sí come gli altri poeti sono,
  • nasconditore, come si vede, di cosí cara gioia, come è la cattolica
  • veritá, sotto la volgare corteccia del suo poema. [Per la qual cosa si
  • può meritamente dire questo libro essere poliseno, cioè di piú sensi.
  • De' quali è il primo senso quello il quale egli ha nelle cose
  • significate per la lettera, sí come voi potete aver di sopra, nella
  • esposizion litterale, udito; e chiamasi questo senso «litterale», e
  • cosí è. Il secondo senso è allegorico o vero morale, il quale,
  • accioché voi comprendiate meglio, esemplificando vel dichiarerò in
  • questi versi: «_In exitu Israël de Aegypto, domus Iacob de populo
  • barbaro: facta est Iudea sanctificatio eius, Israël potestas eius_».
  • Da' quali, se noi guarderemo a quello che la lettera suona solamente,
  • vedremo esserci significato l'uscimento de' figliuoli di Israel
  • d'Egitto al tempo di Moisé; e se noi guarderemo alla alligoria,
  • vedremo esserci mostrata la nostra redenzione fatta per Cristo; e se
  • noi guarderemo al senso morale, vedremo esserci mostrata la
  • conversione dell'anima nostra dal pianto e dalla miseria del peccato
  • allo stato della grazia; e se noi guarderemo al senso anagogico,
  • vedremo esserci dimostrato l'uscimento dell'anima santa dalla
  • corruzione della presente servitudine alla libertá della gloria
  • eternale. E cosí come questi sensi mistici sono generalmente per vari
  • nomi appellati, tutti nondimeno si possono appellare «allegorici»,
  • conciosiacosaché essi sieno diversi dal senso litterale o vero
  • istoriale: e questo è, percioché «allegoria» è detta da un vocabolo
  • greco, detto «_aileon_», il quale in latino suona «alieno», ovvero
  • diverso; e perciò dissi questo libro esser poliseno, percioché tutti
  • questi sensi, da chi tritamente volesse guardare, gli si potrebbono in
  • assai parti dare]. E per questo, agutamente pensando, forse potremmo
  • del presente libro dir quello che san Gregorio dice, nel proemio de'
  • suoi _Morali_, della Santa Scrittura, cosí scrivendo: «_Sacra
  • Scriptura locutionis suae morem transcendit, quia in uno eodemque
  • sermone dum narrat textum prodit mysterium, et sic mysterio sapientes
  • exercet, sic superficie simplices refovet. Habet in publico unde
  • parvulos nutriat, servat in secreto unde mentes sublimium in
  • admiratione suspendat. Quasi quidem quippe est fluvius, ut ita
  • dixerim, planus et allus, in quo et agnus ambulet, et elephans
  • natet_», ecc.; percioché, recitando della presente opera la corteccia
  • litterale, con quella insieme narriamo il misterio delle cose divine e
  • umane, sotto quella artificiosamente nascose, e in questa maniera
  • intorno al senso allegorico si possono i savi esercitare, e intorno
  • alla dolcezza testuale nudrire i semplici, cioè quelli li quali ancora
  • tanto non sentono, che essi possano al senso allegorico trapassare:
  • cosí possiam vedere questo libro avere in publico donde nutrir possa
  • gl'ingegni di quegli che meno sentimento hanno, e donde egli sospenda
  • con ammirazione le menti de' piú provetti. E ancora, quantunque alla
  • Sacra Scrittura del tutto agguagliar non si possa, se non in quanto di
  • quella favelli, come in assai parti fa, nondimeno, largamente
  • parlando, dir si può di questo, quello esserne che san Gregorio
  • afferma di quello: cioè questo libro essere un fiume piano e profondo,
  • nel quale l'agnello puote andare e il leofante notare, cioè in esso si
  • possono i rozzi dilettare e i gran valenti uomini esercitare.
  • Ma, avendo giá l'una delle due parti in questo primo canto mostrata,
  • cioè come quegli, che di minor sentimento sono, si possano intorno al
  • senso litterale non solamente dilettare, ma ancora e nudrire e le lor
  • forze crescere in maggiori; è da dimostrare la seconda, intorno alla
  • quale si possano gl'ingegni piú sublimi esercitare: la qual cosa si
  • fará aprendo quello che sotto la crosta della lettera sta nascoso.
  • Intorno alla qual cosa sono da considerare, quanto è alla prima parte
  • del presente canto, dieci cose: delle quali la prima será il veder
  • quello che il nostro autore voglia sentire per lo sonno, il quale dice
  • che ricordar nol lascia come nella selva oscura s'entrasse; la
  • seconda, come noi in questo sonno ci leghiamo; la terza, qual fosse la
  • diritta via la quale per questo sonno dice d'avere smarrita; la
  • quarta, qual cosa potesse essere quella che il movesse a ravvedersi
  • che esso avesse la diritta via smarrita; la quinta, perché piú nel
  • mezzo del cammino di nostra vita che in altra etá; la sesta, quello
  • che egli intenda per quella selva tanto oscura e malagevole, quanto
  • dimostra esser quella nella quale dice si ritrovò; la settima, perché
  • piú nel principio del dí che ad altra ora scriva d'essersi ravveduto;
  • la ottava, quello che vuole s'intenda per li raggi del sole
  • apparitigli e per lo monte nella sommitá del quale gli apparvero; la
  • nona, quello che esso senta per la considerazione avuta, poi che
  • alquanto la paura gli cessò; la decima, quello che noi dobbiam sentire
  • per le tre bestie le quali lo impedivano a salire al monte. E, queste
  • vedute, procederemo alla seconda parte del presente canto.
  • La prima cosa, la qual dissi si voleva investigare, accioché il senso
  • allegorico, nascoso sotto la lettera della prima parte di questo
  • canto, si manifesti, è quello che il nostro autore voglia sentire per
  • lo sonno, il qual dice che ricordar nol lascia come egli entrasse
  • nell'oscura selva. Ad evidenzia della quale è da sapere che 'l sonno,
  • che alla presente materia appartiene, è di due maniere: l'una è sonno
  • corporale, l'altra è sonno mentale. Il sonno corporale si può in due
  • maniere distinguere. Delle quali l'una è naturale, e puossi dire esser
  • quella la quale naturalmente in noi si richiede in nudrimento e
  • conservazione della nostra sanitá: il quale, occupandoci, lega e quasi
  • oziose rende tutte le nostre forze (ovvero potenze) sensitive e le
  • intellettive, percioché, perseverante esso, né sentiamo né intendiamo
  • alcuna cosa; di che a' morti simili divegnamo. Ma, poi che la natura
  • ha preso per la sua indigenza quello che l'è opportuno a restaurazione
  • delle virtú faticate nella vigilia e in conforto della vegetativa
  • virtú, eziandio senza essere da alcuno escitati, da questo per noi
  • medesimi ci sciogliamo. E di questo alcuna cosa piú distesamente
  • diremo nel principio del quarto canto del presente libro. L'altra
  • maniera del corporal sonno è quella, dalla quale vinta ogni corporal
  • potenza, si separa l'anima dal corpo, e senza alcuna cosa sentire o
  • potere o sapere, immobili giacciamo, e giaceremo infino al dí
  • novissimo, senza poterci levare. E di questo intende il salmista,
  • quando dice: «_Cum dederit dilectis suis somnum_».
  • Il sonno mentale, allegoricamente parlando, è quello quando l'anima,
  • sottoposta la ragione a' carnali appetiti, vinta dalle concupiscenze
  • temporali, s'addormenta in esse, e oziosa e negligente diventa, e del
  • tutto dalle nostre colpe legata diviene, quanto è in potere alcuna
  • cosa a nostra salute operare. E questo è quel sonno, dal quale ne
  • richiama san Paolo, dicendo: «_Hora est iam nos de somno surgere_». E
  • questo sonno può essere temporale e può esser perpetuo. Temporale è
  • quando ne' peccati e nelle colpe nostre inviluppati dormiamo; e il
  • salmista dice: «_Surgite postquam sederitis, qui manducatis panem
  • doloris_»; e in altra parte san Paolo, dicendo: «_Surge, qui dormis,
  • et exurge a mortuis, et illuminabit te Christus_». E talvolta avviene
  • per sola benignitá di Dio che noi ci risvegliamo, e, riconosciuti i
  • nostri errori e le nostre colpe, per la penitenzia levandoci, ci
  • riconciliamo a Dio, il quale non vuole la morte dei peccatori; e, a
  • lui riconciliati, ripognamo, mediante la sua grazia, la ragione, sí
  • come donna e maestra della nostra vita, nella suprema sedia
  • dell'anima, ogni scellerata operazione per lo suo imperio scalpitando
  • e discacciando da noi. Perpetuo è quel sonno mentale, il quale, mentre
  • che ostinatamente ne' nostri peccati perseveriamo, ne sopraggiugne
  • l'ora ultima della presente vita, e in esso addormentati, nell'altra
  • passiamo, lá dove, non meritata la misericordia di Dio, in sempiterno
  • coi miseri in tal guisa passati, dimoriamo. Li quali si dicon «dormire
  • nel sonno della miseria», in quanto hanno perduto il poter vedere,
  • conoscere e gustare il bene dello 'ntelletto, nel qual consiste la
  • gloria de' beati. È adunque questo sonno mentale quello del quale il
  • nostro autor vuole che qui allegoricamente s'intenda; nel qual,
  • ciascuno che si diletta piú di seguir l'appetito che la ragione, è
  • veramente legato, e ismarrisce, anzi perde la via della veritá, alla
  • quale in eterno non può ritornare.
  • La seconda cosa che era da vedere dissi che era come noi in questo
  • sonno mentale ci leghiamo. E, percioché i lacciuoli sono infiniti, li
  • quali la carne, il mondo e 'l dimonio tendono alla nostra sensualitá,
  • pienamente dire non se ne potrebbe per lingua d'uomo; ma ad un de'
  • modi, il quale è quasi universale, riducendoci, dico che, dalla nostra
  • puerizia, noi il piú dirizziamo i piedi, cioè le nostre affezioni, in
  • questi lacci, e, quasi non accorgendocene (percioché piú i sensi che
  • la ragione abbiamo allora per guida), sí c'inveschiamo, che poi o non
  • ci sciogliamo da quegli, o non senza grande difficultá, volendo, ce ne
  • sviluppiamo. A questa etá i nostri tre predetti nemici con ogni
  • sollecitudine stendono le reti loro. E la ragione è questa: l'etá,
  • come detto è, è tenera e nuova e vaga, e la sensualitá è in essa
  • fortissima, percioché la ragione non v'è ancora assai perfetta; e,
  • secondo che pare che la esperienza ne dimostri, dalla gola, alla quale
  • quella etá è inchinevole, par che prenda inizio la nostra ruina. E la
  • ragione pare assai manifesta: sono generalmente i fanciulli vaghi del
  • cibo, sospignendogli a ciò la natura che il suo aumento disidera; e
  • gustando, come spesso avviene, le saporite e dilicate vivande e i vini
  • esquisiti, a pian passo procedendo ed ausando il gusto a quello che
  • non gli bisognerebbe, cominciano, quantunque piccoli e fanciulli
  • sieno, ad aver men cari quegli cibi, che, quantunque rozzi, soleano
  • satisfare alla fame e alla sete loro, e i piú preziosi desiderano e
  • domandano, e dal disiderio ad ottenergli si sforzano; e con questo
  • nella etá piú piena procedendo, quasí come da naturale ordine tirati,
  • nel vizio della lussuria discorrono. Questa, la quale non solamente i
  • giovani, ma i vecchi fa se medesimi sovente dimenticare, loro con
  • tante e tali lusinghe diletica, che, potendo all'appetito la vigorosa
  • etá dell'adolescenza sodisfare, con ogni pensiero e con ardentissima
  • affezione quello vituperevole diletto seguendo, tutti si mettono. E
  • quinci, per compiacere, negli ornamenti del corpo discorrono, non
  • altrimenti assai sovente ornandosi, che se vender si volessono al
  • mercato de' poco savi. Le quali cose, percioché senza denari esercitar
  • pienamente non si possono, gli sospingono nel disiderio d'aver denari,
  • e, per quegli ogni coscienza posposta, senza alcuna difficultá ad ogni
  • disonesto guadagno si dispongono, e quinci giucatori, ladri,
  • barattieri, simoniaci, ruffiani e disleali divengono. E giá ad etá piú
  • piena d'anni venuti, veggendo gli onori, la pompa, la potenza e la
  • grandigia de' re, de' signori, de' gran cittadini, di quegli
  • s'accendono, e quinci invidiosi, superbi, crudeli e ambiziosi
  • divengono. Le quali cose, e altre molte, cosí successivamente, e
  • talora con altro ordine cresciute, e multiplicate e abituate in noi,
  • nel sonno della oblivione dei comandamenti di Dio ci legano e tengon
  • sí stretti, che, quasi convertite in natura, per romore che fatto ci
  • sia in capo, destare non ci lasciano. Le quali cose accioché a'
  • lacedemoni avvenir non potessero, per legge comandò Licurgo che i lor
  • figliuoli, ecc. (vedi Giustino, nel terzo libro, poco dopo il
  • principio). [Né è mia intenzione il modo da addormentare i miseri nel
  • sonno de' peccati lasciare.] Percioché molti aguati hanno gli
  • avversari nostri, con li quali, se creduti sono, ogni matura e robusta
  • etá adoppiano: ma perciò mi piacque far singular menzione di questa,
  • perché, in questo modo presi, ci abituiamo ne' peccati; e por giú
  • l'abito preso è difficilissimo; e, se pur si rimuove l'uomo talvolta
  • dal peccare, con molta meno difficultá v'è rivocato colui che abituato
  • vi fu, che colui che non vi fu abituato, e alcuna volta da essa
  • memoria delle colpe giá commesse v'è ritirato.
  • La terza cosa, la qual dissi era da cercare, è di veder qual sia la
  • via la quale l'autore dice d'avere per questo sonno smarrita. Egli è
  • il vero che le vie son molte, ma tra tutte non è che una che a porto
  • di salute ne meni, e quella è esso Iddio, il quale di sé dice
  • nell'Evangelio: «_Ego sum via, veritas et vita_»; e questa via tante
  • volte si smarrisce (dico «smarrisce», perché poi chi vuole la può
  • ritrovare, mentre nella presente vita stiamo), quante le nostre
  • iniquitá dai piaceri di Dio ne trasviano, mostrandoci nelle cose
  • labili e caduche esser somma e vera beatitudine. E questa via, per la
  • quale i nostri avversari ci ritorcono, danna il salmista, dicendo:
  • «_Beatus vir qui non abiit in consilio impiorum, et in via peccatorum
  • non stetit_», ecc.; ed in altra parte dice pregando: «_Viam
  • iniquitatis amove a me, et in lege tua miserere mei_». Chiamasi ancora
  • la vita presente «via»; e di questa dice il salmista: «_Beati
  • immaculati in via_»; e in altra parte: «_De torrente in via bibit_».
  • Ma, come detto è, accioché di molt'altre lasciamo istare il ragionare,
  • la prima è quella per la quale, se la gloria eterna vogliamo, ci
  • conviene andare: e da questa si smarrisce ciascuno il quale nel sonno
  • de' peccati si lega. E, percioché, come di sopra è mostrato,
  • lusinghevolmente sottentrano i vizi, e cominciano in etá nella quale
  • pienamente conosciuti non sono, dice l'autore non ricordarsí come
  • questa via diritta abbandonasse. E credibile è. Chi sará colui che
  • pienamente della origine delle sue colpe si possa ricordare?
  • Conciosiacosaché esse vengano con diletto della sensualitá, e, quel
  • passato, quasi state non fossero, leggiermente in dimenticanza si
  • mettono.
  • La quarta cosa, la qual propuosi da essere da investigare, fu qual
  • cosa potesse esser quella che l'autor movesse a ravvedersi che esso
  • avesse la diritta via smarrita. E questa, senza alcun dubbio, si dee
  • credere che fosse la grazia di Dio, il quale ci ama assai piú che non
  • ci amiamo noi medesimi, e sempre è alla nostra salute sollecito; il
  • che assai bene ne mostra Giovenale, dicendo:
  • _Nam pro iocundis aptissima quaeque dabunt dii:
  • carior est homo illis, quam sibi_, ecc.
  • Ma, accioché noi cognosciamo qual fosse la grazia di Dio, dalla quale
  • l'autore tócco si movesse a destarsi del sonno mortale, nel quale la
  • mente sua era legata, e a ravvedersi in qual pericolo fosse l'anima
  • sua è da sapere, sí come il «maestro delle sentenze» afferma, esser
  • quattro grazie quelle che la divina bontá ci presta alla nostra
  • salute: delle quali la prima è chiamata grazia «operante», della quale
  • dice san Paolo: «Per la grazia di Dio io sono quello che io sono»; la
  • seconda grazia si chiama grazia «cooperante», e di questa dice san
  • Paolo medesimo: «La grazia di Dio non fu in me vacua»; la terza grazia
  • si chiama «perseverante», della qual dice il salmista: «_Et
  • misericordia eius subsequatur me omnibus diebus vitae meae_»; la
  • quarta grazia si chiama «salvante», della quale si legge
  • nell'Evangelio: «_De plenitudine eius omnes accepimus gratiam per
  • gratiam_». Fa adunque la prima grazia, del malvagio uomo, buono, sí
  • come nel _Libro della sapienza_ si scrive: «_Verte ipsum, et non
  • erit_»; e san Paolo dice: «_Fuistis aliquando tenebrae, nunc autem lux
  • in Domino_». La seconda, cioè la cooperante, fa del buono, migliore; e
  • di ciò dice il salmo: «_Ibunt de virtute in virtutem_». La terza, cioè
  • la perseverante, ne trasporta della via nella patria, della quale dice
  • l'Evangelio: «_Qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit_»;
  • nell'_Apocalissi_ si legge: «_Quicumque vicerit, dabo ei edere de
  • ligno vitae, quod est in paradiso Dei mei_»; e in altra parte
  • nell'_Apocalissi_ medesimo: «_Quicumque vicerit, faciam illum columnam
  • in templo Dei mei_». La quarta, cioè la salvante, secondo i meriti
  • guiderdona i faticanti; di che l'Evangelio dice: «_Quid hic statis
  • quotidie ociosi? ite et vos in vineam meam, et quod iustum fuerit dabo
  • vobis_»; e san Paolo: «_ut recipiat unusquisque secundum ea quae
  • fecit_». Di queste quattro grazie, delle quali ho alquanto parlato,
  • percioché piú volte nel processo di questo libro se n'ará a ragionare,
  • piú diffusamente se ne vorrebbe esser detto; nondimeno questo basti al
  • presente. E dico che la prima grazia senza alcun merito di colui che
  • la riceve si dona; di che dice san Paolo: «_Non secundum opera quae
  • fecimus nos, sed secundum suam misericordiam salvos nos fecit_». Le
  • qualitá delle quali grazie considerate, assai manifestamente appare la
  • prima delle quattro essere stata quella che al nostro autore (e
  • similemente a ciascun altro che in simile caso si truova), fu
  • conceduta da Dio, per la quale esso il suo misero stato conobbe.
  • Ma potrebbe alcun domandare: in che maniera tocca Domeneddio i
  • peccatori con questa sua grazia? Le maniere son molte, percioché a
  • tanto artefice, quanto Iddio è, non mancò mai modo a quello che egli
  • volesse adoperare. Dice il salmista: «_Dixit et facta sunt: mandavit
  • et creata sunt_». Esso primieramente alcuna volta con visioni tocca le
  • menti di coloro che di questa grazia hanno bisogno, sí come noi
  • leggiamo di Costantino imperadore, il quale, dormendo, vide san Pietro
  • e san Paolo, e il loro ammaestramento udí, e poi si destò dal corporal
  • sonno e dal mentale, quello seguí, e gli errori del paganesimo tutti
  • da sé cacciò. Tocca alcuna volta con aperta visione, come fece san
  • Paolo quando andava a Damasco; e fu di sí fatta forza questo
  • toccamento, che esso divenne subitamente, di lupo, agnello e vaso di
  • elezione pieno di Spirito santo. Tocca ancora co' suoi messaggeri, sí
  • come fece David, il quale per l'omicidio d'Uria e per l'adulterio
  • commesso in Bersabé, essendosi dal suo piacer partito, mandatogli
  • Nathan profeta, il fece riconoscere; il quale, piangendo, e in quel
  • salmo allora da lui composto, cioè «_Miserere mei, Deus_», la sua
  • misericordia addomandando, impetrò del commesso perdonanza; e
  • similemente Ezechia re, nunziatagli per comandamento di Dio da Isaia
  • profeta la sua morte, pianse e pregò, e impetrò quindici anni di vita.
  • Tocca ancora con tribulazioni intorno alle cose mondane; perché gli
  • uomini, sentendosi affliggere nella perdita de' figliuoli e delle
  • possessioni, delle mercatanzie, degli stati e di simili cose, quasi
  • desti dal mortal sonno si ritornano verso Iddio, e ingegnansi d'uscire
  • della via delle tenebre e tornare alla luce. E quantunque saper non
  • possiamo qual si fosse, di queste o forse d'alcuna altra, la maniera
  • con la quale la grazia di Dio toccò l'autore addormentato dal sonno
  • mentale, credesi nondimeno per molti che da tribulazioni fosse tócco;
  • giá aveggendosi in questo tempo, nel quale la presente opera
  • incominciò, di quello che poi quasi a mano a mano gli avvenne, cioè di
  • dover perdere lo stato suo, e di dovere andar in esilio, e di dovere
  • nelle proprie cose ricever danno. Per la qual cosa, da questa grazia
  • operante tócco, cominciò a pensare, e pensando a conoscere le cose
  • presenti non avere alcuna stabilitá, esser piene d'invidia e di
  • pericoli, e nulla altra cosa in sé aver fermezza se non il servire e
  • amare Iddio. Dal quale pensiero fu cominciata a rompere la nuvola
  • della ignoranza, la quale infino a quella ora l'avea occupato, e
  • cominciò a conoscere la miseria dello stato de' peccati, e ad
  • avvedersi in quanti e quali fosse inviluppato, e in quanto pericolo
  • esso fosse lungamente dimorato d'andare ad eterna perdizione.
  • La quinta cosa, che dissi era da vedere, è perché piú nel mezzo della
  • nostra vita che in altra etá questo avvenisse. Intorno alla qual cosa
  • è da sapere questo vocabol «mezzo» potersi prendere in due modi. L'un
  • modo è quello che nella esposizione litterale dicemmo, cioè puntale;
  • il quale mezzo è dirittamente quel punto che igualmente è distante a
  • due estremitá. Verbigrazia: egli è una verga lunga due braccia, cioè
  • dall'una estremitá della verga all'altra sono due braccia; per che il
  • mezzo puntale di questa verga sara lá dove, dall'una estremitá
  • cominciandosi e andando verso l'altra la lunghezza d'un braccio, lá
  • dove egli finirá, sia puntalmente il mezzo di questa verga. E possiamo
  • ancor dire il mezzo puntale esser quel punto il quale la sesta fa,
  • quando alcun cerchio discriviamo; percioché questo in ogni parte del
  • cerchio è igualmente distante dalla circunferenza. La seconda maniera
  • del mezzo s'intende assai sovente ciò che si contiene intra due
  • estremi, o infra la circunferenza del cerchio; sí come Niccolaio di
  • Tamech sopra il Tito Livio dice che Arno è un fiume posto nel mezzo
  • tra Fiesole e Arezzo; e in alcun luogo dice la Scrittura, Ierusalem
  • essere nel mezzo del mondo: per lo qual mezzo molti intendono il mezzo
  • puntale, e ciò, come i geometri sanno, non è vero. E perciò in questa
  • parte è da prendere la parola dell'autore, quanto alla persona sua,
  • per lo mezzo puntale; percioché, come di sopra mostrammo, egli era di
  • etá di trentacinque anni, ch'è il mezzo puntale della vita nostra,
  • quando, tócco dalla grazia di Dio, si ravvide dove l'aveva la
  • ignoranza menato. Ma, percioché a ciascuno uomo, in che etá egli si
  • sia, può avvenire, anzi avviene tutto il dí, che, abbandonata la via
  • della veritá, s'entra ne' vizi, e similemente, per la grazia di Dio,
  • il ravvedersi; si può per gli altri, i quali in altra etá che l'autore
  • si ravveggono, intender questo mezzo quello spazio che è posto in fra
  • il dí della nostra nativitá e il dí della morte. E puossi quel mezzo
  • il quale per l'autore s'intende, che è intorno all'etá de'
  • trentacinque anni, moralmente prendere, secondo che in quella etá ogni
  • corporale virtú è a sua perfezion venuta; e cosí, in qualunque tempo
  • l'uomo si ravvede del suo mal vivere e al ben vivere si converte, si
  • può dire ogni potenzia animale esser venuta in perfetta virtú; e cosí
  • nella buona disposizione, aiutato dalla grazia cooperante,
  • perseverando, va di questa virtú in altra maggiore, e di quell'altra
  • in un'altra, tanto che egli perviene dove ciascun discreto disidera al
  • suo fine di venire.
  • La sesta cosa, la qual dissi che era da investigare, era quello
  • ch'egli intendesse per quella selva oscura e malagevole nella quale
  • dice si ritrovò. È adunque questa selva, per quello che io posso
  • comprendere, lo 'nferno, il quale è casa e prigione del diavolo, nella
  • quale ciascun peccatore cade ed entra, sí tosto come cade in peccato
  • mortale. E che ella sia lo 'nferno, la discrizion di quella il
  • dimostra assai chiaro, in quanto dice che ella era «oscura», cioè
  • piena d'ignoranza (il che assai chiaro ne mostra Isaia quando dice:
  • «_Erravimus a via veritatis, et sol iustitiae non illuxit nobis_»),
  • considerata la qualitá di coloro che in essa dimorano: peroché, se in
  • loro fosse alcuna luce di sapienza, non è alcun dubbio che non
  • cercasson tantosto d'uscirne. E chi è piú ignorante che colui il
  • quale, potendo schifare il fare contro a' comandamenti del suo
  • Creatore (ché può ciascun che vuole), si lascia tirare alle lusinghe
  • della carne e del mondo e alle fallacie del dimonio? o che pure,
  • veggendosi per la nostra fragilitá tirato, non si sforza, avendo la
  • via, d'uscirne, ma, aggiugnendo l'una colpa sopra l'altra, piú se
  • medesimo inviluppa, e fa col continuo peccare piú tenebroso il suo
  • intelletto e piú forti le catene del suo avversario? Dice, oltre a
  • ciò, questa selva essere «selvaggia», sí come del tutto strana da ogni
  • abitazione umana: percioché nella prigion del diavolo, nella quale noi
  • medesimi peccando ci mettiamo, non è alcuna umanitá, né pietá, né
  • clemenzia, anzi è piena di crudelitá, di bestialitá e di iniquitá. Né
  • osta il dire: egli v'abitano gli uomini peccatori; percioché questo
  • non è vero; ché, come l'uomo ha commesso il peccato, egli diventa
  • quella bestia, li cui costumi son simili a quel peccato. Verbigrazia:
  • colui che nel vizio della lussuria si lascia cadere, percioché la
  • lussuria per la sua bruttezza è simigliata al porco, esso diventa
  • porco, quantunque effigie umana gli rimanga; e il rapace diventa lupo,
  • perché il lupo è rapacissimo animale: e cosí quello luogo è salvatico,
  • sí come privato d'ogni umana stanza. È, oltre a questo, «aspra» per le
  • spine, per li triboli e per gli stecchi, cioè per le punture de'
  • peccati, li quali, continuamente dai morsi della coscienza infestati,
  • dolorosamente pungono il peccatore. Ed è «forte», in quanto
  • tenacissimi sono i legami del diavolo, e massimamente negli ostinati,
  • li quali, poi che nel profondo delle colpe caduti sono, della divina
  • misericordia disperandosi, disprezzano Iddio e turano gli orecchi alli
  • ammonimenti de' giusti uomini e alla evangelica dottrina. E, per
  • queste qualitá, a colui il qual è tócco dalla divina grazia, ella pare
  • (e cosí è), piena di tanta amaritudine, che poco piú è la morte
  • eternale, nella quale alcuna dolcezza non s'aspetta giammai.
  • Nondimeno dice l'autore alcun bene aver trovato in essa. Per lo qual
  • bene niun'altra cosa credo che sia da intendere, altro che la
  • misericordia di Dio, la quale non ha luogo che ne' giusti s'adoperi; e
  • cosí ne' peccatori è tanto necessaria, che, se essa non fosse, alcun
  • nostro merito né lagrima mai potrebbe sodisfare alla divinitá, del
  • peccato commesso. Ella adunque è quella, che, nella oscuritá della
  • nostra ignoranza e delle nostre colpe, colle braccia aperte si trova
  • presta a non guardare a' difetti commessi, ma solamente alla buona
  • affezione di chi a lei rivolger si vuole per doverla ricevere; questa
  • è quella, la cui benignitá riguardata, a sé dalla disperazion ci
  • ritira. Della quale, sí come di bene trovato lá ove ella è opportuna,
  • l'autore dice di voler trattare, sí come fa nel libro secondo della
  • presente _Commedia_, nel quale pienamente si posson comprendere e la
  • sua santissima liberalitá e pietosi effetti verso i peccatori,
  • quantunque essi abbiano incontro ad essa operato.
  • La settima cosa dissi era da vedere perché piú nel principio del dí
  • scriva l'autore d'essersi ravveduto che ad altra ora. Puossi intorno a
  • questa parte dire, quanto gli uomini involti ne' peccati dimorano,
  • tanto dimorare nelle tenebre della notte, cioè della ignoranzia; la
  • quale, come la notte toglie il poter conoscere o vedere le cose,
  • quantunque nel cospetto ci sieno, cosí toglie il cognoscere il vero
  • dal falso e le cose utili dalle dannose. E perciò, qualora avviene che
  • la grazia di Dio operante tocca il peccatore ed è da lui ricevuta,
  • cosí comincia a tornar la luce della conoscenza di Dio e di se
  • medesimo e del suo stato; e ognora che la luce apparisce, è di
  • necessitá che le tenebre della notte cessino; ed in quella ora che le
  • tenebre cessano, sí come manifestamente appare, è principio del dí, e
  • massimamente a colui il quale abbandona la notte della ignoranza,
  • sollecitato e sospinto dalla divina grazia. E di questo dice Osea
  • profeta in persona di Cristo: «_In tribulatione sua mane consurgent ad
  • me_». Ed il peccatore d'altra parte, come agli occhi dell'intelletto
  • gli apparisce la divina luce, giá le sue malvage operazioni
  • cominciando a cognoscere, può dire quelle parole del salmista: «_Mane
  • adstabo tibi et videbo: quoniam non Deus volens iniquitatem tu es_».
  • Dunque congruamente finge l'autore di mattina essere stato questo
  • ravvedimento, per lo quale si conobbe essere nella oscura selva dei
  • peccati e della ignoranza.
  • L'ottava cosa dissi era da vedere quello che l'autor vuol intendere
  • per lo sole che sopra il monte vide e per lo monte. Per li monti
  • intende la Scrittura di Dio spesse fiate gli apostoli; e questo,
  • percioché, come i monti son quegli che prima ricevono i raggi del sole
  • materiale surgente, cosí gli apostoli furono i primi che ricevettero i
  • raggi, cioè la dottrina del vero sole, cioè di Gesú Cristo, il quale è
  • veramente sole di giustizia e luce, la quale illumina ciascuno che
  • viene in questo mondo. E che esso sia vero sole, per molte ragioni si
  • dimostrerebbe, le quali al presente per brevitá ometto. E, secondo che
  • io estimo, nell'autore, sentita la grazia di Dio, venne quel
  • desiderio, il quale si dee credere che vegna in ciascuno il quale
  • quella grazia in sé riceve: cioè di conoscere pienamente le colpe sue,
  • e qual via dovesse tenere per poter venire a salute; ed occorsegli
  • nella mente alcuna dottrina non potergli in questo suo disiderio
  • satisfare, come l'apostolica; rammemorandosi delle parole del
  • salmista, dove, parlando di loro, dice: «_Non sunt loquelae, neque
  • sermones, quorum non audiantur voces eorum. In omnem terram exivit
  • sonus eorum, et in fines orbis terrae verba eorum_». E però, fuggendo
  • la confusione delle tenebre del peccato, si può dire dicesse, come
  • talvolta disse il salmista: «_Levavi oculos meos in montes, unde
  • veniet auxilium mihi_»; volendo in questo dire che egli levasse gli
  • occhi della mente alle Scritture e alla dottrina apostolica, dalla
  • quale sperava dovere avere aiuto al suo bisogno. Ed accioché questa
  • speranza gli si fermasse nel cuore, dice che vide la sommitá di questo
  • monte coperta de' raggi del pianeta, cioè del sole, a dimostrare che
  • essa dottrina apostolica sia illuminata del lume dello Spirito santo,
  • il quale veramente mena altrui diritto per ogni calle; cioè, da che
  • che colpa l'uom si parte, egli è da lui menato in porto di salute. E
  • che la dottrina degli apostoli sia santa e veramente piena de' doni
  • dello Spirito santo, appare per le parole d'Isaia, dove dice:
  • «_Requiescet super eum spiritus timoris Domini, spiritus sapientiae et
  • intellectus, spiritus consilii et fortitudinis, spiritus scientiae et
  • pietatis, et replebit cum spiritus timoris Domini_». Per che l'autore,
  • e qualunque altro, veggendosi cosí fatto rifugio apparecchiato
  • davanti, dove prender lo voglia, puote meritamente sperare, e,
  • sperando, minuire la paura della morte eterna, nella quale il fanno
  • dimorare le catene del diavolo, mentre in esse dimora legato. E, oltre
  • a ciò, veggendo sopra questo monte il sole scacciatore delle tenebre
  • eterne, e il quale è toglitore de' peccati, sí come noi di lui
  • leggiamo: «_Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi_»; puote
  • ancora maggiormente sperar salute, sospinto dalle parole d'Isaia, il
  • quale dice: «_Vobis, qui timetis Deum, orietur sol iustitiae_». E
  • perciò meritamente l'autore, conosciuto, lá dove era, esser valle di
  • miseria, sí si sforza di partir di quella e di voler salire al monte,
  • cioè alla dottrina della veritá, e a Colui il quale puote liberare
  • ciascuno, che con affetto vuole, delle mani dello 'nferno.
  • [Lez. VI]
  • La nona cosa, la qual dissi considerar si volea, era quello che
  • l'autor sentisse per la considerazione avuta, poi che alquanto la
  • paura gli cessò; e appare per le sue parole essere stata del pericolo,
  • nel quale si vedeva essere stato la passata notte: per la quale
  • dobbiamo intendere il primiero atto dell'animo di colui che la passata
  • miseria della sua vita comincia a cognoscere. Il quale veramente non è
  • altro che paura, e spezialmente avendo egli spazio e alcuna luce di
  • sentimento, per la qual possa discernere quante e quali possano essere
  • state quelle cose che in quelle miserie l'avrebbono, ciascuna per se
  • medesima, potuto far morire di perpetua morte: e massimamente
  • cognoscendo la ingratitudine sua verso Iddio, dal quale infiniti
  • benefici ha ricevuti, cognoscendo la sua giustizia, la quale, passato
  • il tempo della misericordia, è irrevocabile, né si può, come quella
  • de' mortali giudici, con prieghi né con lagrime piegare, né corromper
  • con doni o con eccezioni prolungare. Dalla quale considerazione si
  • levan presti coloro, li quali invano non ricevono la divina grazia, e
  • per la diserta piaggia a salire al monte muovono i passi loro. E dice
  • «diserta», percioché ancora è sterile e senza alcun virtuoso frutto
  • l'anima di colui che pure ora ora comincia a partirsi della via del
  • peccato.
  • La decima cosa, la quale da essere cercata dissi, è quello che noi
  • dobbiamo sentire per le tre bestie, le quali l'autor mostra che
  • impedivano il suo cammino. [Ed intorno a questo è da considerare
  • queste bestie altrimenti doversi intendere avendo riguardo solamente
  • all'autore, e altrimenti avendo riguardo generalmente a ciascun
  • peccatore, che vuole alla via della veritá ritornare, percioché non
  • ogni uomo igualmente è da una medesima passione impedito: e perciò
  • avviso l'autor ponesse quello che a lui sentiva s'appartenesse e di
  • che piú si conosceva passionato. E però primieramente quello dirò
  • ch'io sentirò per queste tre bestie appartenere all'autore; poi, se
  • niuna cosa v'avrò da mutare per riducerle al senso spettante
  • all'universitá dei peccatori, come saprò, il farò e dimostrerò].
  • Dice adunque che, essendo nella predetta meditazione, diliberato di
  • lasciare la valle oscura e di salire al monte luminoso e chiaro, cioè
  • alla dottrina apostolica ed evangelica, essere state tre bestie quelle
  • che il suo salire impedivano: una leonza, o lonza che si dica, e un
  • leone e una lupa. Le quali, quantunque a molti e diversi vizi adattare
  • si potessono, nondimeno qui, secondo la sentenzia di tutti, par che si
  • debbano intendere per questi: cioè per la lonza il vizio della
  • lussuria, e per lo leone il vizio della superbia, e per la lupa il
  • vizio dell'avarizia. E, percioché io non intendo di partirmi dal
  • parere generale di tutti gli altri, verrò a dimostrare come questi
  • animali a' detti vizi si possono appropriare; e poi, se all'autore
  • parrá di dovergli attribuire, rimangasi nello arbitrio di ciascuno.
  • Sono adunque nella lonza, tra l'altre molte, quattro singolari
  • proprietá: ella primieramente è leggierissima del corpo, tanto, o piú,
  • quanto alcun altro quadrupede sia; appresso, la sua pelle è leccata,
  • piana e di molte macchie dipinta; oltre a questo, ella è
  • maravigliosamente vaga del sangue del becco; ultimamente, ella è di
  • sua natura crudelissimo animale.
  • Le quali quattro proprietá, secondo il mio giudicio, sono mirabilmente
  • conformi al vizio della carne: percioché la sua leggerezza è a
  • dimostrare la levitá degli animi di quelle persone o che con
  • l'appetito o che attualmente con esso vizio s'inviscano; imperoché
  • essi alcuna volta ardon tutti, da fervente disiderio della cosa amata
  • accesi, e alcun'altra son piú freddi che la neve, cessando punto la
  • speranza della cosa amata; e quasi in un momento ridono e cantano, e
  • lamentansi e piangono, e cosí insuperbiscono subito, e subitamente
  • diventano umili; ora turbati garrono e gridano, e di presente mitigati
  • lusingano. Le quali levitá ottimamente discrive Plauto in una sua
  • commedia chiamata _Cistellaria_, dove un giovane, piú che uopo non gli
  • era, invescato in questa pania, dice cosí:
  • _Credo ego amorem primum apud homines carnificinam commentum, hanc ego
  • de me coniecturam domi facio, ne foras quaeram, qui omnes homines
  • supero, atque antideo cruciabilitatibus animi. Iactor, crucior,
  • agitor, stimulor, vexor vi amoris totus, miser._ _Exanimor, feror,
  • differor, distrahor, diripior: ita nullam mentem animi habeo: ubi sum,
  • ibi non sum: ubi non sum, ibi est animus: ita mihi omnia ingenia sunt.
  • Quod lubet, non lubet iam id continuo. Ita me amor lassum animi
  • ludificat, fugat, agit, appetit, raptat, retinet, iactat, largitur:
  • quod dat, non dat: deludit: modo quod suasit, dissuadet: quod
  • dissuasit, itidem ostentat. Maritimis moribus mecum expelitur: ita
  • meum frangit amantem animum neque, nisi quia miser ne eo pessum, mihi
  • ulla abest perdito pernities,_ ecc.
  • Oltre a ciò, questo disonesto appetito è velocissimo in permutarsi, e
  • salta tosto d'una cosa in un'altra: un muover d'occhi, un atto
  • vezzoso, un riso, una guatatura soave, una paroletta accesa, una
  • lusinga, d'uno amore in un altro, come vento foglia, gli trasporta; e
  • ora avendo a schifo questa che piacque, e ora desiderando quella che
  • ancora non era piaciuta, dimostrano il lieve movimento della lor
  • mente. La infelice Didone, secondo Virgilio, per un forestiero
  • affabile, mai piú non veduto, subitamente dimenticò il lungamente e
  • molto amato Sicheo; assai bene verificando quello che l'autore, nel
  • _Purgatorio_, delle femmine dice:
  • Per lei, assai di lieve si comprende
  • quanto in femmina fuoco d'amor dura,
  • se l'occhio o 'l tatto spesso nol raccende.
  • Giasone dell'amor d'Isifile in brieve tempo saltò in quel di Medea, e,
  • lei abbandonata, poi si rivolse a Creusa. Le quali inconvenienze e
  • disordinati appetiti, assai bene convenirsi la leggerezza di questa
  • bestia co' miseri libidinosi dimostrano.
  • Appresso, la pelle sua leccata e di macchie dipinta, non meno che la
  • predetta, si confá co' costumi de' lascivi; percioché quegli, gli quali
  • da tal passione son faticati, quanto possono, o per pigliare o per
  • tenere, si studiano di piacere; per la qual cosa s'adornano di
  • vestimenti vari, pettinansi, lavansi e dipingonsi, specchiansi,
  • tondonsi, vanno e tornano, cantano, suonano, spendono, gittano, e, dove
  • di parer piú begli e piú accettevoli si sforzano, vituperevolmente di
  • disoneste ed enormi brutture si macchiano. Con queste armi e' prese e fu
  • preso Paris da Elena; con queste armi mise Dalila nelle mani de' suoi
  • nemici Sansone; con queste armi prese e irretí Cleopatra Cesare.
  • E, oltre a questo, questa bestia è maravigliosamente vaga del sangue
  • del becco. Intorno alla qual cosa si dee intendere in questo
  • dimostrarsi l'appetito corrotto di coloro li quali in questa bruttura
  • si mescolano: percioché, sí come il becco è lussuriosissimo animale,
  • cosí, per l'usare questo vizio, piú lussurioso si diviene. Per la qual
  • cosa alcuni miseramente, credendosi in cotal guisa sviluppare, non
  • accorgendosene, s'inviluppano; percioché non questo, come gli altri
  • vizi, per continuo combattimento si vince, ma per fuggire: il che
  • ottimamente dimostrarono i poeti nella scrizione della battaglia
  • d'Ercule e d'Anteo. E, oltre a ciò, il becco è fiatoso animale e
  • olido, del quale questa bestia si diletta: in che si dimostra la
  • vaghezza dei libidinosi intorno al fiatoso e abbominevole atto
  • venereo, il quale è intanto al naso e agli occhi noioso e allo
  • 'ntelletto umano, che se non fosse che la natura ha in quello posto
  • maraviglioso diletto, accioché l'umana specie per non generare non
  • venga meno, io sono d'opinione che ciascuno come fastidiosissima cosa
  • il fuggirebbe. E la dilettazione, la quale questa bestia ha del sangue
  • del becco, assai chiaro dimostra l'appetito che ciascuna delle parti
  • di quegli, che a questa turpitudine si congiungono, hanno del fine di
  • quello disonesto atto; nel quale il sangue de' miseri dannosamente
  • tante volte, quante per altro che per generare si versa, non meno
  • biasimevolmente, che se in una fetida sentina si gittasse, si perde.
  • Senza che, per questo i nervi indeboliscono, il veder ne raccorcia, i
  • membri ne diventan tremuli, e la nodosa podagra, con gravissima noia
  • di chi l'ha, tiene tutto il corpo quasi immobile e contratto; e cosí
  • non solamente se n'offende Iddio, ma ancora se ne guastano i miseri la
  • persona. Per questo convenne a Gaio Antonio, poste giú l'armi,
  • militare con l'animo dietro a Catellina; e, come che piú non me ne
  • ridica or la memoria, non è da dubitare che i passati secoli non ne
  • sieno stati cosí copiosí come veggiamo l'odierno.
  • Ultimamente dissi questo animale essere crudele, per la qual crudeltá
  • è da intendere la crudeltá di questo peccato, il quale quegli, che piú
  • con lui si dimesticano e congiungono, le piú delle volte conduce a
  • crudelissime spezie di morte. Quanti robusti giovani, quante vaghe
  • donne, mentre senz'alcun freno questo disonesto diletto hanno seguito,
  • hanno giá la lor morte, dopo faticosa infermitá, avacciata? Quanti
  • ancora, non potendo sofferire né por modo al loro fervente disiderio
  • di pervenire a quello, hanno se medesimi disonestamente disfatti? Il
  • non potere aspettare Demofonte, suo amico, condusse Fillide ad
  • impiccarsi. La miseria di questo vizio diede ad Artabano medo vittoria
  • sopra Sardanapalo. E qual porco crederem noi che uccidesse Adone altro
  • che il soperchio coito con Venere, reina di Cipri, sua moglie?
  • Bene adunque si può questa bestia dire essere la concupiscenza
  • carnale, la quale, lusinghevole insino alla morte, con tutte quelle
  • mortali dolcezze ch'ella porge, facendosi incontro alla sensualitá
  • umana, qualora l'animo, riconosciuta la tristizia di quella, da essa
  • partir si vuole e alle divine cose tornarsi, con non piccola forza
  • s'ingegna di ritenerlo, non partendoglisi dinanzi dal volto; quasi
  • voglia dire: rammemorando tutte quelle persone che giá sono state
  • amate, tutti quegli atti, tutte le parole che giá sono state piaciute;
  • le lagrime, la promessa fede, i rotti sacramenti con pietoso aspetto
  • ricordandogli; con false dimostrazioni suadendogli che questa castitá,
  • questo proponimento riserbi agli anni vecchi, e non voglia ora perdere
  • quello che mai non dee potere recuperare. Con li quali conforti, e
  • altri molti a questi simiglianti, nel quarto dell'_Eneida_ mostra
  • Virgilio essersi Didone ingegnata di ritenere Enea e dalla gloriosa
  • impresa rivolgerlo, come giá assai dal buon principio hanno rivolti al
  • doloroso fine d'eterna perdizione.
  • Questa adunque si parò davanti al nostro autore, per doverlo fare
  • nelle abbandonate tenebre ritornare; il quale dall'ora del tempo e
  • dalla dolce stagione prese speranza di vincere questo vizio oppostosi
  • alla sua salute. Per la quale ora del principio del dí credo sia da
  • prendere l'ora o 'l tempo nel quale Cristo prese carne umana; il quale
  • prender di carne, fu senza alcun dubbio il principio della nostra
  • salute il principio della riconciliazione del nostro signore Iddio con
  • la nostra umanitá, il principio del tempo accettevole, il quale per
  • tante migliaia d'anni fu aspettato. E questo, percioché in quel
  • proprio dí fu, cioè di venticinque di marzo, nel quale, sí come
  • apparirá appresso, il nostro autore dice sé essere risentito dal sonno
  • mortale. E cosí vuole adunque l'autore darne a vedere che, di ciò
  • ricordandosi, prendesse buona speranza della misericordia di Colui,
  • senza la quale non si puote avere d'alcun vizio vittoria. La stagione
  • del tempo similmente gli die' buona speranza, conoscendo che in quella
  • stagione era cominciato il tempo della grazia, e aperta la via alla
  • nostra salute, lungamente stata serrata, ed il nemico della umana
  • generazione abbattuto: per che sperar si dovea di poter similmente
  • abbattere i suoi ministri.
  • La seconda bestia, la qual si fece incontro al nostro autore, fu un
  • leone, il quale dissi essere inteso per la superbia, alla quale, come
  • egli si confaccia, ne mostreranno alcune delle sue proprietá, a quelle
  • del vizio poi equiparate. È il lione non solamente audace ma
  • temerario; e appresso è rapace e soprastante; ed è ancora altisono nel
  • ruggir suo, intanto che egli spaventa le bestie circunvicine che
  • l'odono: e, come che assai piú ce n'abbia, queste tre bastino a
  • mostrare per lui ottimamente potersi intendere il vizio della
  • superbia.
  • Dissi adunque il lione essere non solamente audace ma temerario;
  • percioché, senza misurare le forze sue, non è alcuno animale sí forte
  • (che ne sono assai piú forti di lui), il quale egli non presuma
  • d'assalire; di che egli talvolta con gran suo danno è ributtato
  • indietro. Ed Aristotile nel terzo dell'_Etica_, lá dove parla della
  • fortezza, dice che l'esser temerario è vizio, in quanto il temerario
  • presume, oltre alle sue forze, quello che a lui non s'appartiene. E
  • questo vizio è il presumere alcuno di combattere con due o con tre o
  • con piú; conciosiacosaché ciascuno debba credere uno poter quanto un
  • altro, e con quell'uno mettersi a combattere è ardire e segno di
  • fortezza; dove l'andar contro a piú, potendogli schifare, è temeritá.
  • In questo l'uomo superbo è simigliante al leone, percioché il
  • disiderio del superbo è tanto di parer quello che egli non è, che cosa
  • non è alcuna sí grave, che egli non presuma di fare, quantunque a lui
  • non si convenga, sol che egli creda per quello essere reputato
  • magnanimo. E questa cechitá ha giá messo in distruzione molti regni,
  • molte province e molte genti; questa fu cagione al primo agnolo
  • d'esser cacciato di paradiso con tutti i suoi seguaci; questa fu
  • cagione a Capaneo d'esser fulminato e gittato dalle mura di Tebe in
  • terra; questa fu cagione a Golia d'essere ucciso da David, come la
  • Scrittura ne dice.
  • Dissi ancora che il lione era rapace e soprastante: la qual cosa è
  • quanto piú può propria del superbo, al quale, quantunque ricco sia,
  • non soffera l'animo d'esser contento al suo, ma continuamente prieme e
  • oppressa i minori, ruba l'avere, occupa le possessioni, batte e
  • ferisce i resistenti, e in ciascun suo atto è violento e pieno d'ogni
  • nequizia, e in ogni cosa vuol soprastare agli altri, estimando per
  • questo lo stato suo divenir maggiore, esser piú temuto e di piú
  • eccellente animo reputato. La qual cosa condusse Giugurta, re di
  • Numidia, ad essere del sasso Tarpeio gittato nel Tevero; e Iezzabel ad
  • essere della torre sospinta, e da' cavalli e da' carri e dagli uomini
  • scalpitata, e divenir loto e sterco della vigna di Nabaoth: e Antioco
  • re d'Asia e di Siria essere oltre al monte Tauro da' romani rilegato.
  • Similemente dissi che il leone era altisono nel ruggir suo e ch'egli
  • spaventa le bestie circunstanti; il che Amos profeta dice: «_Leo
  • rugiet, quis non timebit?_». Al qual romore il vizio della superbia è
  • evidentissimamente simigliante, in quanto l'uomo superbo sempre usa
  • parole altiere, spaventevoli e oltraggiose in ogni suo fatto; sempre
  • parla di sé e de' suoi gran fatti, e dilettasi e vuole che altri ne
  • parli; quello estimando d'essere che i paurosi ragionano per
  • piacergli. Per la qual bestialitá, Nabucdonosor, di se medesimo per
  • divina operazione ingannato, lasciato il solio reale, n'andò a pascer
  • l'erbe ne' boschi; Simon mago cadde d'aria e fiaccossi la coscia;
  • Roboam, re de' giudei, de' dodici tribi d'Israel ne perdé nove.
  • Le quali cose sanamente considerate, assai aperto dimostrano noi dover
  • potere per lo leone, al nostro autore apparito, intendere il vizio
  • della superbia, la quale all'uomo, che da lei e dall'altre nequizie si
  • vuol partire e tornare nel cammino delle virtú, si para dinanzi agli
  • occhi della mente, non lusingandolo, ma spaventandolo, col mostrargli
  • che, dove egli la sua maggioranza, il suo altiero stato abbandoni,
  • egli diverrá un menomo plebeio; né sará mai ad alcuna gran cosa
  • chiamato, e intra' suoi di niuna reputazione avuto, sará dispettato, e
  • da coloro, li quali esso ha giá premuti, offeso e scalpitato, rubato e
  • spogliato; e, se egli ancora del suo stato scende, non vi potrá,
  • quando vorrá, risalire. [Para ancora la gloria della preminenza, la
  • potenza del levare in alto e d'abbassare secondo il suo volere, la
  • pompa degli onori, e simili cose assai.] Le quali cose senza alcun
  • dubbio hanno molto a muovere le tenere menti e a renderle timide di
  • cadere, e per conseguente a farle ritirare indietro dalla laudevole
  • impresa. Ma a queste due, dice l'autore essere ancora ad impedire il
  • suo cammino sopravvenuta una lupa, e quella, piú che l'altre due,
  • averlo spaventato e ripintolo indietro.
  • La terza bestia, che davanti all'autore si parò, fu una lupa, fiero
  • animale e orribile, il quale, come davanti dissi, è inteso per
  • l'avarizia, con la quale come costei si convenga, come nell'altre due
  • abbiam fatto, alcune delle sue proprietá prese, e con quelle del vizio
  • conformatole, il mostreranno. Manifesta cosa è la lupa essere animale
  • famelico e bramoso sempre; appresso, quando quel tempo viene, nel
  • quale ella è atta a dovere concépere, avendo molti lupi dietro
  • continuamente, a quello il quale piú misero di tutti le pare, gli
  • altri schifati, si concede; e, oltre a ciò, il lupo è animale
  • sospettissimo, continuo si guarda d'intorno, e quasi in parte alcuna
  • non si rende sicuro, credo dalla coscienza sua medesima accusato.
  • Dico adunque la lupa essere famelico e bramoso animale, e quel
  • medesimo essere l'uomo avaro; percioché, quantunque l'uomo avaro abbia
  • quello che gli bisogna, onestamente e in qualunque guisa ragunato,
  • forse con molta sollecitudine e gran suo pericolo, non sta a quel
  • contento; ma, da maggior cupiditá acceso e da nuova sete stimolato, in
  • ciascun suo esercizio piú che mai si mostra affamato; e, per sodisfare
  • a questa insaziabile fame, niun pericolo è, niuna disonestá, niuna
  • falsitá o altra nequizia, nella qual'e' non si mettesse. Per la qual
  • cosa Virgilio, nel terzo dell'_Eneida_, fieramente la sgrida, dicendo:
  • _... Quid non mortalia pectora cogis,
  • auri sacra fames?_
  • Secondariamente il vizio dell'avarizia si mette in uomini cattivi e
  • pusillanimi; il che appare, in quanto in alcun valente uomo o
  • magnanimo non si vede giammai; e che essi sieno cosí, le loro
  • operazioni il dimostrano. Metterassi l'avaro in una piccola casetta, e
  • in quella, in continua dieta per non spendere, dimorando senza
  • muoversi, dieci e venti anni presterá ad usura, vestirá male e calzerá
  • peggio, rifiuterá gli onori per non onorare, e, dove egli dovrebbe de'
  • suoi acquisti esser signore, esso diventa de' suoi tesori vilissimo
  • servo; e, quanto maggiore strettezza fa del suo, tanto tien gli occhi
  • piú diritti all'altrui. Sempre è pieno di rammarichii, sempre dice sé
  • esser povero, e mostrasi; e, brievemente, facendosi dei beni della
  • fortuna tristissima parte, quanto l'animo suo sia piccolo e misero
  • manifestamente dimostra. Nelle quali cose si può comprendere
  • l'avarizia accompagnarsi con la piú misera condizione d'uomini che si
  • trovi, come la lupa col piú tristo de' lupi si congiugne.
  • Appresso questo, dissi il lupo essere sospettoso animale: la qual cosa
  • esser l'avaro, i suoi costumi il dimostrano. Esso con alcun suo amico
  • non comunica la quantitá de' suoi beni, sospicando non la gran
  • quantitá palesata gli generi agguati o invidia. E, oltre a ciò, niuna
  • fede presta all'altrui parole; sempre suspica che viziatamente gli sia
  • parlato per sottrargli alcuna cosa; in niuna parte estima essere assai
  • sicuro, e di ciascuno, che guarda la porta della sua casa, teme non
  • per doverlo rubare la riguardi. Alcun sonno non puote avere intero, né
  • riposata alcuna notte; ogni piccol movimento di qualunque menomo
  • animale suspica non andamento sia di ladroni; e, non fidandosi delle
  • casse ferrate, i suoi danari fida alle cave e fosse sotterranee. Chi
  • potrebbe assai pienamente narrare i sospetti de' miseri avari, li
  • quali tutti in sé convertono i lacciuoli, li quali giá hanno tesi ad
  • altrui?
  • E perciò, dovendo bastare quello che detto n'è, credo assai
  • convenientemente l'avarizia o l'avaro convenirsi alla lupa, la quale
  • piena di spavento si para davanti a colui, il quale i disonesti
  • guadagni e l'altre men che buone opere vuole lasciare, per dovere in
  • miglior via ritornare. E nel cuore gli mette cotali pensieri:--Che fai
  • tu, misero? ove vuo' tu andare? da qual parte comincerai tu a rendere
  • i furti, le ruberie e le baratterie e i denari in mille modi male
  • acquistati? vuo' tu lasciare quello che tu hai, per quello che tu non
  • sai se tu l'avrai? vuo' tu avere tanta fatica, tanto tempo perduto,
  • quanto tu hai messo in ragunare? vuo' tu venire alla mercé degli
  • uomini? come faranno i figliuoli tuoi? vuogli tu vedere morir di fame?
  • come fará la tua bella donna, e tu, misero, come farai? Tu diventerai
  • favola del vulgo, tu sarai schernito, e non sará chi ti voglia vedere
  • né udire. Tu puoi ancora indugiare; ogni volta, eziandio morendo, puo'
  • tu lasciare il tuo a coloro da' quali tu l'hai avuto. Egli sará il
  • meglio che tu attenda a guadagnare.--
  • E con questa e con simili dimostrazioni, che il misero fa per
  • sudducimento e opera del dimonio, il quale alla nostra salute sempre
  • s'oppone quanto può, spesse volte siamo frastornati; e, avuta poco a
  • prezzo la grazia di Dio, nella nostra miseria ricaggiamo, e per
  • conseguente in eterna perdizione ruiniamo. Né a guardarcene mai
  • c'induce l'etá piena d'anni; percioché, quantunque gli altri vizi
  • invecchino con gli uomini, solo l'avarizia inringiovenisce. E di ciò
  • furono verissimi testimoni Tantalo, Mida e Crasso, li quali, morendo,
  • prima lei abbandonarono che essa da loro, vivendo, fosse abbandonata.
  • [Poterono adunque questi vizi essere all'autore in singularitá cagione
  • di resistenza e di paura. Ma che direm noi, in generalitá, che questi
  • tre animali significhino in altri assai, che, dal vizio partendosi,
  • vogliono alla virtú ritornare? Nulla altra cosa m'occorre, alla quale
  • queste tre bestie si possano meglio adattare, che sia quello il che è
  • a tutti comune, che alli tre nostri principali nemici, cioè la carne,
  • il mondo, il diavolo; e per la carne intender la lonza, per lo mondo
  • il leone, e 'l diavolo per la lupa. Questi tre continuamente vegghiano
  • e stanno intenti alla nostra dannazione. La carne ne lusinga con la
  • dolcezza de' diletti temporali, sotto a' quali è nascoso il veleno
  • infernale, il qual noi, come il pesce con l'ésca piglia l'amo, cosí
  • quasi sempre co' diletti prendiamo, e, di ciò velenati, miseramente
  • moiamo. Per la qual cosa il nostro Salvador n'ammaestra e sollecita di
  • stare attenti a non lasciarci ingannare, quando dice: «_Vigilate, et
  • orate: spiritus quidem promptus, caro autem infirma_». E san Paolo
  • similemente ne rende avveduti e cauti, quando dice: «_Spiritus
  • concupiscit adversus carnem, et caro adversus spiritum_»; vogliendone
  • per questo ammaestrare che noi siamo e avveduti e forti a resistere
  • alle tentazioni carnali. Il simigliante fa il mondo: questi ne para
  • dinanzi gli splendor suoi, gl'imperi, i regni, le province, gli stati
  • e la pompa secolare, gli onori e la peritura gloria; nascondendo sotto
  • la sua falsa luce i tradimenti, le violenze, gl'inganni, le guerre,
  • l'uccisioni, l'invidie e i furori e i cadimenti e altre cose assai,
  • senza le quali né pigliare né tenere si possono queste preeminenze,
  • questi fulgori, queste grandezze temporali: le quali tutte, e
  • ciascuna, n'ha a privare di pace e di riposo e della eterna
  • beatitudine. Susseguentemente il dimonio, rapacissimo ed insaziabile
  • divoratore, pieno d'ingegno e d'avvedimento nel male adoperare, ne
  • minaccia e spaventa di ruine, di tempeste, di tribulazioni, se della
  • sua via usciremo; attorniandoci sempre con agguati, non forse da
  • quelle volessimo deviare. E in tanta ansietá con le sue dimostrazioni
  • assai volte ci reca, che, toltoci lo sperare della divina
  • misericordia, a volontaria morte c'induce: e cosí impedisce tanto chi
  • vuole alla via della veritá ritornare, che egli nelle tenebre eterne
  • il conduce. E queste sono le paure, questi sono gl'impedimenti e le
  • noie che preparate e date da' nostri nemici ne sono, e il nostro ben
  • volere adoperare impedito e frastornato, come nella corteccia della
  • lettera l'autore ne dimostra.]
  • «Mentre ch'io ruinava in basso loco». Nella precedente parte di questo
  • canto è stato dimostrato, per opera della divina grazia il peccatore
  • aver conosciuto il suo stato, e disiderar d'uscir di quello, e tornare
  • alla via della veritá, da lui per lo mentale sonno smarrita; e, oltre
  • a ciò, quali sieno le cose le quali il suo tornare alla diritta via
  • impediscono: in questa parte dimostra il divino aiuto al suo scampo
  • mandatogli, accioché, schifato lo 'mpedimento delli detti vizi, esso
  • possa quel cammin prendere e seguire che opportuno è alla sua salute.
  • E come questo mandato gli fosse, piú distintamente si mostrerá nel
  • canto seguente. E, percioché, come noi per esperienza veggiamo, coloro
  • i quali delle infermitá si lievano, esser deboli e male atanti della
  • persona; cosí creder dobbiamo esser l'anima, la quale dalla infermitá
  • del peccato levandosi, s'ingegna di tornare alla sua sanitá. E, come
  • il nostro corpo infermo, senza l'aiuto d'alcun bastone sostener non si
  • puote, né muoversi ad alcuno atto utile; cosí l'anima nostra, dal
  • peccato vinta e stanca, senza alcuno aiuto della divina clemenza non
  • può cosa alcuna aoperare in sua salute. E perciò intende qui l'autore
  • di mostrarci come Iddio, il quale ha sempre gli occhi della sua pietá
  • diritti a' nostri bisogni, ne mandi la sua seconda grazia, cioè la
  • cooperante, con l'aiuto e colla dimostrazione della quale noi prendiam
  • forza e noi medesimi ordiniamo; e, riconosciute con piú avvedimento le
  • nostre colpe, nel timor di Dio torniamo, e della terza grazia,
  • perseverando, ci facciam degni, e quindi della quarta.
  • Le quali cose in questa parte l'autore sotto il velame de' suoi versi
  • intende, sentendo per Virgilio questa seconda grazia cooperante; e lui
  • prende come sofficiente, sí per discrezione, e sí per iscienza, e sí
  • ancora per laudevoli costumi atto a tanto uficio; e, oltre a ciò,
  • percioché Virgilio, quantunque con altro senso, in parte trattò quella
  • medesima materia, la quale egli intende di trattare; e ancora,
  • percioché il trattato dee essere poetico, era piú conveniente un poeta
  • che alcuno altro sublime uomo; e però prese lui, piú tosto che alcun
  • altro, percioché egli tra' latini ottiene il principato.
  • E costui, dice, gli apparve «nel gran diserto», cioè in quella parte
  • dove l'anima sua, timida di non essere dalle lusinghe e dagli
  • spaventamenti de' suoi viziosi pensieri ritirata nel profondo delle
  • miserie, del quale del tutto era disposto d'uscire, si ritrovava senza
  • consiglio alcuno e senza conforto.
  • Ed è in questa parte da intendere in questa forma: che Virgilio, lá
  • dove bisogno será, nella presente opera s'intenda per la ragione a noi
  • conceduta da Dio, e per la quale noi siamo chiamati «animali
  • razionali»; percioché la ragione è quella parte dell'uomo, nella quale
  • si dee credere questa seconda grazia ricevere e abitare,
  • conciosiacosaché essa ne sia da Dio data non solamente a cooperare con
  • l'altre nostre potenze animali e intellettive, ma a dirizzare e a
  • guidare ogni nostra operazione in bene. La qual cosa ella fa, mossa e
  • ammaestrata dalla divina grazia, quante volte è da noi lasciata esser
  • donna e imperadrice de' nostri sensi; ma, quando la sensualitá, per le
  • nostre colpe, la caccia del luogo suo e signoreggia ella, la ragion
  • tace e diventa mutola, non comanda, non dispon piú secondo il suo
  • consiglio le nostre operazioni. E, percioché sotto i piedi della
  • sensualitá era nell'autore lungo tempo giaciuta, si può dire che nel
  • primo muover delle sue parole paresse «fioca».
  • Questa adunque, come il disiderio della virtú torna, abbattuta la
  • sensualitá, risurge e torna nella sua sedia e manifestasi alla
  • destituta anima, constituta «nel diserto», cioè nel luogo d'ogni
  • virtú, d'ogni buona operazione, vacuo, pronta e apparecchiata ad ogni
  • sua opportunitá: [e, avanti ad ogni altra cosa, fa in se medesima
  • maravigliar l'anima riconosciuta; per che, lasciando di salire a
  • Cristo, il quale è principio e cagione d'intera beatitudine, si lascia
  • dallo spaventamento dei vizi sospignere allo 'nferno. Della qual cosa
  • segue che la ragione, mostrandole apertamente che cosa sia l'avarizia,
  • e qual sia il fine suo, cioè che dalla liberalitá, la quale è morale e
  • laudevole virtú, ella fia scacciata, superata e vinta, e in inferno
  • rimessa lá onde il diavolo, per invidia della gloriosa vita promessa
  • all'umana generazione, la trasse e menolla nel mondo, accioché per la
  • sua opera, l'anime, create ad essere beate, fossero laggiú traboccate,
  • onde ella era stata menata]. E di questo séguita che, poiché, per lo
  • impedimento dei vizi, quella via piú propinqua di salire a Dio gli era
  • tolta, che a lui conveniva, e a ciascun convenirsi che vuole uscir
  • della via del peccato e a Dio ritornarsi, seguire la ragione,
  • dimostratrice della veritá, a vedere que' luoghi che nel testo si
  • leggono.
  • Intorno alla qual cosa è da sapere non essere senza misterio, volendo
  • uscire dello stato della miseria e ritornar nella grazia, tenere il
  • cammino che la ragion dimostra all'autore convenirsi tenere. E la
  • ragione può esser questa: opportuno è a ciascuno, il quale vuol fare
  • quello che detto è, primieramente conoscere le colpe sue; alle quali,
  • conosciute, e veduto come dalla giustizia di Dio siano quelle colpe
  • punite, non è dubbio seguire nell'anima ben disposta il timor di Dio,
  • il quale è principio della sapienza, come il salmista ne dice. Questo
  • timore di Dio incontanente fa seguire nelle nostre menti contrizione e
  • pentimento delle cose non ben fatte; dalla quale, secondo che la
  • censura ecclesiastica ne dimostra, si viene [alla confessione, e da
  • quella] alla satisfazione, dopo la quale si sale alla gloria, come
  • possiamo ordinatamente comprendere, nel cammino che il nostro autore
  • tiene, seguire. E tutte queste cose, insino al salire alla gloria, ne
  • può la nostra ragion dimostrare; percioché tutti sono atti civili e
  • morali e reduttibili agli spirituali.
  • [Nasce adunque da questo il consiglio, il quale la ragione, che tien
  • qui luogo della grazia cooperante, gli dá, cioè che egli per lo
  • 'nferno, cioè per gli atti degli uomini terreni (li quali, a rispetto
  • de' corpi celestiali, ci possiam reputare di essere in inferno); e,
  • tra quegli, considerati quegli che la nostra ragione, le leggi
  • positive e la divina dannino: conoscerá quello da che astener si dee
  • ciascuno che secondo virtú vuol vivere, e quello che, seguendol,
  • merita pena, e qual pena secondo le leggi temporali e secondo
  • l'eterne; conoscerá la giustizia di Dio, e meritamente avrá timore
  • dell'ira sua. E da questo luogo, giá delle cose men che ben fatte
  • pentendosi, venga a vedere coloro che son contenti nel fuoco, cioè
  • nell'afflizione della penitenzia; accioché quindi, dietro alla guida
  • della teologia, le cui ragioni e dimostrazioni la nostra ragion non
  • può comprendere, salga purgato delle offese all'eterna beatitudine.]
  • Ed in questo mi pare consista la sentenza dell'allegoria di questo
  • primo canto.
  • Restaci nondimeno a vedere una parte, alla quale pare che dirizzi
  • l'animo ciascuno che il presente libro legge, e quella disidera di
  • sapere; cioè quello che l'autore abbia voluto sentire per quello
  • veltro, la cui nazione dice dovere esser «tra feltro e feltro». E, per
  • quello che io abbia potuto comprendere, sí per le parole dell'autore,
  • sí per li ragionamenti intorno a questo di ciascuno il quale ha alcun
  • sentimento, l'autore intende qui dovere essere alcuna costellazion
  • celeste, la quale dee negli uomini generalmente impriemere la vertú
  • della liberalitá, come giá è lungo tempo, e ancora persevera quella
  • del vizio dell'avarizia. Il che l'autore assai chiaro dimostra nel
  • _Purgatorio_, dove dice:
  • O ciel, nel cui girar par che si creda
  • le condizion di quaggiú trasmutarsi,
  • quando verrá, per cui questa disceda?
  • cioè questa lupa, per la quale, come detto è, s'intende il vizio
  • dell'avarizia. [Or non so io, se questo dovere avvenire, l'autore ne'
  • moti futuri de' superiori corpi si vide, o se per alcuna altra
  • coniettura ciò dovere avvenire s'è avvisato: è nondimeno assai chiaro
  • i costumi degli uomini mutarsi e d'una parte in altra trasportarsi.
  • Percioché, sí come ne mostrano le istorie de' gentili e ancora
  • dell'altre, lo 'mperio delle cose temporali cominciando sotto Nino re,
  • fu molte centinaia d'anni sotto gli assiri, sotto i medi e sotto i
  • persi; e lungamente avanti v'era stata la religione e la scienza, le
  • quali, come prima lá erano state, cosí primieramente se ne partirono,
  • e vennerne in Egitto, e d'Egitto in Grecia; e poi da Alessandro re di
  • Macedonia fu d'Asia lo 'mperio trasportato in Grecia, donde la
  • scienza, la religione e l'armi poi partendosi ne vennero appo i
  • latini, e qui per lungo spazio furono; poi di qui paiono andate inver'
  • ponente, essendo appo i tedeschi e appo i galli, e par giá che il
  • cielo ne minacci di portarle in Inghilterra: il che per avventura
  • potrá, se piacer fia di Dio, di questa costellazione che l'autor dice,
  • avvenire, ecc.] E, percioché queste impressioni del cielo conviene che
  • quaggiú s'inizino, e comincino ad apparere i loro effetti o per alcuno
  • uomo, o per piú; par l'autore qui sentire che per uno si debbano gli
  • alti effetti di questa impression dimostrare: il quale _metaforice_
  • chiama «veltro», percioché i suoi effetti saranno del tutto cosí
  • contrari all'avarizia, come il veltro di sua natura è contrario al
  • lupo.
  • E costui mostra dovere essere virtuosissimo uomo, e che la nazion sua
  • debba essere tra feltro e feltro. E questa è quella parte dalla quale
  • muove tutto il dubbio che nella presente discrizion si contiene. La
  • qual parte io manifestamente confesso ch'io non intendo: e perciò in
  • questa sarò piú recitatore de' sentimenti altrui che esponitore de'
  • miei.
  • Vogliono adunque alcuni intendere questo veltro doversi intendere
  • Cristo, e la sua venuta dovere esser nell'estremo giudicio, ed egli
  • dovere allora esser salute di quella umile Italia, della quale nella
  • esposizion litterale dicemmo, e questo vizio rimettere in inferno. Ma
  • questa opinione a niun partito mi piace; percioché Cristo, il quale è
  • signore e creatore de' cieli e d'ogni altra cosa, non prende i suoi
  • movimenti dalle loro operazioni, anzi essi, sí come ogni altra
  • creatura, seguitano il suo piacere e fanno i suoi comandamenti; e,
  • quando quel tempo verrá, sará il cielo nuovo e la terra nuova, e non
  • saranno piú uomini, ne' quali questo vizio o alcun altro abbia ad aver
  • luogo; e la venuta di Cristo non sará allora salute né d'Italia né
  • d'altra parte, percioché solo la giustizia avrá luogo, e alla
  • misericordia sará posto silenzio, e il diavolo co' suoi seguaci tutti
  • saranno in perpetuo rilegati in inferno. E, oltre a ciò, Cristo non
  • dee mai piú nascere, dove l'autor dice che questo veltro dee nascere.
  • Né si può dire l'autore aver qui usato il futuro per lo preterito,
  • quasi e' nacque tra feltro e feltro, cioè della Vergine Maria, che era
  • povera donna, e nacque in povero luogo: ma questa ragione non
  • procederebbe, percioché sono MCCCLXXIII anni che egli nacque, e, nei
  • tempi che nacque, era la potenza di questo vizio nelle menti umane
  • grandissima; né poi si vede, non che essere scacciata, ma né mancata.
  • Né si può dire che nascesse tra feltro e feltro, cioè di vile nazione:
  • egli fu figliuolo del Re del cielo e della terra, e della Vergine, che
  • era di reale progenie. E se dire volessono: ella era povera; la
  • povertá non è vizio, e perciò non ha a imporre viltá nel suggetto;
  • percioché noi leggiamo di molti essere stati delle sustanze temporali
  • poverissimi, e ricchissimi di virtú e di santitá. Perché dich'io tante
  • parole? Questa ragione non procede in alcuno atto.
  • Altri dicono, e al parer mio con piú sentimento, dover potere
  • avvenire, secondo la potenza conceduta alle stelle, che alcuno,
  • poveramente e di parenti di bassa e d'infima condizione nato (il che
  • paiono voler quelle parole «tra feltro e feltro», in quanto questa
  • spezie di panno è, oltre ad ogni altra, vilissima), potrebbe per virtú
  • e laudevoli operazioni in tanta preeminenza venire e in tanta
  • eccellenza di principato, che, dirizzandosi tutte le sue operazioni a
  • magnificenza, senza avere in alcuno atto animo o appetito ad alcuno
  • acquisto di reame o di tesoro, ed avendo in singulare abbominazione il
  • vizio dell'avarizia, e dando di sé ottimo esempio a tutti nelle cose
  • appartenenti alla magnificenzia, e la costellazione del cielo
  • essendogli a ciò favorevole; che egli potrebbe, o potrá, muovere gli
  • animi de' sudditi a seguire, facendo il simigliante, le sue vestigie,
  • e per conseguente cacciar questo vizio universalmente del mondo. Ed,
  • essendo salute di quella umile Italia, la qual giá fu capo del mondo,
  • e dove questo vizio, piú che in alcuna altra parte, pare aver potenza,
  • sarebbe salute di tutto il rimanente del mondo; e cosí, d'ogni parte
  • discacciatala, la rimetterebbe in inferno, cioè in dimenticanza e in
  • abusione, o vogliam dire in quella parte dove gli altri vizi son
  • tutti, e donde ella primieramente surse intra' mortali. E, a roborare
  • questa loro oppenione, inducono questi cotali i tempi giá stati, cioè
  • quegli ne' quali regnò Saturno, li quali per li poeti si truovano
  • essere stati d'oro, cioè pieni di buona e di pura semplicitá, e ne'
  • quali questi beni temporali dicon che eran tutti comuni; e per
  • conseguente, se questo fu, anche dover essere che questi sotto il
  • governo d'alcuno altro uomo sarebbono.
  • Alcuni altri, accostandosi in ogni cosa alla predetta oppenione, danno
  • del «tra feltro e feltro» una esposizione assai pellegrina, dicendo sé
  • estimare la dimostrazione di questa mutazione, cioè del permutarsi i
  • costumi degli uomini, e gli appetiti da avarizia in liberalitá,
  • doversi cominciare in Tartaria, ovvero nello 'mperio di mezzo, lá dove
  • estimano essere adunate le maggiori [ricchezze e] moltitudini di
  • tesori, che oggi in alcuna altra parte sopra la terra si sappiano. E
  • la ragione, con la quale la loro oppenione fortificano, è che dicono
  • essere antico costume degli imperadori dei tartari (le magnificenze
  • de' quali e le ricchezze appo noi sono incredibili), morendo, essere
  • da alcuno de' loro servidori portata sopra un'asta, per la contrada
  • dov'e' muore, una pezza di feltro, e colui che la porta andar
  • gridando:--Ecco ciò che il cotale imperadore, che morto è, ne porta di
  • tutti i suoi tesori;--e, poi che questa grida è andata, in questo
  • feltro inviluppano il morto corpo di quello imperadore; e cosí senza
  • alcun altro ornamento il sepelliscono. E per questo dicon cosí: questo
  • veltro, cioè colui che prima dee dimostrare gli effetti di questa
  • costellazione, nascerá in Tartaria, tra feltro e feltro, cioè regnante
  • alcuno di questi imperadori, il quale regna tra 'l feltro adoperato
  • nella morte del suo predecessore e quello che si dee in lui nella sua
  • morte adoperare. Questa oppinione sarebbero di quegli che direbbono
  • avere alcuna similitudine di vero; la quale non è mia intenzione di
  • volere fuori che in uno atto riprovare, e questo è, in quanto dicono
  • quegli imperadori aver grandissimi tesori, e però quivi mostran che
  • istimino, dall'abbondanza dei tesori riservati, essendo sparti,
  • doversi la gola dell'avarizia riempiere e gli effetti magnifichi
  • cominciare. Il che mi pare piú tosto da ridere che da credere:
  • percioché quanto tesoro fu mai sotto la luna, o sará, non avrebbe
  • forza di saziare la fame di un solo avaro, non che d'infiniti, che
  • sempre sopra la terra ne sono. Che dunque piú? Tenga di questo
  • ciascuno quello che piú credibile gli pare, ché io per me credo,
  • quando piacer di Dio sará, o con opera del cielo o senza, si
  • trasmuteranno in meglio i nostri costumi. E questo, quanto sopra il
  • primo canto, basti d'avere scritto [sempre a correzione di coloro che
  • piú sentono che io non faccio].
  • Possono per avventura essere alcuni, li quali forse stimano, non
  • solamente in questo libro, ma eziandio in ogni altro [e ne' divini],
  • ne' quali figuratamente si parli, ogni parola aver sotto sé alcun
  • sentimento diverso da quello che la lettera suona; e però, non essendo
  • nel precedente canto ad ogni parola altro sentimento dato che il
  • litterale, diranno, nell'aprire l'allegoria, essere difettuosamente da
  • me proceduto. Ma in questa parte, salva sempre la reverenzia di chi 'l
  • dicesse, questi cotali sono della loro oppenione ingannati; percioché
  • in ciascuna figurata scrittura si pongono parole che hanno a
  • nascondere la cosa figurata, e alcune che alcuna cosa figurata non
  • ascondono, ma però vi si pongono, perché quelle che figurano possan
  • consistere: sí come per esemplo si può dimostrare in assai parti nella
  • presente opera. Che ha a fare al senso allegorico: «La sesta compagnia
  • in duo si scema»? che n'ha a fare: «Cosí discesi del cerchio primaio»?
  • che molte altre a queste simili? E, se queste se ne tolgono, come
  • potrá seguire l'ordine della dimostrazione che l'autore intende di
  • fare? come acconciarsi quelle che per significare altro si scrivono?
  • Se ogni parola avesse alcun altro senso che il litterale a nascondere,
  • di soperchio avrebbe san Girolamo detto nel proemio dell'_Apocalissi_,
  • e non in altra parte della Scrittura, tanti essere i misteri quante
  • son le parole; conciosiacosaché nell'_Apocalissi_ per eccellenzia
  • quello si creda avvenire, che in alcun altro libro della Sacra
  • Scrittura non avviene. Tuttavia, accioché piú pienamente si creda non
  • ogni parola avere allegorico senso, leggasi quello che ne scrive santo
  • Agostino nel libro _Dell'eterna Ierusalem_, dicendo: «_Non omnia, quae
  • gesta narrantur, aliquid etiam significare putanda sunt; sed propter
  • illa, quae aliquid significant, attexuntur; solo enim vomere terra
  • proscinditur; sed, ut hoc fieri possit, etiam caetera aratri membra
  • sunt necessaria. Et soli nervi in citharis atque huiusmodi vasis
  • musicis aptantur ad cantum; sed, ut aptari possint, insunt et caetera
  • in compagibus organorum, quae non percutiuntur a canentibus, sed ea,
  • quae percussa resonant, his connectuntur_», ecc. E perciò estimo che
  • molto piú onesto sia a credere ad Agostino che stoltamente opinare
  • quello che manifestamente si può riprovare; e quinci prendere
  • certezza, se alcuna cosa allegorizzando è omessa, quella non per
  • negligenza, ma per non conoscere che opportuna vi sia l'allegoria,
  • essere stata intralasciata.
  • CANTO SECONDO
  • I
  • SENSO LETTERALE
  • [Lez. VII]
  • «Lo giorno se n'andava, e l'aer bruno», ecc. Comincia qui la parte
  • seconda di questa prima cantica chiamata _Inferno_, nella qual dissi
  • l'autore cominciare il suo trattato. E, come che questa si potesse in
  • diverse maniere dividere, questa sola intendo che basti per
  • universale, cioè dividersi in tante parti, quanti canti seguitano;
  • percioché pare che ciascun canto tratti di materia differente dagli
  • altri. E questo canto dividerò in sei parti: nella prima si continua
  • l'autore al precedente; nella seconda, secondo il costume poetico, fa
  • la sua invocazione; nella terza muove l'autore a Virgilio un dubbio;
  • nella quarta Virgilio solve il dubbio mossogli; nella quinta l'autore,
  • rassicurato, dice di volere seguir Virgilio; nella sesta ed ultima
  • l'autor mostra come appresso a Virgilio entrò in cammino. La seconda
  • comincia quivi: «O mese, o alto ingegno»; la terza quivi: «Io
  • cominciai:--Poeta»; la quarta quivi: «Se io ho ben la tua parola»; la
  • quinta quivi: «Quale i fioretti»; la sesta quivi: «E poi che mosso
  • fue».
  • Dico adunque che l'autore si continua alle cose precedenti; percioché,
  • avendo detto nella fine del precedente canto sé esser mosso dietro a
  • Virgilio, nel principio di questo discrive l'ora nella quale si
  • mossero, dicendo: «Lo giorno se n'andava», e questo per lo chinare del
  • sole all'occidente; «e l'aer bruno», cioè la notte sopravvegnente, la
  • qual sempre all'occultar del sole séguita. [Di che appare null'altra
  • cosa essere il dí, se non la stanza del sole sopra la terra; e questo
  • è quello che è cosí chiamato, cioè «dí» dalla luce. (E percioché, al
  • levarsi di quello, sempre la notte fugge, Pronapide, greco poeta e
  • maestro di Omero, racconta una cotale favola.) E vogliono gli
  • astrologi questo chiamarsi «dí artificiale», cioè quello spazio il
  • quale si contiene tra il levare del sole e l'occultare; e la ragione
  • è, perché essi, usandolo nelle loro elevazioni, d'ogni tempo il
  • dividono in dodici parti equali, e cosí fanno la notte. Il dí naturale
  • è di ventiquattro ore equali, e in questo è notte congiunta col dí; ma
  • dinominasi tutto dí dalla parte piú degna, cioè dalla parte splendida.
  • E chiamasi dí da «_Dios_» _graece_, il quale in latino viene a dire
  • «Iddio»; percioché, come Iddio sempre in ogni cosa buona ne giova e
  • aiuta, cosí nelle nostre operazioni ne aiuta il dí con la sua luce. E
  • potrebbesi dire che egli n'aiuta nelle buone, percioché chi fa male ha
  • in odio la luce.] E mostra, per questa discrizione del farsi notte,
  • che l'autore fosse stato, dal farsi dí infino al farsi notte di quel
  • dí, in quella valle, occupato da quelle tre bestie ed a ragionar con
  • Virgilio.
  • «Toglieva gli animai che sono in terra, Dalle fatiche loro».
  • Dimostrane qui l'autore una delle operazioni della notte, la quale
  • l'ordine della natura attribuisce al riposo e alla quiete degli
  • animali, degli affanni avuti il dí passato; percioché, se alcun tempo
  • al riposo non si prestasse, non sarebbe alcuno animale che nelle sue
  • operazioni potesse perseverare; e però dice l'autore che l'aer bruno
  • «toglieva», cioè levava, «Dalle fatiche loro». E séguita: «ed io sol
  • uno». Par che qui sia un vizio, il qual si chiama «_inculcatio_», cioè
  • porre parole sopra parole che una medesima cosa significhino, come qui
  • sono; percioché «solo» non può essere se non uno, e «uno» non può
  • essere se non solo; ma questo si scusa per lo lungo e continuo uso del
  • parlare, il quale pare aver prescritto questo modo di parlare, contro
  • al vizio della inculcazione. O potrebbesi dire questo nome «solo»
  • fosse nome adiettivo, e «uno» fosse nome proprio di quel numero, e
  • cosí cesserebbe il vizio. «M'apparecchiava a sostener la guerra», cioè
  • la fatica, nemica e infesta al mio riposo, «sí del cammino», che far
  • dovea (in che mostra dovere il corpo esser gravato), «e sí della
  • pietate», cioè della compassione, la quale aspetta d'avere vedendo
  • l'afflizione e le pene de' dannati e di quegli che nel fuoco si
  • purgano. Ed in questo dimostra l'anima dovere esser faticata,
  • percioché essa è dalle passioni, che dalle cose esteriori vengono,
  • gravata e noiata essa, e non il corpo; quantunque ella sia ancor
  • gravata dalle passioni corporali. «Che tratterá», cioè racconterá, «la
  • mente», cioè la potenza memorativa, «che non erra»; e questo dice,
  • percioché si conosceva aver tenace memoria, per la qual cosa non
  • temeva dovere errare né nella quantitá né nella qualitá.
  • «O muse, o alto ingegno». In questa seconda parte l'autore fa la sua
  • invocazione, secondo il costume poetico. Usano i poeti in pochi versi
  • dire la intenzion sommaria di ciò che poi intendono di trattare in
  • tutto il processo del libro, e, questo detto, fare la loro
  • invocazione. E cosí fa Virgilio nel principio del suo _Eneida_:
  • _... at nunc horrentia Martis
  • arma, virumque cano, Troiae qui primus ab oris,_ ecc.;
  • e, questi pochi versi detti, incontanente invoca, dicendo:
  • _Musa, mihi causas memora; quo numine laeso,_ ecc.
  • E Ovidio, nel principio del suo maggior volume, dice:
  • _In nova fert animus mutatas dicere formas
  • corpora;_
  • ed incontanente invoca, dicendo:
  • _...dii coeptis, nam vos mutastis et illas,
  • aspirate meis,_ ecc.
  • E talvolta i poeti, insieme con la invocazione, mescolano la sommaria
  • intenzion loro; e cosí, nel principio della sua _Odissea_, fece Omero,
  • li versi del quale ottimamente traslatò in latino Orazio, dicendo:
  • _Dic mihi, musa, virum, captae post tempora Troiae,
  • qui mores hominum multorum vidit, et urbes._
  • Cosí similmente il venerabile mio precettore messer Francesco Petrarca
  • fece nel principio della sua _Africa_, dicendo:
  • _Et mihi cospicuum meritis, belloque tremendum,
  • musa, virum referas._
  • Ma il nostro autore s'accostò piú allo stilo di Virgilio, come in
  • ciascuna cosa fa, che a quello d'alcun altro; percioché, avendo sotto
  • brevitá nel precedente canto mostrato quello che intende in tutto il
  • libro suo di dire, lá dove dice: «E trarrotti di qui per luogo
  • eterno», ecc.; qui fa la sua invocazione, dicendo: «O muse, o alto
  • ingegno, or m'aiutate. O mente, che scrivesti», ecc. [Invoca adunque
  • in questo suo principio, sí come appare, le muse, come di sopra è
  • mostrato far gli altri poeti: per che pare di dover dichiarare che
  • cosa sieno queste muse e quante, e qual sia il loro uficio; e questo,
  • sí per piú pienamente dar lo intelletto del presente testo, e sí
  • ancora perché in piú parti del presente libro se ne fará menzione.]
  • [È adunque da sapere, secondo che i poeti fingono, che le muse son
  • nove, e furono figliuole di Giove e della Memoria: e la ragione perché
  • questo sia da' poeti, fingendo, detto, è questa. Piace ad Isodoro,
  • cristiano e santissimo uomo e pontefice, nel libro _Delle etimologie_,
  • che, percioché il suono delle predette muse è cosa sensibile, e che
  • nel preterito passa, e impriemesi nella memoria, però essere da' poeti
  • dette figliuole di Giove e della Memoria. Ma io, a maggior
  • dichiarazione di questo sentimento, estimo che sia cosí da dire: che,
  • conciosiacosaché da Dio sia ogni scienzia, come nel principio del
  • libro _Della sapienza_ si legge, e non basti a ricever quella
  • solamente l'avere inteso, ma che, a farla in noi essere scienza, sia
  • di necessitá le cose intese commendare alla memoria, e cosí divenire
  • in noi scienza (il che l'autore appresso assai bene ne dimostra, lá
  • dove dice:
  • Apri la mente a quel ch'io ti paleso,
  • e fermal dentro, ché non fa scienza,
  • senza lo ritenere, avere inteso);
  • dobbiamo, e possiam dire, queste muse, cioè scienza, in noi giá
  • abituata per lo intelletto e per la memoria, potersi dire figliuole di
  • Giove, cioè di Dio Padre e della Memoria. E dico Giove doversi
  • intendere qui Iddio Padre, percioché alcuno altro nome non so piú
  • conveniente a Dio Padre che questo. E la ragione è che Giove si chiama
  • in latino _Iupiter_, il qual noi intendiamo «_iuvans pater_»: il qual
  • nome, se ben vorremo riguardare, ad alcun altro che a Dio Padre
  • dirittamente non s'appartiene, percioché esso solo dirittamente si può
  • dir padre; percioché, essendo senza avere avuto padre, è delle cose
  • eterne, ed eziando dell'altre, unico e vero creatore e padre; e, oltre
  • a ciò, ad ogni onesta operazione è veramente aiutatore, né si può
  • senza il suo aiuto alcuna cosa perfettamente ad effetto recare: e
  • cosí, quante volte in alcuno onesto atto Giove si nomina, possiamo e
  • dobbiamo di Dio onnipotente intendere. Cosí adunque, ritornando al
  • proposito, meritamente di Giove e della Memoria possiam dire le muse
  • essere state figliuole, in quanto egli è vero dimostratore della
  • ragione di qualunque cosa; le quali sue dimostrazioni, servate nella
  • memoria, fanno scienza ne' mortali, per la quale qui, largamente
  • prendendo, s'intendono le muse: e cosí sará la memoria, ricevitrice e
  • ritenitrice di questo santo seme, e poi riducitrice, quasi
  • partoritrice, madre delle muse. Le quali dice il predetto Isidoro, nel
  • libro preallegato, esser nominate «_a quaerendo_», cioè da «cercare»;
  • percioché per esse, sí come gli antichi vogliono, si cerca la ragione
  • de' versi e la modulazione della voce; e per questo, per derivazione,
  • viene dal nome loro questo nome di «musica», la quale è scienza di
  • sapere moderare le voci. E da questa ragione si può prendere la
  • cagione perché piú se l'hanno i poeti appropriate e fatte familiari
  • che alcun'altra maniera di scientifici.]
  • [Son queste muse in numero nove. E perché elle sieno nove, si sforza
  • di mostrare Macrobio nel secondo libro _Super somnio Scipionis_,
  • equiparando quelle a' canti delle otto spere del cielo, vogliendo poi
  • la nona essere il concento che nasce della modulazione di tutti e otto
  • i cieli; aggiugnendo poi le muse essere il canto del mondo, e questo,
  • non che dall'altre genti; ma eziandio dagli uomini di villa sapersi,
  • percioché da loro sono le muse chiamate «camene», quasi «canene», dal
  • «cantare» cosí nominate.]
  • [E, accioché voi intendiate che vuol dire questo canto del mondo,
  • dovete sapere che fu oppinione di Pitagora e di altri filosofi, che
  • ciascun cielo, di questi otto, cioè l'ottava spera e i sette de' sette
  • pianeti, volgendosi in su li loro cardini, facessero alcuno ruggire,
  • qual piú aguto e qual piú grave, sí, per divino artificio, di debiti
  • tempi misurati, che, insieme concordando, facevano una soavissima
  • melodia, la quale qui intende Macrobio per lo concento; della qual
  • noi, per l'udirla continuo, non ci curiamo, né vi riguardiamo. Ma
  • questa oppinione di Pitagora con manifeste ragioni è riprovata da
  • Aristotile.]
  • [Ma di questo rende Fulgenzio nel libro delle sue _Mitologie_ altra
  • ragione, dicendo per queste nove muse doversi intendere la formazione
  • perfetta della nostra voce: la qual voce, dice, si forma da quattro
  • denti, li quali la lingua percuote quando l'uomo parla; de' quali, se
  • alcun mancasse, parrebbe che piú tosto si mandasse fuori un sufolo che
  • voce. Appresso questo, dice formarsi la voce dalle due nostre labbra,
  • le quali non altrimenti sono che due cembali modulanti la comoditá
  • delle nostre parole; e cosí la lingua, col suo piegamento e
  • circunflessione, essere a modo che un plettro, il quale formi lo
  • spirito vocale; e quindi essere opportuno il palato, per la concavitá
  • del quale si proffera il suono. E ultimamente, accioché nove cose
  • sieno, s'aggiugne la canna della gola, la qual presta il corso
  • spirituale per la sua ritonda via. Ed oltre a questo, percioché da
  • molti si dice Apollo cantare con queste nove muse, non altrimenti che
  • servatore del concento al canto delle predette cose, è dal detto
  • Fulgenzio aggiunto il polmone, il quale, a guisa d'un mantaco, le cose
  • concette manda fuori e rivoca dentro. E, non volendo che in cosí
  • riposto segreto della natura a lui solamente paia di dovere esser
  • prestata fede di cosí esquisita ragione, induce per testimoni
  • Anassimandro lampsaceno e Zenofane eracleopolita, li quali conferma
  • queste cose avere scritte ne' libri loro; aggiugnendo ancora queste
  • medesime cose da molti chiarissimi filosofi essere affermate, sí come
  • da Pisandro fisico, e da Eussimene in quel libro il quale egli chiama
  • _Thelugumenon_.]
  • [Appresso, il detto Fulgenzio ad altro intelletto e piú divulgato
  • disegna gli effetti di queste muse, i loro nomi ponendo e quello per
  • ciascuno in particularitá si debba intendere. E cosí la prima nomina
  • Clio, e per questa vuole s'intenda il primo pensiero d'apparare;
  • percioché «_Clios_» in greco viene a dire «_fama_» in latino; e nullo
  • è che cerchi scienza se non quella nella quale crede potere prolungare
  • la dignitá della fama sua: e per questa cagione è chiamata la prima
  • Clio, cioè «pensiero di cercare scienza». La seconda è in greco
  • chiamata Euterpe, la quale in latino vuol dire «bene dilettante»,
  • accioché primieramente sia il cercare scienza, e appresso sia il
  • dilettarsi in quello che tu cerchi. La terza è appellata Melpomene
  • quasi «_melempio comene_» cioè «facente stare la meditazione»;
  • accioché primieramente sia il volere, e appresso che quello ti diletti
  • che tu vuogli, e, oltre a ciò, perseverare, meditando quello che tu
  • disideri. La quarta ha nome Talia, cioè capacitá, quasí come l'uom
  • dicesse «_Tithonlia_», cioè «pognente cosa che germini». La quinta si
  • chiama Polimnia, quasi «_poliumneemen_», cioè «cosa che faccia molta
  • memoria»; percioché noi diciamo che, dopo la capacitá, è necessaria la
  • memoria. La sesta è chiamata Erato cioè «_eurun comenon_», il qual noi
  • in latino diciamo «trovatore del simile»; percioché, dopo la scienza e
  • dopo la memoria, è giusta cosa che l'uomo di suo trovi alcuna cosa
  • simile. La settima si chiama Tersicore, cioè «dilettante
  • ammaestramento»: adunque, appresso la invenzione, bisogna che l'uomo
  • discerna e giudichi quello che esso truovi. L'ottava si chiama Urania,
  • cioè «celestiale»; percioché, dopo l'aver giudicato, elegge l'uomo
  • quello che egli debba dire e quello che egli debba rifiutare;
  • percioché lo eleggere quello che sia utile e rifiutare quello che sia
  • caduco e disutile, è atto di celestiale ingegno. La nona è chiamata
  • Calliope, cioè «ottima voce». Sará dunque l'ordine questo:
  • primieramente volere la dottrina; appresso dilettarsi in quello che
  • l'uom vuole; poi perseverare in quello che diletta; e, oltre a ciò,
  • prendere quello in che si dee perseverare; e quinci ricordarsi di
  • quello che l'uom prende; appresso trovare del suo cosa simigliante a
  • quello di che l'uom si ricorda; dopo questo, giudicar di quello di che
  • l'uom si ricorda; e cosí eleggere quello di che si giudichi; e
  • ultimamente profferere bene quello che l'uomo avrá eletto.]
  • [Dalle quali dimostrazioni, e spezialmente per le prime, si può
  • comprendere che cagione muova i poeti ad invocare il loro aiuto.
  • Nondimeno pare ad alcuno che le muse si debbano dinominare da
  • «_moys_», che in latino viene a dire «acqua». E questo vogliono,
  • percioché il comporre, e ancora il meditare alcuna invenzione e la
  • composta esaminare, si sogliano con meno difficultá fare su per la
  • riva di un bel fiume o d'alcun chiaro fonte che in altra parte, quasi
  • il riguardar dell'acqua abbia alle predette cose e muovere e incitar
  • gl'ingegni. E questo par che vogliano prendere da ciò che Cadmo re di
  • Tebe, sedendo sopra il fonte chiamato Ippocrene, trovò le figure delle
  • lettere greche, le quali essi ancora usano; come che da Palamede poi,
  • e ancora da Pittagora, ve ne fossero alcune aggiunte; e quivi
  • similemente meditò la loro composizione insieme, accioché, secondo
  • quello che era opportuno al greco idioma, per quelle si profferesse;
  • affermando ancora molti fonti, secondo l'antico errore, essere stati
  • alle muse consecrati, sí come il fonte Castalio, il fonte Aganippe ed
  • altri, questo rispetto avendo, che sopra quegli fossero gl'ingegni
  • umani piú pronti alle meditazioni che in alcun'altra parte.]
  • «O alto ingegno.» È l'ingegno dell'uomo una forza intrinseca
  • dell'animo, per la quale noi spesse volte troviamo di nuovo quello che
  • mai da alcuno non abbiamo apparato. Il che avere sovente fatto
  • l'autore in questo libro si trova, percioché, quantunque Omero e,
  • appresso lui, Virgilio dello scendere in inferno scrivessero, ancora
  • che in alcuna parte gli abbia l'autore imitati nello 'Nferno, nelle
  • piú delle cose tiene da loro cammino molto diverso: del quale peroché
  • alcuno altro scrittore non si truova che in quella forma trattato
  • n'abbia, assai manifestamente possiam vedere della forza del suo
  • ingegno questa invenzione e il modo del procedere essere premuto.
  • «Or m'aiutate»: percioché mi bisogna a questo punto la 'nventiva, e 'l
  • modo del procedere, e la sonoritá dello stilo.
  • «O mente». Non bastando solo lo 'ngegno, per la cui forza le
  • pellegrine inventive si truovano, invoca ancora la mente sua,
  • accioché, per l'opera di lei, quello possa servare e poi raccontare,
  • che avrá trovato. [Ed è questa mente, secondo che Papia scrive, la piú
  • nobile parte della nostra anima, dalla quale procede l'intelligenzia,
  • e per la quale l'uomo è detto fatto alla immagine di Dio; o è l'anima
  • stessa, la quale per li molti suoi effetti ha diversi nomi meritati.
  • Ella è allora chiamata «anima», quando ella vivifica il corpo; ella è
  • chiamata «animo», quando ella alcuna cosa vuole; ella è chiamata
  • «ragione», quando ella alcuna cosa dirittamente giudica; ella è
  • chiamata «spirito», quando ella spira; ella è chiamata «senso», quando
  • ella alcuna cosa sente; ella è chiamata «mente», quando ella sa ed
  • intende.] Questa sta nella piú eccelsa parte dell'anima, e perciò è
  • chiamata mente, perché ella si ricorda. Per lo quale effetto qui il
  • suo aiuto invoca l'autore; percioché, se in questo la mente non
  • l'aiutasse, invano sarebbe disceso o discenderebbe a vedere tante cose
  • e cosí diverse, quanto per opera della mente ne scrive.
  • «Che scrivesti», cioè in te raccogliesti, «ciò ch'i' vidi», nel
  • cammino da me fatto, «Qui», cioè nella presente opera, «si parrá la
  • tua nobilitate», cioè la tua sufficienza in conservare; percioché la
  • nobilitate della cosa consiste molto nello esercitar bene e
  • compiutamente quello che al suo uficio appartiene.
  • «Io cominciai:--Poeta». In questa terza parte del presente canto dissi
  • che l'autore moveva un dubbio a Virgilio: il quale, mosso da
  • pusillanimitá mostra di temere di mettersi nel cammino, il quale
  • Virgilio nella fine del primo canto disse di dovergli mostrare; e
  • dice: «Io cominciai», a dire:--«Poeta», Virgilio, «che mi guidi,
  • Guarda», cioè esamina, «la mia virtú», cioè la mia forza, «s'ella è
  • possente», a sostener tanto affanno, quanto nel lungo cammino e
  • malagevole, per lo quale tu di' di volermi menare, fia di necessitá di
  • sofferire; e fa' questo, «Prima che all'alto passo», cioè d'entrare in
  • inferno, «tu mi fidi», tu mi commetta. Quasi voglia dire:--Io vorrei
  • per avventura ad ora tornare indietro ch'io non potrei.--
  • «Tu dici». Qui vuole l'autore levar via una risposta, la qual
  • Virgilio, sí come egli avvisava, gli avrebbe potuta fare, cioè di
  • dire:--Non puo' tu venire, o non credi poter, lá dove andò Enea e
  • ancora lá dove andò san Paolo?--E comincia: «Tu dici», nel sesto libro
  • del tuo _Eneida_, «che di Silvio lo parente», cioè padre.
  • Ebbe Enea due figliuoli, de' quali fu l'uno chiamato Iulio Ascanio, e
  • questo ebbe di Creusa, figliuola di Priamo re di Troia; e l'altro ebbe
  • nome Iulio Silvio Postumo, il quale Lavinia, figliuola del re Latino,
  • essendo rimasa gravida d'Enea, partorí dopo la morte d'Enea in una
  • selva. Per la qual cosa ella il cognominò Silvio; e Postumo fu
  • chiamato, percioché dopo la umazione del padre, cioè poi che 'l padre
  • fu messo sotterra, era nato: e cosí si chiamano tutti quelli che dopo
  • la morte de' padri loro nascono.
  • «Corruttibile ancora», cioè ancora vivo (percioché chiunque nella
  • presente vita vive è corruttibile, cioè atto a corruzione), «ad
  • immortale», cioè eterno, «secolo», cioè mondo.
  • «Secolo», secondo il suo proprio significato, è uno spazio di tempo di
  • cento anni, secondo il romano uso: ma in questa parte non lo 'ntende
  • l'autore per ispazio di tempo, ma, seguendo l'uso del parlare
  • fiorentino, nel quale, volendo dire «in questo mondo», spesso si dice
  • «in questo secolo», rivolgendo il nome del tempo in nome del luogo
  • dove il tempo s'usa, cioè nel mondo, chiama «secolo» l'altro mondo,
  • cioè lo 'nferno, il quale noi similmente assai spesso chiamiamo
  • «l'altro mondo», il che la sacra Scrittura similemente fa alcuna
  • volta. [Il quale del presente mondo dicendo, dice san Paolo: «_Pie et
  • iuste viventes in hoc saeculo_»; e dell'altra vita parlando:
  • «_Nescimus in quos fines saeculi devenerunt_».]
  • «Andò, e fu sensibilmente»: volendo per questo s'intenda Enea, non per
  • visione o per contemplazione essere andato in inferno, ma col vero
  • corpo sensibilmente. E questo prende l'autore da ciò che Virgilio
  • scrive nel sesto dell'_Eneida_, nel qual dice che, essendo Enea, poi
  • che di Cicilia si partí, pervenuto nel seno di Baia, e quivi in assai
  • tranquillo mare, dando per avventura riposo a' suoi compagni, e
  • disideroso di sapere quello che di questa sua peregrinazione gli
  • dovesse avvenire; essendo andato al lago d'Averno, dove avea udito
  • essere l'oraculo della sibilla cumana ed essa altresí, la pregò che in
  • inferno il menasse al padre; e, dietro alla sua guida, vivo e con
  • l'arme discese: e, per quello passando, pervenne ne' campi Elisi, lá
  • dove quegli, che in istato di beatitudine, erano secondo l'antico
  • errore. E perciò dice l'autore che egli andò «sensibilmente».
  • «Perché, se l'avversario d'ogni male», cioè Iddio, «Cortese fu», di
  • lasciarlo andare senza alcuna offensione, non è maraviglia, «pensando
  • l'alto effetto Che uscir dovea di lui», cioè d'Enea, «e 'l chi, e 'l
  • quale», [cioè Cesare dettatore, o Ottaviano imperadore. De' quali
  • ciascun fu da molto, e ciascun si potrebbe dire essere stato fondatore
  • della imperial dignitá; percioché, quantunque Cesare non fosse
  • imperadore, egli fu dettatore perpetuo, e fu il primo, dopo i re
  • cacciati di Roma, il quale recò nelle sue mani violentemente tutto il
  • governo della republica. Del quale occupamento seguí il triumvirato di
  • Ottaviano e de' compagni; e da quello, essendo da Ottaviano, per loro
  • bestialitá, posti giú dell'uficio del triumvirato Marco Antonio e
  • Marco Lepido, e rimaso egli solo triumviro, ne seguí, o per tacita
  • forza, o pure per ispontaneo piacere del senato e del popolo di Roma,
  • l'essergli il governo della republica commesso, quando cognominato fu
  • Augusto; dopo il quale sempre fu servato poi, uno dopo l'altro, essere
  • in quella dignitá sustituiti e chiamati imperadori. E risponde qui
  • l'autore ad una tacita quistione. Potrebbe alcun dire:--Come déi tu,
  • che se' cristiano, credere che Iddio fosse piú liberale ad un pagano
  • di lasciarlo andare vivo in inferno, che a te?--A che egli e nelle
  • parole predette risponde e in quelle che seguono, dicendo:]
  • «Non pare indegno» l'avere Iddio sostenuto l'andata d'Enea «ad uomo
  • d'intelletto», il cui giudicio è ragionevole e giusto, e massimamente
  • avendo riguardo «Ch'ei», Enea, «fu dell'alma», cioè eccelsa, «Roma»,
  • la quale tutto il mondo si sottomise, «e dello 'mpero», cioè della
  • signoria di Roma, o vogliam dire della dignitá spettante a quelli che
  • noi chiamiamo imperadori, de' quali fu il primo Ottaviano, disceso per
  • molti mezzi della schiatta d'Enea, «Nell'empireo ciel», cioè nel cielo
  • della luce dove si crede essere il solio della divina maestá; [e
  • chiamasi «empireo», cioè igneo, percioché «_pir_» in greco, viene a
  • dire «fuoco» in latino: e vogliono i nostri santi quello dirsi
  • «empireo», percioché egli arde tutto di perfetta caritá;] «per padre
  • eletto». Vuol per questo sentir l'autore per divina disposizione
  • essere d'Enea seguito quello che leggiamo essere stato operato per li
  • suoi successori.
  • E dice qui Enea esser padre di Roma e dello 'mperio, percioché quegli
  • che di lui nacquero per sedici re, infino a Numitore, che fu l'ultimo
  • della schiatta d'Enea, regnarono in Alba per ispazio di quattrocento
  • ventiquattro anni. Poi, essendo di Numitore re nata Ilia, e Amulio,
  • fratello di Numitore, piú giovane d'etá, tolto a Numitore il regno,
  • fece uccidere un figliuolo di Numitore chiamato Lauso; e per torre ad
  • Ilia speranza di figliuoli, la fece vergine vestale, alle quali era
  • pena d'essere sotterrate vive, se in adulterio fossero state trovate.
  • Nondimeno questa Ilia, come che ella si facesse, [o con cui ella si
  • giacesse,] ella ingravidò, e partorí due figliuoli ad un parto, dei
  • quali l'uno fu chiamato Romolo e l'altro Remulo: li quali, essendo
  • giá, per comandamento di Amulio, Ilia stata sotterrata viva, furono
  • gittati, da persone mandate dal re a ciò, non nel corso del Tevero, al
  • quale, perché cresciuto era, non si poteva andare, ma alla riva: e 'l
  • fiume scemato, ed essi trovati vivi da una chiamata Acca Laurenzia,
  • moglie d'un pastore del re, chiamato Faustulo, furono raccolti e
  • nutricati, niente sappiendone il re, e cosí nominati da Faustolo. Li
  • quali cresciuti, ed avendo reale animo, ed essendo pastori e capitani
  • e maggiori di ladroni e d'uomini violenti, ed avendo da Faustulo
  • sentito cui figliuoli erano; composto il modo tra loro, fu l'un di
  • loro preso e menato davanti dal re e accusato; e l'altro, attendendo
  • il re ad udire la querela, feritolo di dietro, l'uccise, e a Numitore
  • loro avolo, che in villa si stava, restituirono il reame; ed essi,
  • tornatisene lá dove allevati erano stati, fecero quella cittá, la
  • qual, da Romolo dinominata Roma, divenne donna del mondo. Per la qual
  • cosa appare Enea essere stato padre di Roma.
  • Appresso, partitosi Iulio Proculo, il quale fu bisnipote di Iulio
  • Silvio e di Romulo, re d'Alba, e discendente, come detto è, d'Enea, e
  • venutosene con Romolo ad abitare a Roma; quivi fondò la famiglia de'
  • Giuli secondo che Eusebio, _in libro Temporum_, dice: li quali poi in
  • Roma, per continue successioni perseverando, infino a Gaio Iulio
  • Cesare pervennero. Il quale, non avendo alcun figliuolo, s'adottò in
  • figliuolo Ottaviano Ottavio [li cui antichi, secondo che dice
  • Svetonio, _De XII Caesaribus_, furono di Velletri], figliuolo d'una
  • sua sirocchia carnale, chiamata Iulia: ed in costui poi fu di pari
  • consentimento del senato e del popolo di Roma, come davanti è detto,
  • commesso il governo della republica, e fu cognominato Augusto; e fu il
  • primo imperadore, e de' discendenti di Enea. E cosí Enea fu similmente
  • padre dello 'mperio, cioè della dignitá imperiale.
  • «La quale», cioè Roma, «e 'l quale», imperio, «a voler dir lo vero,
  • Fûr stabiliti», ordinati per evidenzia da Dio, «per lo loco santo»,
  • cioè per la sedia apostolica, «U' siede il successor», cioè il papa,
  • «del maggior Piero», cioè di san Piero apostolo, il quale chiama
  • «maggiore» per la dignitá papale e a differenza di piú altri santi
  • uomini nominati Piero. E che questo fosse preveduto e ordinato da Dio,
  • appare nelle cose seguite poi, tra le quali sappiamo Costantino
  • imperadore, mondato della lebbra da san Silvestro papa, lasciò Roma e
  • la imperial sedia al papa, e andossene in Costantinopoli; e oltre a
  • questo, ordinò e fe' i suoi successori sempre con la loro potenza
  • esser presti contro a ciascheduno il quale infestasse o turbasse la
  • quiete della Chiesa di Dio e dei pastori di quella: per che
  • meritamente dice l'autore essere stabiliti e Roma e lo 'mperio per lo
  • santo luogo dell'apostolica sede. E però conoscendo Iddio, al quale
  • nulla cosa è nascosa, questo, non è da maravigliare se esso fu cortese
  • ad Enea di lasciarlo andare in inferno; e massimamente sappiendo che
  • esso dovea laggiú udir cose, le quali l'animerebbero a dover dare
  • opera a quello di che dovea questo seguire.
  • E poi soggiugne l'autore: «Per questa andata», di Enea in inferno,
  • «onde», cioè della quale, «tu mi dái vanto», cioè promessione, dicendo
  • di menarmi laggiú (benché in alcuni libri si legge: «Per questa
  • andata, onde tu gli dái vanto», ad Enea, commendandolo ed estollendolo
  • per quella, lá ove tu di' nel sesto dell'_Eneida_:
  • _Noctes atque dies patet atri ianua Ditis
  • sed revocare gradum superasque evadere ad auras,
  • hoc opus, hic labor est. Pauci, quos aequus amavit
  • Iuppiter, aut ardens evexit ad aethera virtus,
  • Dis geniti potuere_:
  • per le quali parole estimo migliore questa seconda lettera che la
  • prima), «Intese cose», Enea, «che furon cagione Di sua vittoria», in
  • quanto, riempiendolo di buona speranza, il fecero animoso all'impresa
  • contro a Turno re de' rutuli, del quale avuto vittoria, e giá in
  • Italia divenuto potente, ne seguí l'effetto che poco avanti si legge,
  • cioè «del papale ammanto». Vuol qui l'autore per parte s'intenda il
  • tutto, cioè per lo papale ammanto tutta l'autoritá papale. Ed è da
  • intender qui che egli in quelle cose che da Anchise intese, come
  • Virgilio nel sesto dell'_Eneida_ mostra, cominciando quivi:
  • _Nunc age, Dardaniam prolem quae deinde sequatur
  • gloria_, ecc.,
  • non udí cosa alcuna del papale ammanto, ma udí cose le quali poi in
  • processo di tempo, come detto è, furon cagione che Roma divenisse
  • sedia del papa, come lungamente giá fu.
  • «Andovvi poi», cioè lungo tempo dopo Enea, «il vaso d'elezione», cioè
  • san Paolo, il quale non andò in inferno come Enea, ma fu rapito in
  • paradiso, lá dove tu di' che io andrò se io vorrò. La qual cosa è
  • vera, sí come egli medesimo testimonia, affermando sé aver vedute cose
  • delle quali non è lecito agli uomini di favellare: e percioché Iddio
  • l'aveva eletto per vaso dello Spirito santo, conoscendo il frutto che
  • delle sue predicazioni doveva uscire, non è mirabile se Iddio di cosí
  • fatta andata gli fu cortese, e massimamente considerando che egli
  • v'andò, «Per recarne», quaggiú tra noi, «conforto a quella fede»,
  • cristiana, «Ch'è principio alla via di salvazione». E questo è
  • certissimo, peroché, non possendosi gli alti segreti della divinitá
  • per alcuna nostra ragione conoscere, è di necessitá, innanzi ad ogni
  • altra cosa, che per fede si credano. Sí che ben dice l'autore la fede
  • cattolica esser principio alla via di salvazione; alla quale, ancora
  • debole e fredda nelle menti di molti giá cristiani divenuti, san
  • Paolo, con la dottrina appresa nel celeste regno, recò molto conforto,
  • riscaldando colle sue predicazioni e con l'epistole le menti fredde e
  • quasi ancora dubitanti.
  • «Ma io perché venirvi?» ne' luoghi ne' quali tu mi prometti di
  • menarmi, quasi dica:--per qual mio merito?--«o chi 'l concede?», cioè
  • che io in questi luoghi debba venire; volendo per questo intendere,
  • come appresso dimostra, esser temeraria cosa l'andare in alcun segreto
  • luogo, senza alcun merito o senza licenza.
  • «Io non Enea», al quale Iddio fu cortese per le ragioni giá mostrate.
  • Chi Enea fosse, ancora che a molti sia noto, nondimeno piú
  • distesamente si dirá appresso nel quarto canto di questo libro, e
  • però, quanto è al presente, basti quello che detto n'è.
  • «Io non Paolo sono». San Paolo fu del tribo di Beniamin, e fu per
  • patria di Tarso cittá di Cilicia: [e avanti che divenisse cristiano,
  • fu nelle scienze mondane assai ammaestrato, e fu ferventissimo
  • perseguitore de' cristiani. Poi, chiamato da Dio al suo servigio, fu
  • mirabilissimo dottore, e con le sue predicazioni molte nazioni
  • convertí al cristianesimo, molti pericoli e molte avversitá di mare e
  • di terra e d'uomini sostenne per lo nome di Cristo, e ultimamente,
  • imperante Nerone Cesare, per lo nome di Cristo ricevette il martirio;
  • e, percioché era cittadino di Roma, gli fu tagliata la testa, e non
  • fu, come san Piero, crocefisso. Di costui predisse Iacob, molte
  • centinaia d'anni avanti, in persona di Beniamin suo figliuolo, e del
  • quale egli doveva discendere: «_Beniamin, lupus rapax, mane devorat
  • praedam et vespere dividit spolia_». Il quale vaticinio appartenere a
  • san Paolo assai chiaramente si vede, percioché esso fu lupo rapace: e
  • la mattina, cioè nella sua giovanezza, divorò la preda, cioè uccise i
  • cristiani; e al vespro, cioè nella sua etá piú matura, divenuto
  • servidore a Cristo, divise le spoglie.] Il quale da Dio fu eletto per
  • conforto della nostra fede.
  • «Me degno a ciò». Quasi voglia dire: perché io non sia Enea né san
  • Paolo, io potrei per alcun altro gran merito credere d'esser degno di
  • venirvi, ma io non so; e, per questo, d'esser di venir degno «né io né
  • altri il crede».
  • Appresso questo, conchiude al dubbio suo, dicendo: «Per che», cioè per
  • non esserne degno, «se del venire», lá dove tu mi vuoi menare, «io
  • m'abbandono», cioè mi metto in avventura, «Temo che la venuta», mia,
  • «non sia folle», cioè stolta, in quanto male e vergogna me ne potrebbe
  • seguire. E quinci rende Virgilio, al quale egli parla, attento a dover
  • guardare al dubbio il quale egli muove, in quanto dice: «Se' savio,
  • e», per questo, «intendi me' ch'i' non ragiono», cioè che io non ti so
  • dire.--E, appresso questo, per una comparazione liberamente apre
  • l'animo suo dicendo: «E quale è quei che disvuol», cioè non vuole,
  • «ciò ch'e' volle», poco avanti, «E per nuovi pensier», sopravvenuti,
  • «cangia proposta», quello che prima avea proposto di fare, «Sí che dal
  • cominciar tutto si tolle; Tal mi fec'io in quella oscura costa»;
  • percioché mostra non fossero ancor tanto andati, che usciti fossero
  • del luogo oscuro, nel quale destandosi s'era trovato. «Per che,
  • pensando»; mostra la cagione perché divenuto era tale, quale è colui
  • il quale disvuole ciò ch'e' volle, e dice che, pensando non fosse il
  • suo andare pericoloso, «consumai», cioè finii, «l'impresa», che fatta
  • avea di seguir Virgilio. «Che fu, nel cominciar, cotanto tosta», cioè
  • súbita, in quanto senza troppo pensare aveva risposto a Virgilio, come
  • nel canto precedente appare, pregandolo che il menasse.
  • [Lez. VIII]
  • --«Se io ho ben la tua parola intesa»--In questa quarta parte del
  • presente canto, dimostra l'autore qual fosse la risposta fattagli da
  • Virgilio: nella qual discrive come e da cui e perché e donde Virgilio
  • fosse mosso a dover venire allo scampo suo. Dice adunque: «Rispuose»,
  • a me, «del magnanimo quell'ombra», cioè quell'anima di Virgilio, il
  • quale cognomina «magnanimo», e meritamente, percioché, sí come
  • Aristotile nel quarto della sua _Etica_ dimostra, colui è da dire
  • «magnanimo», il quale si fa degno d'imprendere e d'adoperare le gran
  • cose. La qual cosa maravigliosamente bene fece Virgilio in quello
  • esercizio, il quale alla sua facultá s'apparteneva: percioché
  • primieramente, con lungo studio e con vigilanza, si fece degno di
  • dover potere sicuramente ogni alta materia imprendere, per dovere
  • d'essa in sublime stilo trattare; e, fattosene col bene adoperare
  • degno, non dubitò d'imprenderla e di proseguirla e recarla a
  • perfezione. E ciò si fu di cantare d'Enea e delle sue magnifiche
  • opere, in onore d'Ottaviano Cesare: le quali in sí fatto e sí eccelso
  • stilo ne discrisse, che né prima era stato, né fu poi alcun latino
  • poeta che v'aggiugnesse.--«Se io ho ben la tua parola intesa», cioè il
  • tuo ragionare, il quale veramente aveva bene inteso, «L'anima tua è da
  • viltate offesa», cioè occupata da tiepidezza e da pusillanimitá, la
  • quale non che le maggiori cose, ma eziando quelle che a colui, nel
  • quale ella si pon, si convengono, non ardisce d'imprendere. «La qual»,
  • viltá, «molte fiate l'uomo ingombra», cioè impedisce, «Sí che d'onrata
  • impresa» [poi fatta] «l'arivolve», [dal]la sua misera e tiepida
  • oppinione, «Come», ingombra, «falso veder», parendo una cosa per
  • un'altra vedere (il che addiviene per ricevere troppo tosto nella
  • virtú fantastica alcuna forma, nella immaginativa subitamente venuta),
  • «bestia quand'ombra», cioè adombra, e temendo non vuole piú avanti
  • andare. E vuolsi questa lettera cosí ordinare: «la quale molte fiate
  • ingombra l'uomo, come falso vedere fa bestia, quand'ombra, e d'onorata
  • impresa l'arivolve».
  • Poi séguita: «Da questa téma», la quale tu hai di venire lá dove detto
  • t'ho, «accioché tu ti solve», cioè sciolghi, sí che ella non ti tenga
  • piú impedito, «Dirotti perch'i' venni, e», dirotti, «quel ch'io
  • intesi, Nel primo punto che di te mi dolve», cioè che io ebbi
  • compassion di te.
  • «Io era tra color che son sospesi», in quanto non sono demersi nella
  • profonditá dello 'nferno, né nella profonda miseria de' supplici piú
  • gravi, come sono molti altri dannati; né sono non che in gloria, ma in
  • alcuna speranza di minor pena, che quella la qual sostengono. Poi
  • segue Virgilio: ed essendo quivi, «E donna mi chiamò beata e bella».
  • Dove, per mostrare piú degna colei che il chiamò, le pone tre epiteti:
  • prima dice che era «donna», il qual titolo, come che molte, anzi quasi
  • tutte, oggi usino le femmine, a molte poche si confá degnamente; e
  • dimostrasi per questo la condizione di costei non esser servile. Dice,
  • oltre a questo, che ella era «bella»; e l'esser bella è singular dono
  • della natura, il quale, quantunque nelle mondane donne sia fragile e
  • poco durabile, nondimeno da tutte è maravigliosamente disiderato;
  • senza che egli è pure alcun segno di benivole stelle operatesi nella
  • concezione di quella cotale, che questo dono riceve; e quasi non mai
  • sogliono i superiori corpi questo concedere, ch'egli non sia d'alcuna
  • altra grazia accompagnato: per la qual cosa paiono piú venerabili
  • quelle persone, che hanno bello aspetto, che gli altri. Appresso dice
  • che era «beata», nella qual cosa racchiude tutte quelle cose, le quali
  • debbano potere muovere a' suoi comandamenti qualunque persona
  • richiesta; peroché chi è beato non è verisimile dovere d'alcuna cosa,
  • se non onestissima, richiedere alcuno; e può chi è beato remunerare; e
  • dé' si credere lui esser grato verso chi a' suoi piacer si dispone. Le
  • quali cose Virgilio, sí come avvedutissimo uomo, conoscendo, dice:
  • ella era «Tal che di comandare i' la richiesi»; cioè offersimi, come
  • ella mi chiamò, presto ad ogni suo comandamento. E ben doveva questa
  • donna esser degna di reverenza, quando tanto uomo, quanto Virgilio fu,
  • si proffera a lei.
  • Poi segue continuando il suo dire, e ancora piú degna la dimostra,
  • dicendo: «Lucevan gli occhi suoi piú che la stella». Dé'si qui
  • intendere l'autore volere preporre la luce degli occhi di questa donna
  • alla luce di quella stella ch'è piú lucente. «E cominciommi a dir»,
  • questa donna, «soave e piana»: nel qual modo di parlare si comprende
  • la qualitá dell'animo di colui che favella dovere essere riposata, non
  • mossa da alcuna passione, e, oltre a ciò, in questo disegna l'atto
  • dell'onesto, il quale in ogni suo movimento dee esser soave e
  • riposato. «Con angelica voce» aggiugne un'altra cosa, mirabilmente
  • opportuna nelle donne, d'aver la voce piacevole, né piú sonora né meno
  • che alla gravitá donnesca si richiede; e queste cosí fatte voci fra
  • noi sono chiamate «angeliche». E, oltre a questo, l'attribuisce
  • Virgilio questa voce in testimonio della beatitudine di lei, percioché
  • estimar dobbiamo alcuna cosa deforme non potere essere in alcun beato.
  • «In sua favella», cioè in fiorentino volgare, non ostante che Virgilio
  • fosse mantovano. Ed in ciò n'ammaestra alcuno non dovere la sua
  • original favella lasciare per alcun'altra, dove necessitá a ciò nol
  • costrignesse. La qual cosa fu tanto all'animo de' romani, che essi,
  • dove che s'andassero, o ambasciadori o in altri ufici, mai in altro
  • idioma che romano non parlavano; e giá ordinarono che alcuno, di che
  • che nazion si fosse, in senato non parlasse altra lingua che la
  • romana. Per la qual cosa assai nazioni mandaron giá de' loro giovani
  • ad imprendere quello linguaggio, accioché intendesser quello e in
  • quello sapessero e proporre e rispondere.
  • Ma potrebbesi qui muovere un dubbio, e dire:--Come sai tu che questa
  • donna parlasse fiorentino?--A che si può rispondere apparire in piú
  • luoghi, in questo volume, Beatrice essere stata una gentildonna
  • fiorentina, la quale l'autore onestamente amò molto tempo; e per
  • questo comprendere e dire lei in fiorentin volgare aver parlato.
  • E percioché questa è la primiera volta che di questa donna nel
  • presente libro si fa menzione, non pare indegna cosa alquanto
  • manifestare di cui l'autore, in alcune parti della presente opera,
  • intenda nominando lei, conciosiacosaché non sempre di lei
  • allegoricamente favelli. Fu adunque questa donna (secondo la relazione
  • di fededegna persona, la quale la conobbe, e fu per consanguinitá
  • strettissima a lei) figliuola d'un valente uomo chiamato Folco
  • Portinari, antico cittadino di Firenze: e, come che l'autore sempre la
  • nomini Beatrice dal suo primitivo, ella fu chiamata Bice; ed egli
  • acconciamente il testimonia nel _Paradiso_, lá dove dice: «Ma quella
  • reverenza, che s'indonna Di tutto me, pur per B e per ice». E fu di
  • costumi e d'onestá laudevole quanto donna esser debba e possa, e di
  • bellezza e di leggiadria assai ornata; e fu moglie d'un cavaliere de'
  • Bardi, chiamato messer Simone; nel ventiquattresimo anno della sua etá
  • passò di questa vita, negli anni di Cristo milleduecentonovanta. Fu
  • questa donna maravigliosamente amata dall'autore. Né cominciò questo
  • amore nella loro provetta etá, ma nella loro fanciullezza; peroché,
  • essendo ella d'etá d'otto anni e l'autore di nove, sí come egli
  • medesimo testimonia nel principio della sua _Vita nuova_, prima
  • piacque agli occhi suoi. Ed in questo amore con maravigliosa onestá
  • perseverò mentre ella visse. E molte cose in rima, per amore ed in
  • onor di lei giá compose; e, secondo che egli nella fine della sua
  • _Vita Nuova_ scrive, esso in onor di lei a comporre la presente opera
  • si dispose; e come appare e qui e in altre parti, assai
  • maravigliosamente l'onora.
  • --«O anima». Qui cominciano le parole, le quali Virgilio dice essergli
  • state dette da questa donna, nelle quali la donna, con tre
  • commendazioni di Virgilio, si sforza di farlosi benivolo ed
  • ubbidiente, dicendo primieramente: «cortese», il che in qualunque,
  • quantunque eccellente uomo e onorevole, titolo è da disiderare,
  • percioché in ciascuno nostro atto è laudevole cosa l'esser cortese;
  • quantunque molti vogliano che ad altro non si riferisca l'esser
  • cortese, se non nel donare il suo ad altrui; «mantovana», il che la
  • donna dice per mostrare che ella il conosca, e a lui voglia dire e
  • dica, e non ad un altro; «La cui fama nel mondo ancora dura», cioè
  • persevera. E questa è la seconda cosa per la quale la donna si vuol
  • fare benivolo Virgilio, mostrandogli lui essere famoso.
  • [È la Fama un romore generale d'alcuna cosa, la qual sia stata
  • operata, o si creda essere stata, da alcuno, sí come noi sentiamo e
  • ragioniamo delle magnifiche opere di Scipione Africano, della
  • laudevole povertá di Fabrizio e della fornicazione di Didone e di
  • simiglianti: la qual finge Virgilio, nel quarto del suo _Eneida_,
  • essere stata figliuola della Terra e sorella di Ceo e d'Anchelado, e
  • lei la Terra, commossa dall'ira degl'iddii, aver partorita. Della qual
  • si racconta una cotal favola, che, conciofossecosaché, per desiderio
  • d'ottenere il regno Olimpo, fosse nata guerra tra i Titani, uomini
  • giganti, figliuoli della Terra, e Giove; si divenne in questo, che
  • tutti i figliuoli della Terra, li quali inimicavan Giove, furon dal
  • detto Giove e dagli altri iddii occisi: per lo qual dolore la Terra
  • commossa e disiderosa di vendetta, conciofossecosaché a lei non
  • fossero arme contro a cosí possenti nemici, accioché con quelle forze,
  • le quali essa potesse, alcun male contro agl'iddii facesse, costretto
  • il ventre suo, ne mandò fuori la Fama, raccontatrice delle scellerate
  • operazioni degl'iddii. La forma della quale Virgilio nel preallegato
  • libro discrive, e dice:
  • _Fama, malum quo non aliud velocius ullum_, ecc.,
  • seguendo che ella vive per movimento, e andando acquista forze, e
  • nella prima tema è piccola, ma poi se medesima lieva in alto, e quindi
  • va su per lo suolo della terra e il suo capo nasconde tra' nuvoli; e
  • ch'ella è in su i piè velocissima, e ha alie molto ratte, ed è un
  • mostro orribile e grande; e quante penne ha nel corpo suo, tanti occhi
  • n'ha sotto che sempre vegghiano, e tante lingue e tante bocche le
  • quali continuamente parlano, e tanti orecchi li quali sempre tiene
  • levati; e vola la notte per lo mezzo del cielo e per l'ombra della
  • terra, stridendo, senza dormir mai; e 'l dí siede ragguardatrice sopra
  • la sommitá delle case, e spaventa le cittá grandi: tenace cosí de'
  • composti mali, come rapportatrice del vero.]
  • [Ma, se io, avendo la sua origine e la forma e gli effetti secondo le
  • fizion poetiche discritte, non aprissi quello che essi sotto questa
  • crosta sentano, potrei forse meritamente essere ripreso. Dico adunque
  • che gl'iddii, per l'ira de' quali la Terra si commosse e turbò, è da
  • intendere intorno ad alcuna cosa l'operazion delle stelle, le quali
  • gli antichi, erronei, chiamavano «iddii», avendo riguardo alla loro
  • eternitá e alla loro integritá, che alcuna corruzione non ricevea. Le
  • quali stelle e corpi superiori, senza alcun dubbio per la potenza loro
  • attribuita dal creatore di quelle, adoperano in noi secondo le
  • disposizioni delle cose riceventi le loro impressioni; e da questo
  • avviene che il fanciullo, o vogliam dire il giovane, per loro opera è
  • aumentato, conciosiacosaché colui che invecchia sia diminuito, e
  • conciosiacosaché mai si scostino dalla ragione dell'ottimo e perfetto
  • governatore. Alcuna volta fanno cose, le quali dal repentino e falso
  • giudicio de' mortali pare che abbino, sí come adirati, fatte, come
  • quando per loro opera muore un giusto re, un felice imperadore, un
  • caro e opportuno uomo al ben comune, un savissimo uomo, o un nobile ed
  • egregio cavaliere: e per questo, cioè per lo fare venir meno i solenni
  • uomini, pare che come adirati contro a loro faccino.]
  • [Dissono li poeti gl'iddii essere adirati, avendo uccisi coloro li
  • quali si doveano perpetuare; ma che di questo séguita che la Terra se
  • ne commuove, cioè l'animoso uomo (percioché tutti siamo di terra, e in
  • terra torniamo), e sforzasi d'adoperar quello di che nasca nome e fama
  • di lui, la quale sia vendicatrice della sua futura morte; accioché,
  • quando quello avverrá che i corpi superiori facciano venire al suo
  • fine il suo mortal corpo, viva di lui, per li suoi meriti (eziandio
  • non volendo i corpi superiori), il nome suo e la fama delle sue
  • operazioni, non altrimenti che esso vivo fosse. E in quanto dice
  • questa nella prima téma esser piccola, non ce ne inganniamo,
  • percioché, quantunque grandi sien l'opere delle quali ella nasce,
  • nondimeno paiono da un temore degli uditori cominciare a spandersi.
  • Poi, in quanto dice Virgilio essa elevarsi ne' venti, niun'altra cosa
  • vuol dire se non essa divenire in piú ampio favellio delle genti; o
  • vogliam, per quel, sentire essa mescolarsi ne' ragionamenti delle
  • genti mezzane. E, in quanto poi discende nel suolo della terra,
  • intende il poeta lei mescolarsi nel vulgo; e cosí, quando mette il
  • capo ne' nuvoli, dobbiamo intendere lei dovere mescolarsi ne'
  • ragionamenti de' prencipi e degli uomini sublimi. E l'avere l'alie e i
  • piè veloci assai manifestamente dimostra il suo presto trascorso d'una
  • parte in un'altra; e per gli occhi, li quali le discrive molti, sente
  • agli occhi della Fama ogni cosa pervenire, e cosí agli orecchi. E lei
  • non tacer mai, dove che ella si favelli, o in pubblico o in occulto, o
  • in un luogo o in un altro; lei non dormir mai, e volar la notte per lo
  • mezzo del cielo o per l'ombra della terra: non credo altro intendere
  • si debbia se non il suo continuo andamento di questo in quello e, per
  • li suoi rapportamenti vari e molti, metter tremore ne' popoli, e per
  • conseguente fare guardar le terre e alle porti e sopra le torri fare
  • stare le guardie e gli speculatori. E, percioché essa non cura di
  • distinguere il vero dal falso, è contenta di rapportare ciò che ella
  • ode. Ma, in quanto dicono costei dalla Terra essere generata per
  • dovere i peccati e le disoneste cose degl'iddii raccontare, per
  • alcun'altra cosa non credo esser stato fitto se non per dimostrare le
  • vendette degli uomini men possenti, li quali, non potendo altro fare
  • a' grandi uomini, s'ingegnano, parlando mal di loro, di farli venire
  • in infamia, e per conseguente in disgrazia delle genti. Figliuola
  • della Terra è detta, percioché dell'opere sole, che sopra la terra si
  • fanno, si genera la fama. E che essa non abbia padre credo avvenire da
  • questo: per lo non sapersi donde il piú delle volte nasca il principio
  • del ragionare di quello che poi fama diventa; il che se si sapesse,
  • direbbe l'uomo quel cotale essere il padre della fama.]
  • La qual cosa, quantunque ad ogni uomo, il quale ha sentimento, molto
  • piaccia, sopra a tutti gli altri piacque a' gentili, li quali non
  • avendo alcuna notizia della beatitudine celestiale, la quale Iddio
  • concede a coloro li quali adoperan bene, quegli cotali, li quali
  • virtuosamente adoperavano, a fine d'acquistar fama il facevano, e
  • quella vedersi avere acquistata con somma letizia ascoltavano.
  • Dunque mostra in questo la donna di conoscere da quali cose si doveva
  • far benivolo Virgilio. E poi soggiugne la terza, dicendo: «E durerá»,
  • questa tua fama, «mentre il mondo lontana», ponendo qui il presente
  • tempo per lo futuro, in quanto dice «lontana» per «lontanerá», cioè si
  • prolungherá. E questo per la consonanza della rima si concede. Ed è
  • questa terza cosa quella che piú piace a coloro li quali fama
  • acquistano, che essa dopo la lor morte duri lunghissimo tempo,
  • estimando che quanto piú dura, piú certo testimonio renda della virtú
  • di colui che guadagnata l'ha. Ed in questo la donna gli compiace, in
  • quanto gli dice quello che gli è grato ad udire; e, oltre a ciò,
  • dicendo quella dovere essere perpetua, mostra di credere lui essere
  • stato per sua grandissima virtú degno d'eterna fama.
  • [Ma, percioché qui di questa fama si fa menzione, e ancora in piú
  • parti nel processo se ne fará, e di sopra abbiamo scritta la sua
  • origine, estimo sia commendabile il mostrare, anzi che piú procediamo,
  • che differenza sia tra onore e laude e fama e gloria, accioché, dove
  • nelle cose seguenti menzione se ne fará, s'intenda in che differenti
  • sieno; e questo dico, percioché giá alcuni indifferentemente posero
  • l'un nome per l'altro, de' quali forse furono di quegli che non
  • sapevano la differenza. Dico adunque che «onore» è quello il quale ad
  • alcuno in presenza si fa, o meritato o non meritato che l'abbia; come
  • che il meritato sia vero onore e l'altro non cosí: sí come a Scipione
  • Africano, il quale avendo magnificamente per la republica contro a
  • Cartagine adoperato, tornando a Roma, gli fu preparato il carro
  • triunfale e fattigli tutti quegli onori che al triunfo aspettavano,
  • che eran molti. E questo era vero e debito onore, che per virtú di
  • colui che il riceveva s'acquistava. A dimostrazione della qual cosa è
  • da sapere che Marco Marcello, nel quinto suo consolato, secondo che
  • dice Valerio, avendo vinto primieramente Clastidio, e poi Seragusa in
  • Sicilia, e botato in questa guerra un tempio alla Virtú e all'Onore,
  • fu per lo collegio dei pontefici giudicato a due deitá non potersi un
  • tempio solo farsi; percioché, se alcuna cosa miracolosa in quello
  • avvenisse, non si saprebbe a quale delle due deitá ordinare i
  • sacrifici debiti e le supplicazioni. E perciò fu ordinato che a
  • ciascuna delle due deitá si facesse un tempio; li quali furono fatti
  • congiunti insieme in questa guisa: che nel tempio fatto in reverenza
  • dell'Onore non si poteva entrare, se per lo tempio della Virtú non
  • s'andasse. E questo fu fatto a dare ad intendere che onore non si
  • poteva acquistare se non per operazion di virtú. È, oltre a questo,
  • fatto onore ad alcuni, li quali per loro meriti nol ricevono, ma per
  • alcuna dignitá loro conceduta, o per la memoria de' lor passati, o
  • forse per la loro etá: questi sono, andando, messi innanzi, posti
  • nelle prime sedie, e in simili maniere onorati. Le «laude», come
  • l'onore si fa in presenza a colui che meritato l'ha, cosí si dicono
  • lui essendo assente; percioché, se lui presente si dicessero, non
  • laude ma lusinghe parrebbono. La «gloria» è quella che delle ben fatte
  • cose da' grandi e valenti uomini, essendo lor vivi, si cantano e si
  • dicono, e l'essere con ammirazione della moltitudine riguardati e
  • mostrati e reveriti, come fu giá Giunio Bruto, avendo cacciato
  • Tarquinio re e liberata Roma dalla sua superbia, e Gaio Mario, avendo
  • vinto Giugurta e sconfitti i cimbri e i téutoni. «Fama» è quello
  • ragionare che lontano si fa delle magnifiche opere d'alcun valente
  • uomo, e che dopo la sua vita persevera nelle scritture di coloro li
  • quali in nota messe l'hanno, spandendosi per lo mondo e molti secoli
  • continuando; come ancora e udiamo e leggiamo tutto il dí di Pompeo
  • magno, di Giulio Cesare dettatore, d'Alessandro re di Macedonia e di
  • simiglianti.]
  • [Ma da tornare è alla intralasciata materia. E dico che,] avendo
  • questa donna captata la benivolenzia di Vergilio, gli comincia a
  • dichiarare il suo disiderio dicendo: «L'amico mio», cioè Dante, il
  • quale lei, mentre ella visse, come detto è, assai tempo e onestamente
  • avea amata; e però, sí come l'autore nel _Purgatorio_ dice:
  • amore
  • acceso da virtú, sempre altro accese,
  • sol che la fiamma sua paresse fuore,
  • mostra dovere egli essere stato onestamente amato da lei; dal quale
  • onesto amore è di necessitá essere stata generata onesta e laudevole
  • amistá, la quale esser vera non può, né è durabile, se da virtú
  • causata non è: e cosí mostra che fosse questa, in quanto la donna, di
  • lui parlando, il chiama «suo amico». E qui non senza cagione, lasciato
  • stare il proprio nome, il chiama la donna «amico»: la quale è per
  • dimostrare, per la virtú di cosí fatto nome, l'autore le sia molto
  • all'animo e per mostrare in ciò che ella non venga a porgere i preghi
  • suoi per uomo strano o poco conosciuto da lei. E aggiugne «e non della
  • ventura», cioè della fortuna, percioché infortunato uomo fu l'autore;
  • e questo aggiugne ella per mettere compassion di lui in Virgilio, il
  • quale intende di richiedere che l'aiuti, percioché degl'infelici si
  • vuole aver compassione. «Nella diserta piaggia», della qual di sopra è
  • piú volte fatta menzione, «è impedito», dalle tre bestie, delle quali
  • di sopra dicemmo, «Sí», cioè tanto, «nel cammin, che vòlto è», a
  • ritornarsi nella oscuritá della valle, «per paura», di quelle bestie.
  • «E temo che non sia giá sí smarrito, Ch'io mi sia tardi al soccorso»,
  • di lui, «levata, Per quel ch'io ho di lui nel cielo udito», da Lucia.
  • E pone la donna queste parole per avacciare l'andata di Virgilio; e
  • appresso ancora il sollecita dicendo: «Or muovi, e con la tua parola
  • ornata» (commendalo qui d'eloquenza, la quale ha grandissime forze nel
  • persuadere quello che il parlatore crede opportuno), «E con ciò che è
  • mestiere al suo campare, L'aiuta», da quelle bestie che l'impediscono,
  • «sí», cioè in tal maniera, «ch'io ne sia consolata».
  • E, dette queste parole, manifesta il nome suo, dicendo: «Io son
  • Beatrice che ti faccio andare». E, detto il suo nome, gli dice onde
  • ella viene, per mandarlo in questo servigio, accioché Virgilio conosca
  • molto calernele; percioché senza gran cagione non è il partirsi alcuno
  • de' luoghi graziosi e dilettevoli, e andare in quelli ne' quali non è
  • altra cosa che dolore e miseria. E dice: «Vegno del luogo», cioè di
  • paradiso, «ove tornar disío». E quinci gli apre la cagione che di
  • paradiso l'ha fatta discendere in inferno, dicendo: «Amor» [grandi
  • sono le forze dell'amore: «_Aquae multae non potuerunt extinguere
  • charitatem_»] «mi mosse», lá onde io era, ed egli è quegli «che mi fa
  • parlare» e pregarti.
  • Appresso a questo, accioché Virgilio non sia tardo all'andare, come
  • persona che guiderdone non aspetta della fatica, si dimostra verso lui
  • dovere essere grata, dicendo: «Quando sarò dinanzi al Signor mio»,
  • cioè a Dio, «Di te mi loderò sovente a Lui»:--e cosí non una volta, ma
  • molte, nella multiplicazion delle quali si mostrerá esserle stato
  • gratissimo il servigio da lui ricevuto. E quantunque questo
  • guiderdone, il quale ella promette, alcuna cosa non monti alla salute
  • di Virgilio, pur si dee credere piacergli; e questo è, percioché
  • s'egli gli è a grado che la fama di lui tra gli uomini favelli, quanto
  • maggiormente si dee credere essergli caro che una cosí fatta donna nel
  • cospetto di Dio il commendi e lodisi di lui?
  • «Tacquesi allora», detto questo, «e poi comincia' io», a dire, e
  • (_supple_) dissi:--«O donna di virtú, sola per cui», cioè per cui
  • sola, «L'umana spezie»: è l'umana generazione spezie di questo genere
  • che noi diciamo «animali»; «eccede», cioè trapassa di virtú, ed, oltre
  • a ciò, in tanto, che essi divengono atti a cognoscere e cognoscono
  • Iddio, il quale alcun altro animale non cognosce; «ogni contento»,
  • cioè ogni cosa contenuta, «Dal cielo, c'ha minor li cerchi sui», il
  • quale è quel della luna, che, percioché piú che alcun altro è vicino
  • alla terra, è di necessitá minore che alcuno degli altri, e perciò ha
  • i suoi cerchi, cioè le sue circonvoluzioni, minori, infra' quali gli
  • elementi ed ogni cosa elementata si contiene, e ancora i demòni e
  • l'anime de' dannati. Le quali cose tutte, per l'anima razionale e
  • libera, trapassa l'uomo d'eccellenza.
  • «Tanto m'aggrada 'l tuo comandamento». Qui si dimostra Virgilio assai
  • graziosamente disposto al comandamento della donna, mostrando che egli
  • non solamente disidera d'ubbidirla prestamente, ma dice: «Che
  • l'ubbidir», al comandamento, «se giá fosse», in atto, «m'è tardi». E
  • però segue; «Piú non t'è uopo aprirmi il tuo talento»; quasi dica:
  • assai hai detto, ed io son presto.
  • Ma nondimeno le muove un dubbio, dicendo: «Ma dimmi la cagion, che non
  • ti guardi Dallo scender quaggiú in questo centro», pieno di scuritá e
  • di pene eterne. E chiamasi «centro» quel punto il quale fa quella
  • parte del sesto, il quale noi fermiamo quando alcun cerchio facciamo:
  • e però chiama «centro» il corpo della terra, percioché, avendo
  • riguardo alla grandissima larghezza della circunferenza del cielo e
  • alla piccola quantitá del corpo della terra posta nel mezzo de' cieli,
  • qui si può dire centro del cielo. «Dall'ampio loco», cioè dal cielo,
  • «ove tornar tu ardi», cioè ardentemente disideri.
  • Al quale Beatrice dice cosí:--«Da poi che vuoi saper cotanto
  • addentro», cioè sí profonda ed occulta cosa, «Dirotti brevemente--mi
  • rispose--Perch'i' non temo di venir qua entro», in questo carcere
  • cieco. «Temer si dee sol di quelle cose, C'hanno potenza di fare
  • altrui male». Sí come Aristotile nel terzo dell'_Etica_ vuole, il non
  • temer le cose che posson nuocere, come sono i tuoni, gl'incendi e'
  • diluvi dell'acque, le ruvine degli edifici e simili a queste, è atto
  • di bestiale e di temerario uomo; e cosí temere quelle che nuocere non
  • possono, come sarebbe che l'uomo temesse una lepre o il volato d'una
  • quaglia o le corna d'una lumaca, è atto di vilissimo uomo, timido e
  • rimesso. Le quali due estremitá questa donna tocca discretamente,
  • dicendo esser da temere le cose che possono nuocere. «Dell'altre no»,
  • cioè quelle «che non son poderose» a nuocere, e che non debbon metter
  • paura nell'uomo, il qual debitamente si può dir forte.
  • E quinci dimostra sé essere di quei cotali forti, dicendo: «Io son da
  • Dio; sua mercé»: quasi dica: non per mio merito; fatta «tale», cioè
  • beata, alla quale cosa alcuna noiosa, quantunque sia grande, non puote
  • offendere; «Che la vostra miseria», cioè di voi dannati, «non mi
  • tange», cioè non mi tocca, quantunque io venga qua entro; «Né fiamma
  • d'esto incendio», il quale è qui. E per questa parola nota quegli del
  • limbo essere in foco, quantunque nel quarto canto l'autore dica
  • quelli, che nel limbo sono, non avere altra pena che di sospiri. «Non
  • m'assale», cioè non mi si appressa.
  • «Donna è nel cielo». Vuole qui mostrare Beatrice non di suo proprio
  • movimento mandare Virgilio al soccorso dell'autore, ma con divina
  • disposizione, percioché in cielo alcuna cosa non si fa che dall'ordine
  • della divina mente non muova; e perciò vuol mostrare che «Donna è
  • lassú nel Ciel, che si compiange», cioè si rammarica. Né è questo da
  • credere che in cielo sia, o possa essere alcuno rammarichío, ma
  • conviene a noi da' nostri atti prendere il modo del parlare
  • dimostrativo, a fare intendere gli effetti spirituali; e percioché
  • l'effetto il quale seguí del venire Beatrice a Virgilio, venne da una
  • clemenzia divina quasi mossa, come le nostre si muovono, per alcuno
  • rammarichío; e però dice Beatrice, quella donna compiangersi, cioè
  • mostrare una affezione dell'impedimento dell'autore, come qui tra noi
  • mostra chi ha compassion d'alcuno. «Di questo impedimento, ov'io ti
  • mando», cioè alla salute dell'autore; «Sí che duro», cioè stabile e
  • fermo, «giudicio», cioè disposizione di Dio, «lassú», cioè in cielo,
  • «frange», cioè s'apre; e dimostra come le marine onde, cacciate
  • talvolta dall'impeto d'alcun vento, che vengono insino alla terra
  • chiuse, e quivi frangendo s'aprono: e cosí sta chiusa ed occulta la
  • divina disposizione, infino a tanto che di manifestarla bisogni.
  • «Lucia chiese costei», cioè questa donna chiese Lucia, «in suo
  • dimando», cioè nel suo priego. Il senso di questa lettera, quantunque
  • alquanto di sopra aperto n'abbia, non si può qui mostrare essere
  • litterale, e però è da riserbare quando si tratterá l'allegorico. «E
  • disse», questa donna:--«Ora ha bisogno il tuo fedele, Di te»;
  • percioché è in grandissima tribulazione, per la paura la quale ha
  • delle tre bestie, che il suo cammino impediscono; «ed io a te lo
  • raccomando»;--volendo dire, poiché suo fedele era, che ella nel suo
  • scampo s'adoperasse. «Lucia, nemica di ciascun crudele, Si mosse»,
  • udito questo, «e venne al loco dov'io era, Ch'i' mi sedea con l'antica
  • Rachele». Rachele fu figliuola di Laban, fratello di Rebecca moglie
  • d'Isach, e fu moglie di Giacob: la quale storia alquanto piú
  • distesamente si racconterá appresso nel quarto canto di questo libro.
  • «Disse:--Beatrice, loda», cioè laudatrice, «di Dio vera»; quasi voglia
  • per questo intendere essere vere, e non lusinghevoli né fittizie, le
  • parole con le quali Beatrice loda Iddio. «Che non soccorri quei che
  • t'amò tanto», avanti che impedito fosse in quella valle tenebrosa,
  • «Ch'uscí per te della volgare schiera?», cioè, che per piacerti,
  • lasciati i riti del vulgo, si diede a costumi e a operazioni
  • laudevoli. «Non odi tu la pièta», cioè l'afflizione, «del suo pianto»,
  • il quale egli fa nella diserta piaggia? «Non vedi tu la morte, che 'l
  • combatte», cioè la crudeltá di quelle bestie, le quali con la paura di
  • sé il combattono e conduconlo alla morte, «Su la fiumana»: qui chiama
  • «fiumana» quello orribile luogo nel quale l'autore era da quelle
  • bestie combattuto, quasi quegli medesimi pericoli e quelle paure
  • induca la fiumana, cioè l'impeto del fiume crescente, il quale è di
  • tanta forza, che dir si può «ove», sopra la quale, «'l mar non ha
  • vanto?»--cioè non si può il mare vantare d'essere piú impetuoso o piú
  • pericoloso di quella.
  • «Al mondo non fûr mai persone ratte», cioè fûr sollecite, «A far lor
  • pro», loro utilitá, «ed a fuggir lor danno, Com'io», sollecitamente,
  • «dopo cotai parole fatte, Venni quaggiú», in inferno, «del mio beato
  • scanno», cioè del luogo mio, lá dove io in paradiso sedea, «Fidandomi
  • del tuo parlare onesto»; qui ancora Beatrice onora Virgilio, dicendo
  • il suo parlare essere onesto, il che di certi altri poeti non si può
  • dire; «Che onora te», Virgilio; e non solamente te, ma ancora «e quei
  • che udito l'hanno»,--e servato nella mente; percioché l'avere udito
  • senza averlo servato, e poi ad esecuzione in alcuno laudevole atto non
  • messo, non può avere onorato l'uditore. E mostra ancora in queste
  • poche parole precedenti l'ardente sua affezione verso l'autore, acciò
  • per quello faccia ancora piú pronto Virgilio al soccorso dell'autore.
  • «Poscia che m'ebbe», cioè Beatrice, «ragionato questo», che detto
  • t'ho, «Gli occhi lucenti lagrimosi volse», per avventura verso il
  • cielo, dove è qui da intendere che, detta la sua intenzione a
  • Virgilio, si ritornò. E in questo lagrimare ancora piú d'affezion si
  • dimostra, dimostrandosi ancora un atto d'amante, e massimamente di
  • donna, le quali, come hanno pregato d'alcuna cosa la quale disiderino,
  • incontanente lagrimano, mostrando in quello il disiderio suo essere
  • ardentissimo. Per la qual cosa dice Virgilio: «Per che mi fece del
  • venir piú presto: E venni a te», nella piaggia diserta, dove tu
  • rovinavi lá dove il sol tace, «cosí come ella vòlse»; quasi voglia
  • dire che altrimenti non sarei venuto. «Dinanzi a quella fiera», cioè a
  • quella lupa ferocissima, «ti levai, Che del bel monte», sovra 'l qual
  • tu vedesti i raggi del sole, «il corto andar ti tolse»; percioché, se
  • davanti parata non ti si fosse, in brieve spazio saresti potuto sopra
  • il monte essere andato; dove per lo suo impedimento, a volervi sú
  • pervenire, ti convien fare molto piú lungo cammino.
  • «Dunque, che è?» cioè quale cagion'è, «perché, perché ristai?» di
  • seguirmi; e reitera la interrogativa, per pungere piú l'animo
  • dell'uditore; «Perché», cioè per qual cagione, «tanta viltá», quanta
  • tu medesimo nelle tue parole dimostri, «nel cuor t'allette?», cioè
  • chiami colla falsa estimazione, la qual fai delle cose esteriori;
  • «Perché ardire e franchezza non hai?». E massimamente: «Poi che tali
  • tre donne benedette», quali di sopra detto t'ho, cioè quella donna
  • gentile, e Lucia e Beatrice, «Curan di te», cioè hanno sollecitudine
  • di te e procuran la tua salute, «nella corte del cielo», nella quale
  • sussidio non è mai negato ad alcuno che umilemente l'addomandi; e,
  • oltre a ciò, «E 'l mio parlar», al quale tu dovresti dare piena fede,
  • se tanto amore hai portato e porti alle mie opere (come davanti
  • dicesti: «Vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore», ecc.), «tanto
  • ben ti promette?»--cioè di conducerti salvamente in parte, della qual
  • tu potrai, se tu vorrai, salire alla gloria eterna.
  • «Quale i fioretti». Qui dissi cominciava la quinta parte di questo
  • canto, nella quale l'autore, per una comparazione, dimostra il perduto
  • ardire essergli ritornato e il primo proponimento. Dice adunque cosí:
  • «Quale i fioretti», li quali nascono per li prati, «dal notturno gelo.
  • Chinati, e chiusi»; percioché, partendosi il sole, ogni pianta
  • naturalmente ristrigne il vigor suo; ma parsi questo piú in una che in
  • un'altra, e massimamente nei fiori, li quali per téma del freddo,
  • tutti, come il sole comincia a declinare, si richiudono: «poi che 'l
  • sol gl'imbianca», con la luce sua, venendo sopra la terra. E dice
  • «imbianca», per questo vocabolo volendo essi diventar parventi, come
  • paiono le cose bianche e chiare, dove l'oscuritá della notte gli
  • teneva, quasi neri fossero, occulti. «Si drizzan tutti»; percioché,
  • avendo il gambo loro sottile e debole, gli fa il freddo notturno
  • chinare, ma, come il sole punto gli riscalda, tutti si drizzano,
  • «aperti in loro stelo», cioè sopra il gambo loro, «Tal mi fec'io»,
  • quale i fioretti, «di mia virtute stanca», per la viltá che m'era nel
  • cuor venuta; «E tanto buono ardire al cuor mi corse», per li conforti
  • di Virgilio, «Ch'io cominciai», a dire, «come persona franca», forte e
  • disposta ad ogni affanno:--«O pietosa colei», cioè Beatrice, «che mi
  • soccorse», col sollecitarti, e mandarti a me; «E tu», fosti, «cortese,
  • che ubbidisti tosto Alle vere parole, che ti porse!»; percioché, dove
  • venuto non fossi, io era veramente per perire. «Tu m'hai con disiderio
  • il cuor diposto Sí al venir con le parole tue», cioè con i tuoi ùtili
  • conforti e vere dimostrazioni, «Ch'io son tornato nel primo proposto»,
  • cioè di seguirti. «Or va', ch'un sol volere è d'amendue». Non si
  • potrebbe in altra guisa bene andare, se non fosser la guida e 'l
  • guidato in un volere. «Tu duca», quanto è nell'andare, «tu signore»,
  • quanto è alla preeminenza e al comandare, «e tu maestro»,--quanto è al
  • dimostrare; percioché uficio del maestro è il dimostrare la dottrina e
  • il solvere de' dubbi.
  • «Cosí gli dissi: e, poi che mosso fue». Qui comincia la sesta ed
  • ultima parte di questo canto, nella quale l'autore mostra come da capo
  • riprese il cammino con Virgilio. «Entrai», con Virgilio, «per lo
  • cammino alto», cioè profondo, «e silvestro», percioché in quello luogo
  • né albergo né abitazione alcuna si trovava.
  • II
  • SENSO ALLEGORICO
  • «Lo giorno se n'andava e l'aer bruno», ecc. È stato dimostrato dalla
  • ragione, nella fine del precedente canto, qual via al peccatore tener
  • gli convegna, per dover salire alla beata vita e partirsi della
  • miseria della tenebrosa valle. Per la qual dimostrazione, essendosi
  • esso messo dietro alla ragione in cammino, per continuarsi alle
  • predette cose, discrive l'autore, nel principio di questo secondo
  • canto, l'ora nella quale in questo cammino entrarono, la qual dice
  • essere stata nel principio della notte. Sono adunque, intorno alla
  • allegoria del presente canto, principalmente da considerare tre cose:
  • delle quali è la primiera qual ragione possa essere per la quale esso
  • di notte cominci il suo cammino; appresso è da vedere donde potesse
  • nascere la viltá, la qual dimostra nel dubbio il quale muove a
  • Virgilio; ultimamente è da vedere qual cagione movesse Virgilio, e
  • perché del limbo, a venire nel suo aiuto. Percioché, veduto questo,
  • assai chiaramente si vedrá per qual cagione da lui si rimovesse la
  • viltá sua.
  • È adunque intenzione dell'autore di dimostrare nella prima parte, che
  • dissi essere da considerare, che, quantunque l'uomo peccatore, tócco
  • dalla grazia operante di Dio, abbia tanto di conoscimento ricevuto,
  • ch'egli s'avvegga essere stato nelle tenebre della ignoranza, e per
  • quello in pericolo di pervenire in morte eterna, e disideri di
  • ritornare alla via della veritá e d'acquistare salute, e per questo
  • messo si sia dietro alla guida della ragione, in lui da lungo sonno
  • stata desta; non esser perciò incontanente tornato nello stato della
  • grazia, [se altro non s'adopera. E perciò, accioché in quella tornar
  • si possa, si vuole insiememente pregare Iddio col salmista, dicendo:
  • «_Domine, deduc me in iustitia tua: propter inimicos meos dirige in
  • cospectu tuo viam meam_»; e, oltre a questo, fare alcune altre cose,
  • secondo la dimostrazione della ragione. E queste sono, come altra
  • volta ho detto, il conoscere pienamente i difetti della vita passata,
  • e di quegli pèntersi e dolersi, e appresso nelle braccia rimettersene
  • della Chiesa, e al vicario di Dio confessarsene, disposto a satisfare.
  • E, questo fatto, potrá veramente credere sé essere nello stato della
  • grazia di Dio tornato, e le sue buone opere essere accettevoli e
  • piacevoli nel cospetto suo e valevoli alla sua salute. Ma, infino a
  • tanto che in questa grazia non è il peccatore ritornato, non può
  • andare per la via della luce, ma va per le tenebre notturno. E perciò,
  • per dovere tosto a quella grazia pervenire, dee il peccatore
  • ingegnarsi di fare ogni atto meritorio: far limosine, l'opere della
  • misericordia, usare alla chiesa, digiunare, orare, e simili cose
  • adoperare; percioché, quantunque senza lo stato della grazia a salute
  • non vagliano, sono nondimeno preparatorie a doversi piú prontamente e
  • piú prestamente menare a meritare e ad avere la divina grazia.] E
  • perciò, quantunque ad averla l'autore si disponga, percioché ancora
  • non l'ha, ne dimostra il principio del suo cammino cominciarsi di
  • notte.
  • Séguita di vedere, essendo l'autore giá entrato dietro alla ragione in
  • cammino, donde potesse nascere in esso la viltá d'animo, la qual
  • dimostra nel dubbio, il quale seco medesimo muove alla ragione: nel
  • quale assai manifestamente mostra lui ancora nello stato della grazia
  • non esser tornato, e per questo aver avuto in lui forza il sospettare
  • de' consigli della ragione. Per la qual cosa in molti avviene che, in
  • se medesimi raccolti, contro alle dimostrazioni della ragione
  • disputano; e di questo, considerata la nostra fragilitá, non ci
  • dobbiamo noi per avventura molto maravigliare. E la ragione può esser
  • questa. Assai manifesta cosa è, eziandio in ciascun costante uomo, nel
  • mutamento d'uno stato ad un altro alquanto gli uomini vacillare e
  • stare in pendente, s'è il migliore o non è, dello stato nel quale si
  • trova, trapassare ad un altro, o pure in quel dimorarsi. E non è alcun
  • dubbio che, stando l'uomo in pendente, che ogni piccola sospinta il
  • può muovere e farlo piú nell'una parte che nell'altra pendere. Avviene
  • adunque che quegli, i quali, come detto è, seco talvolta raccolti
  • sono, quantunque vere conoscano le dimostrazioni della ragione e santi
  • i suoi consigli, nondimeno d'altra parte, ascoltando le lusinghe della
  • blanda carne, i conforti del mondo, le persuasioni del diavolo, a poco
  • a poco cacciando della mente loro il fervor preso del bene adoperare,
  • non fermato ancora da alcun forte proponimento, intiepidiscono e
  • divengon vili e timidi; avvisando, per li conforti de' suoi nemici, sé
  • non dovere poter bastare a quello che il bene adoperare e lo stato
  • della penitenza richiede. Per la qual viltá, se da solenne aiuto
  • cacciata non è, assai leggiermente miseri volgiamo i passi e nella
  • nostra morte ci ritorniamo. La qual cosa all'autore avvenia, se le
  • pronte e vere dimostrazioni della ragione non l'avesser ritenuto e
  • confortato a seguitar l'impresa.
  • Ultimamente dissi che era da vedere qual cagione movesse Virgilio, e
  • perché del limbo, a venire in aiuto dell'autore: alla qual
  • dimostrazione tiene questo ordine l'autore. E' pare essere assai
  • manifesto che ciascheduno, il quale, dalla grazia operante di Dio
  • tócco, si desta e vede la miseria nella quale le sue colpe l'hanno
  • condotto, e, cacciate le tenebre della ignoranza, conosce in quanto
  • mortal pericolo posto sia; che egli, dopo alcuna paura, disideri
  • fuggire il pericolo e ricorrere alla sua salute: il che, non che
  • l'uomo, ma eziandio ogni altro animale naturalmente procura. E questo
  • assai bene apparisce l'autore aver cominciato a fare nel principio
  • della presente opera, in quanto, desto e conosciuto il suo malvagio
  • stato, ha cominciato a fuggire il pericolo, e mostra di disiderare di
  • pervenire alla salute: e ora in questa parte ne mostra quale dee
  • essere quello che ciascuno, il quale questo disidera, dee, sí come piú
  • presto e piú al suo bisogno opportuno, fare. E ciò mostra dovere
  • essere l'orazione; percioché non si può cosí prestamente ricorrere
  • all'altre cose necessarie alla salute come a quella; e, come che
  • ancora questo si potesse, non pare ben si proceda, se questa non va
  • avanti. Alla quale eziandio la natura c'induce, sí come noi per
  • esperienza veggiamo, percioché, incontanente che alcuna cosa sinistra
  • veggiamo contro a noi muoversi, subitamente preghiamo per lo divino
  • aiuto. La qual cosa per avventura vuol mostrar d'aver fatta l'autore
  • in quelle parole del primo canto, dove dice: «Guardai in alto e vidi
  • le sue spalle»; percioché atto è di coloro, li quali adorano, levare
  • il viso al cielo, accioché in quell'atto parte della loro affezione
  • dimostrino. E a questo, che noi oriamo e preghiamo ne' nostri bisogni,
  • ne sollecita Gesú Cristo nell'Evangelio, dove dice: «_Pulsate et
  • aperietur vobis, petite et dabitur vobis_». È il vero che l'orazione
  • almeno queste due cose vuole avere annesse, fede e umiltá; percioché
  • chi non ha fede in colui il quale egli priega, cioè ch'egli possa fare
  • quello che gli è domandato, non pare orare, anzi tentare e schernire.
  • La qual fede quanto fervente e ferma fosse, apparve nella femmina
  • cananea, la quale, ancora che non fosse del popolo di Dio, nondimeno
  • tanta fede ebbe in Gesú Cristo, che istantissimamente il pregò che
  • liberasse la figliuola dal dimonio che la 'nfestava; e, non essendole
  • da Cristo alcuna cosa risposto, la intera fede la fece ferma e
  • costante di perseverare nel priego incominciato. Alla quale avendo
  • Cristo risposto che non si volea prendere il pane dei figliuoli e
  • darlo a' cani, non lasciando per questa repulsa, e sospignendola la
  • sua fede, continuò nel pregare. E, avendo affermato quello, che Cristo
  • avea detto, esser vero, disse:--Signor mio, e i cani, che si allevano
  • nella casa, mangiano delle miche che caggiono della mensa del signor
  • loro.--Volendo per questo dire:--Io cognosco che io non sono del popol
  • tuo, il quale tu tieni per figliuolo, e perciò non debbo il pane de'
  • tuoi figliuoli avere; ma io sono uno de' cani allevato in casa tua;
  • non mi negare quello che a' cani si concede, cioè delle miche che
  • caggiono dalla mensa tua.--La cui ferma fede conoscendo Cristo, non le
  • volle, quantunque de' suoi figliuoli non fosse, negare la grazia
  • addomandata; ma, rivolto a lei, disse:--Femmina, grande è la fede tua:
  • va', e cosí sia fatto come tu hai creduto.--E quella ora fu dal
  • dimonio liberata la figliuola di lei.
  • Vuole adunque l'orazione farsi con fede, e ancora, sí come voi vedete,
  • con istanzia; percioché Cristo vuole alcuna volta essere sforzato, non
  • perché la liberalitá sua sia minore, o men volentieri faccia
  • l'addomandate grazie, ma per fare la nostra perseveranza maggiore e
  • accioché piú caramente riceviamo quello che con istanzia impetriamo.
  • Vuole ancora l'orazione esser umile, percioché alcuna nobiltá di
  • sangue, né abbondanza di sustanze temporali, né magnificenza
  • d'imperiale o di reale eccellenza la potrebbe di terra levare un
  • attimo. L'umiltá sola è quella che l'impenna, e falla infine sopra le
  • stelle volare e quella condurre agli orecchi del Signor del cielo e
  • della terra. Gran forze son quelle dell'umiltá nel cospetto di Dio: e
  • come che assai in ciascuna cosa che l'uom vorrá riguardare appaia,
  • nondimeno mirabilmente il dimostrò nella sua incarnazione; percioché
  • non real sangue, non etá, non bellezza, non simplicitá, ma sola umiltá
  • riguardò in quella Vergine, nella quale Egli, di cielo in terra
  • discendendo, incarnò e prese la nostra umanitá; sí come essa medesima
  • Vergine testimonia nel suo cantico, quando dice: «_Respexit
  • humilitatem ancillae suae_»; per che da questa parola degnamente essa
  • medesima segue: «_Deposuit potentes de sede et exaltavit humiles_».
  • Fece adunque il nostro autore fedele ed umile orazione a Dio per la
  • salute sua: la quale, sí come esso medesimo scrive, salí in cielo nel
  • cospetto di Dio guidata dall'umiltá; percioché, come vedere abbiam
  • potuto nel precedente canto, l'autore non solamente avea cacciata da
  • sé la superbia, ma avea paura di lei e fuggivala. E come dobbiamo noi
  • credere la pietosa e divota orazione guidata dall'umiltá essere
  • ricevuta in cielo? Certo, non altrimenti che ricevuto fosse il
  • figliuol prodigo dal pietoso padre, del quale il santo Evangelio ne
  • dimostra. Fece il pietoso padre uccidere il vitello sagginato, fece
  • parare il convito, fece chiamare gli amici, e con loro si rallegrò e
  • fece festa di avere racquistato il suo figliuolo, il quale gli pareva
  • aver perduto. Cosí si dee credere l'onnipotente Padre aver fatto in
  • cielo, sentendo per la divota orazione colui alla via della veritá
  • ritornare, il quale del tutto partito se n'era e ogni sua grazia avea
  • dispersa e gittata via. Che festa ancora dobbiam credere averne fatta
  • gli angeli di vita eterna? la letizia de' quali è maggiore sopra un
  • peccatore che torni a penitenzia, che sopra novantanove giusti. Posta
  • dunque l'orazione nel cospetto di Dio, quivi, dolendosi del malvagio
  • stato di colui che la manda, priega; appresso e quello di che ella
  • priega scrive l'autore, dicendo che ella chiede in sua dimanda Lucia
  • e, come suo fedele e che ha di lei bisogno, a lei il raccomanda. E
  • cosí dovemo intendere quella donna gentile essere la santa orazione
  • fatta dal peccatore, e in questa parte dovemo intendere per Lucia la
  • divina clemenza, la divina misericordia, la divina benignitá, la qual
  • veramente è nimica di ciascun crudele, percioché in alcun crudele né
  • pietá né misericordia si trova giammai.
  • Appare adunque per questo che l'orazione dell'autore addomandasse
  • misericordia, per la qual sola noi possiamo, avendo peccato, nella
  • grazia di Dio ritornare; percioché egli è tanta la indegnitá e la
  • iniquitá del peccatore in adoperare contro a' comandamenti di Dio,
  • che, se la sua misericordia non fosse, alcun nostro merito mai ci
  • potrebbe nel suo amore ritornare.
  • Quinci, per le cose che seguitano, appare il Nostro Signore aver
  • prestati benignamente gli orecchi della sua divinitá a' prieghi fatti
  • dall'umile orazione, in quanto dice l'autore che Lucia, cioè la divina
  • misericordia, chiamò Beatrice, cioè se medesima dispose a mettere in
  • atto il priego ricevuto: il che appare, in quanto Beatrice, che quivi
  • la grazia salvificante o vogliam dire beatificante s'intende, alla
  • salute del pregante si dispose: il che dallo intrinseco della divina
  • mente procedette. Grande è per certo, come dice san Gregorio, la virtú
  • della orazione, la quale, fatta in terra, adopera in cielo: il che qui
  • manifestamente appare, sí come al peccatore è dimostrato; percioché la
  • forza della sua orazione ha rotto e annullato il duro giudicio di Dio,
  • nel quale esso Iddio vuole che il peccatore sia punito; e l'umile
  • orazione ha tanto potuto che, rotto questo giudicio, al peccatore, in
  • luogo della pena, è conceduta misericordia; e non solamente
  • misericordia, ma ancora preparatagli e mostratagli la via da pervenire
  • a salvazione. Che adunque avviene? Che, per lo desiderio della salute
  • sua, la divina bontá fa che, per la grazia salvificante, si muove
  • Virgilio del limbo: il quale qui si prende per la ragione, per la
  • quale noi siamo detti «animali razionali», o vogliam dire, per la
  • grazia cooperante, o vogliam dire l'una e l'altra insieme;
  • conciosiacosaché alcuno piú atto luogo in noi io non cognosca, dove la
  • grazia cooperante mandatane da Dio si debba piú tosto ricevere che
  • nella sedia della ragione; conciosiacosaché essa, dopo la grazia
  • operante ben ricevuta, ogni bene in noi disponga e ordini, e con noi
  • insieme adoperi.
  • E, a dichiarare come Virgilio del limbo sia mosso, è da sapere, come
  • giá dicemmo, esser due mondi: l'uno si chiama il maggiore e l'altro il
  • minore, sí come ne mostra Bernardo Silvestre in due suoi libri, de'
  • quali il primo è intitolato _Megacosmo_ da due nomi greci, cioè da
  • «_mega_», che in latino viene a dire «maggiore», e da «_cosmos_», che
  • in latino viene a dire «mondo»: e il secondo è chiamato _Microcosmo_,
  • da «_micros_», greco, che in latino viene a dire «minore», e
  • «_cosmos_», che vuol dire «mondo». E, ne' detti libri, ne dimostra il
  • detto Bernardo il maggior mondo esser questo il quale noi abitiamo, e
  • che noi generalmente chiamiamo «mondo», e il minor mondo esser l'uomo,
  • nel quale vogliono gli antichi, sottilmente investigando, trovarsi
  • tutti o quasi tutti gli accidenti che nel maggior mondo sono. Ed è del
  • maggior mondo quella parte chiamata «limbo», la quale non ha sopra di
  • sé altra cosa, che il cerchio della circunferenza della terra, o la
  • estrema superficie della terra che noi vogliam dire. E, quantunque
  • l'autore, secondo la sentenza litterale, mostri Virgilio essere nel
  • limbo, [cioè nell'uno] del maggior mondo, non è da intendere che
  • quindi fosse mossa la ragione da Beatrice, ma fu mossa dal limbo del
  • mondo minore, cioè dalla piú eminente parte dell'uomo, la quale è il
  • cerebro, sopra il quale nulla altra cosa è del nostro corpo, se non il
  • cranio e la cotenna; percioché in quello fu da Dio locata la ragione.
  • E questo, percioché ad essa è stata commessa la guardia di tutto il
  • corpo nostro, e, oltre a ciò, il dominio a dovere regolare i movimenti
  • della nostra sensualitá, sí come ad ottima distinguitrice delle cose
  • nocive dall'utili. E convenevole cosa è che colui al quale è commessa
  • la guardia d'alcuna cosa, che egli stea nella piú sublime parte di
  • quella, accioché esso possa vedere e discernere di lontano ogni cosa
  • emergente, e a quelle cose, che fossero avverse alla cosa la qual
  • guarda, opporsi e trovar rimedio, per lo quale da sé le dilunghi: la
  • qual cosa ne' sensati uomini ottimamente fa la ragione posta nella
  • superiore parte di noi. Oltre a questo, come il savio re pone il suo
  • real solio in quella parte del suo regno, nella qual conosce esser di
  • maggior bisogno la sua presenza, accioché per questa si tolgan via le
  • sedizioni e i movimenti inimichevoli, fu di bisogno la ragione esser
  • posta nel cerebro, percioché qui vi è piú di pericolo che in tutto il
  • rimanente del nostro corpo. E la ragione è, percioché nella nostra
  • testa son gli occhi, gli orecchi, la bocca e tutti gli altri sensi del
  • corpo, li quali con ogni istanzia nutricano il regno della ragione. E
  • perciò, se loro vicina non fosse, potrebbon muovere cose assai
  • dannose, dove dalla ragione sono oppresse e diminuite le forze loro. E
  • questa sedia della ragione essere nel nostro cerebro, e perché quivi,
  • ottimamente sotto maravigliosa fizione dimostra Virgilio nel primo
  • dell'_Eneida_, dove dice:
  • _Aeoliam venit: hic vasto rex Aeolus antro_, ecc.,
  • e, appresso a questo, in piú altri versi.
  • È adunque nel limbo, cioè nella superior parte di questo minor mondo,
  • la ragione, e quindi la muove la grazia salvificante in soccorso del
  • peccatore. Il quale movimento non si dee altro intendere se non un
  • rilevarla dallo infimo e depresso stato nel quale lungamente tenuta
  • l'aveano l'appetito concupiscibile e irascibile, e, lei sotto i piedi
  • delle loro scellerate operazioni tenendo, aveano occupata la sedia
  • sua; e questo per tanto tempo, che essa, non potendo il suo oficio
  • esercitare, era tacendo divenuta fioca, cioè nell'esser fioca
  • dimostrava la lunghezza della sua servitudine: e, cosí rilevatala, in
  • essa pone la grazia cooperante, e parala dinanzi allo smarrito
  • intelletto del peccatore. E di questo non è alcun dubbio che noi,
  • quante volte ci ravveggiamo delle nostre disoneste operazioni, tante
  • per divina grazia ricominciamo ad essere uomini, i quali non siamo
  • quanto nella ignoranza de' peccati dimoriamo: anzi, avendo la ragion
  • perduta, siamo divenuti quegli animali bruti, a' quali, come altra
  • volta è detto, sono i nostri difetti conformi. Il che se altra
  • dottrina non ci mostrasse, spesse volte ne 'l mostrano le poetiche
  • fizioni, quando ne dicono alcuno uomo essersi trasformato in lupo,
  • alcuno in leone, alcuno in asino o in alcun'altra forma bestiale. E
  • come la ragione dalla grazia salvificante è nella sua real sedia
  • rimessa, fatta donna e consultrice e aiutatrice del peccatore, il
  • toglie co' suoi ammaestramenti dinanzi a' vizi, li quali gli hanno
  • tolta la corta salita al monte, cioè al luogo della sua salute. E
  • «corta» dice, percioché agli uomini, li quali in istato d'innocenzia
  • vivono, è il salire a questo monte leggerissimo, sí come il salmista
  • ne mostra, lá dove dice: «_Quis ascendet in montem Domini, aut quis
  • stabit in loco sancto eius?_». E rispondendo alla domanda, quello
  • n'afferma che io dico, dicendo: «_Innocens manibus et mundo corde, qui
  • non accepit in vano animam suam, nec iuravit in dolo proximo suo_»; ma
  • a coloro diventa molto lunga, i quali ne' peccati miseramente vivono.
  • E, oltre a questo, riprende e morde la viltá dell'animo di quegli, i
  • quali, tirati dalle mollizie del mondo, del divino aiuto mostran di
  • disperarsi; mostrando loro come, per loro [l']umile orazione, la
  • misericordia di Dio e la grazia salvificante procurin per loro nel
  • cospetto di Dio; mostrando ancora come sicuramente ad ogni affanno
  • metter si possano, avendo sé, cioè, la grazia cooperante, con loro e
  • in loro aiuto e consiglio.
  • Maraviglierannosi per avventura alcuni, e diranno:--A che era di
  • bisogno che la grazia salvificante movesse o rilevasse la ragione
  • nell'autore?--Alla qual domanda è la risposta prontissima. Vuole cosí
  • la ragion delle cose che, negli atti morali, sí come questo è, noi non
  • possiamo alcuna cosa bene adoperare né con ordine debito, se noi
  • primieramente non cognosciamo il fine al qual noi dobbiamo adoperare;
  • percioché la notizia di quello ha a causare i nostri primi atti, e di
  • quindi ad ordinare quegli che appresso a' primi e susseguentemente
  • deono seguire. Come comporrá il cirugico il suo unguento, o il fisico
  • la sua medicina, se prima il cirugico non vede il malore, il fisico
  • l'umore da purgare? Come dará il nocchiere la vela del suo legno a'
  • venti, se esso primieramente non avrá conosciuto e disposto in qual
  • contrada esso voglia pervenire? Come fará l'architetto fondare un
  • edificio, o preparar la materia da edificarlo, se egli primieramente
  • non sa che spezie d'edificio debba esser quello che far si dee?
  • Conciosiacosaché altra forma e altro maestro voglia un tempio che un
  • palagio reale, e altra forma il palagio che una casa cittadinesca. È
  • adunque di necessitá primieramente cognoscere il fine, che noi pognamo
  • alcuno nostro atto in opera. E perciò, se ben guarderemo, se il
  • disiderio del peccatore è di salvarsi, esser la grazia salvificante
  • causativa di quelle nostre operazioni, le quali a salute ci possan
  • perducere; e di queste nostre operazioni conviene che sia
  • dimostratrice e ordinatrice la ragione: e però la ragione è la prima
  • cosa causata dalla grazia salvificante, la quale l'autor mostra in
  • persona di Beatrice venire a muover Virgilio. E questo scendere non si
  • dee intendere essere stato attuale; ma semplicemente la volontá di
  • Dio, provocata dall'umile orazione del peccatore a misericordia, è
  • causativa di questo rilevamento della ragione, in quanto in essa sta
  • il concedere la grazia salvificante. Adunque, avvicinandosi alla
  • conclusione, dico l'autore, per le riprensioni della ragione in lui
  • ritornata, e per gli ammonimenti di lei, avere la viltá, presa da'
  • malvagi conforti de' nostri nemici, posta giú e cacciata da sé;
  • riprende, per lo sano consiglio della ragione, il vigore e la forza
  • smarrita, e nel primo suo buono proponimento si ritorna, e, ad ogni
  • fatica per acquistar salute disposto, con la ragione insieme riprende
  • il cammino. E questa si può dire essere interamente l'esposizione
  • allegorica del presente canto. Né sia alcuno sí poco savio, che creda
  • queste cose, quantunque mostrino nel descriversi aver certe
  • interposizioni di tempo, non doversi poter fare senza la dimostrata
  • interposizione; percioché egli è possibile di muovere la divinitá, e
  • d'aver veduto ciò che l'autore dee nello 'nferno vedere, e di
  • pervenire alla porta di purgatorio, e ancora di salire in cielo, quasi
  • in un momento, pure che la contrizione sia grande e il fervore della
  • caritá ferventissimo e intero, come di molti abbiam giá letto essere
  • stato.
  • CANTO TERZO
  • I
  • SENSO LETTERALE
  • [Lez. IX]
  • «Per me si va nella cittá dolente», ecc. In questo canto ne racconta
  • l'autore come alla porta dello 'nferno pervenissero, e come dentro ad
  • essa fosse da Virgilio menato, e quivi vedesse i cattivi miseramente
  • afflitti, e ultimamente pervenissero al fiume d'Acheronte. E dividesi
  • questo canto in due parti: nella prima mostra come alla prima porta
  • dello 'nferno pervenisse, e dentro a quella fosse da Virgilio menato;
  • nella seconda parte discrive quello che dentro della porta udisse e
  • vedesse. E comincia quivi: «Quivi sospiri, pianti ed alti guai».
  • Adunque nella prima parte, continuandosi a quello che nella fine del
  • precedente canto ha detto, cioè come con Virgilio entrasse in cammino,
  • dice dove pervenne, cioè alla prima porta dell'entrata d'inferno;
  • sopra la qual, dice, vide scritto: «Per me», cioè per entro me, «si va
  • nella cittá dolente», cioè nella cittá di Dite, dolente in perpetuo
  • per li dannati spiriti li quali dentro vi sono; della qual cittá,
  • percioché pienamente se ne scriverá in questo libro appresso nel canto
  • ottavo, qui non curo di dirne alcuna cosa; «Per me si va nell'eterno
  • dolore», al quale dannati sono coloro li quali muoiono nell'ira di
  • Dio; «Per me si va tra la perduta gente». Dice «perduta», percioché
  • alcuna potenza di bene adoperare non è in loro; e questi cotali
  • meritamente si posson dir perduti. «Giustizia mosse», a farmi: e la
  • giustizia che 'l mosse fu la superbia del Lucifero, la quale meritò
  • eterno supplicio; il quale Iddio volle tanto da sé dilungare, quanto
  • piú si potea, e perciò, nel centro della terra gittatolo, quivi la sua
  • prigione fece, e volle quella similmente esser prigione di tutti
  • quegli li quali contro alla sua deitá operassero; «il mio alto
  • Fattore», cioè Iddio; «Fecemi la divina Potestate», cioè Iddio Padre,
  • al quale è attribuita ogni potenza; «La somma Sapienzia», cioè il
  • Figliuolo, il quale è sapienza del Padre, «e 'l primo Amore», cioè lo
  • Spirito santo, il quale è perfettissima caritá, igualmente moventesi
  • dal Padre e dal Figliuolo. E cosí appare questa porta essere stata
  • fatta dalla Trinitá è a dimostrare che chi offende in alcuna cosa
  • Iddio offenda queste tre persone, e perciò da tutte e tre essere
  • quello luogo composto, dove gli offenditori in perpetuo fuoco sono
  • dannati.
  • «Dinanzi a me», porta, «non fûr cose create Se non eterne». Cosí
  • mostra questo luogo essere stato prima creato da Dio che fosse creato
  • l'uomo, il quale, quanto è al corpo, non è eterno; e che fosse creato
  • poi che fu creato il cielo e la terra e gli angioli, i quali sono
  • eterni. [E percioché come parte degli angioli peccarono, che peccarono
  • prima che l'uomo fosse fatto, fu, come detto è, di presente creato
  • questo luogo in lor prigione e supplicio; quantunque i santi tengano
  • questo aere tenebroso essere pieno di quegli, come appresso piú
  • distesamente alquanto si dirá.] E in quanto l'autore dice qui
  • «eterne», favella di licenza poetica impropriamente, come assai spesso
  • si fa: percioché l'essere eterno a cosa alcuna non s'appartiene, se
  • non a quella la quale non ebbe principio né dee aver fine, e questa è
  • solo Iddio; gli angioli e le nostre anime, e certe altre creature da
  • Dio immediatamente create, e quantunque mai fine aver non debbano,
  • percioché ebber principio, non si deono propriamente parlando dire
  • «eterne», ma «perpetue». «Ed io eterna duro», sí come opera creata da
  • Dio senza alcun mezzo; percioché per li dottori si tiene ciò, che
  • immediatamente fu o sará creato da Dio, è eterno. «Lasciate ogni
  • speranza, o voi ch'entrate», dentro di me, «_quia in inferno_ _nulla
  • est redemptio_», se ciò di potenza assoluta Iddio non facesse, come
  • fece de' santi padri, li quali ne trasse quando giá risuscitato da
  • morte spogliò il limbo.
  • «Queste parole», sopra dette, «di colore oscuro», conforme alla
  • qualitá del luogo nel quale per quella porta s'andava, «Vid'io scritte
  • al sommo d'una porta», cioè a quella per la quale in inferno
  • s'entrava; «Perch'io» (_supple_) dissi:--«Maestro», Virgilio; e ben fa
  • qui a chiamarlo «maestro», percioché a' maestri si vogliono muovere i
  • dubbi e da loro aspettar le chiarigioni; «Il senso lor», cioè quello
  • che dir vogliono, «m'è duro»,--cioè malagevole ad intendere.
  • «E quegli», cioè Virgilio, «a me» (_supple_) rispose, «come persona
  • accorta», cioè intendente:--«Qui», cioè in questa entrata, «si convien
  • lasciare ogni sospetto», accioché sicuro si vada; «Qui si convien
  • ch'ogni viltá», d'animo, «sia morta», cioè cacciata da colui il quale
  • vuole entrare qua dentro. E son queste parole prese dal sesto
  • dell'_Eneida_, dove la Sibilla dice ad Enea:
  • _Nunc animis opus, Aenea, nunc pectore firmo_.
  • «Noi siam venuti al luogo ov'io t'ho detto», cioè all'inferno, del
  • quale vicino al fine del primo canto gli disse; «Che vederai le genti
  • dolorose, C'hanno perduto», per li lor peccati, «il ben
  • dell'intelletto»,--cioè Iddio, il quale è via, veritá e vita: [e il
  • ben dell'intelletto è la veritá, per la quale tutti per diverse vie ci
  • fatichiamo, e pochi alla notizia di quella pervengono].
  • «E poi che la sua mano alla mia pose Con lieto viso, ond'io mi
  • confortai». Qui assai manifestamente n'ammaestra l'autore con che viso
  • noi dobbiamo mettere, chi ne segue, nelle dubbiose cose; e dice che
  • dee esser con lieto, percioché dal viso lieto del duca prende conforto
  • e sicurtá chi segue, dove, non avendolo lieto, coloro che a lui
  • riguardano assai leggiermente impauriscono e diventano vili: come noi
  • leggiamo le legioni romane, da' contrari auspizi e dal viso di
  • Flaminio consolo turbato, invilite, da Annibale allato al lago
  • Trasimeno essere state sconfitte. Dice adunque di sé l'autore che,
  • vedendo nell'entrata di cosí dubbioso luogo lieto Virgilio, egli si
  • confortò tutto.
  • «Mi mise dentro alle segrete cose». Segrete sono in quanto agli occhi
  • mortali manifestar non si possono, percioché cosí i tormenti, come i
  • tormentati e i tormentatori ancora tutti, son cose spirituali e
  • invisibili a noi, e quinci segrete; quantunque gli effetti di quelle,
  • secondo che mostrar si possono per iscritture e per ammaestramenti di
  • santi uomini, tutto il dí ci sieno aperti e palesati.
  • «Quivi sospiri, pianti ed alti guai». Qui incomincia la seconda parte
  • del presente canto, nella qual dissi che si discrivea quello che
  • l'autore nella entrata dello 'nferno avea veduto e udito. E dividesi
  • questa parte in sette: percioché nella prima l'autor pone molti
  • dolorosamente dolersi; nella seconda gli dichiara Virgilio chi questi
  • sieno che cosí si dolgono; nella terza discrive l'autore la pena dalla
  • quale questi son tormentati; nella quarta dice l'autore sé aver vedute
  • molte anime correre ad un fiume; nella quinta dice sé essere a questo
  • fiume pervenuto, e non averlo voluto passare dall'altra parte un
  • nocchiere, che tutti gli altri in una sua barca passava; nella sesta
  • gli apre Virgilio perché Carón non l'ha voluto passare; nella settima
  • ed ultima mostra l'autore sé, per un tremor della terra e poi da un
  • baleno, essere stato vinto e caduto. La seconda comincia quivi: «Ed
  • egli a me:--Questo misero modo»; la terza quivi: «Ed io che
  • riguardai»; la quarta quivi: «E poi ch'a riguardare»; la quinta quivi:
  • «Ed ecco verso noi»; la sesta quivi: «Figliuol mio,--disse»; la
  • settima ed ultima quivi: «Finito questo».
  • Dice adunque cosí: «Quivi», cioè nella prima entrata dello 'nferno,
  • «sospiri, e pianti». «Pianto» è quello che con rammarichevoli voci si
  • fa, quantunque il piú i volgari lo 'ntendano ed usino per quel pianto
  • che si fa con lacrime. «E alti guai»: questi appartengono ad ogni
  • spezie di dolore e massimamente a quello che con altissime voci e
  • dolorose si dimostra; «Risonavan per l'aere senza stelle», cioè
  • oscuro, ed al cospetto del cielo chiuso, «Perch'io, al cominciar, ne
  • lagrimai». Ecco una delle fatiche dell'animo, la quale predisse nel
  • cominciamento del secondo canto gli s'apparecchiava. «Diverse lingue»,
  • cioè diversi idiomi, per la diversitá delle nazioni dell'universo, le
  • quali tutte quivi concorrono; «orribili favelle», cioè spaventevoli,
  • come son qui tra noi quelle de' tedeschi, li quali sempre pare che
  • garrino e gridino, quando piú amichevolmente favellano; «parole di
  • dolore», cioè significanti dolore, «accenti d'ira»; accento è il
  • profferere, il quale facciamo alto o piano, [acuto o grave o
  • circunflesso;] ma qui dice che erano d'ira, per la quale si sogliono
  • molto piú impetuosi fare che, senza ira parlando, non si farieno;
  • «Voci alte», per le punture della doglia, «e fioche»; suole l'uomo per
  • lo molto gridare affiocare; «e suon di man», come soglion far le
  • femmine battendosi a palme, «con elle», cioè con quelle voci: le quali
  • cose intra sé diverse, non melodia, come soglion fare le voci
  • misurate, ma «Facevano un tumulto», cioè una confusione; «il qual
  • s'aggira»; percioché il luogo è ritondo, ed essendo da quel tumulto
  • l'aere percosso, e non avendo alcuna uscita, è di necessitá che per lo
  • luogo s'aggiri e prenda moto circulare; «Sempre in quell'aria, senza
  • tempo tinta», cioè mutata per contrarietá di venti o d'altro
  • accidente, «Come la rena quando turbo spira». Dimostra qui l'autore,
  • per una breve comparazione, il moto di quel tumulto, come sopra dissi,
  • esser circulare, e di quella forma che noi veggiamo talvolta muovere
  • in cerchio la polvere sopra la superficie della terra; e questo
  • massimamente avvenire, quando un vento, il quale si chiama da' suoi
  • effetti «turbo», spira. Il quale non pare avere alcuno ordinato
  • movimento, come gli altri hanno, percioché non viene da diterminata
  • parte, ma essendo la esalazion calda e secca, ché dalla terra surge in
  • alto, pervenuta alla freddezza d'alcun nuvolo, e da quella a parte a
  • parte cacciata, diviene vento; il quale, lá dove s'ingenera, prende
  • moto circulare, e per questo non è universale, anzi è solamente in
  • quella parte dove generato è, intanto che in una medesima piazza noi
  • il vedremo in una parte di quella e non in un'altra; e, percioché la
  • esalazione è a parte a parte repulsa dal nuvolo, il veggiam noi per
  • certi intervalli far queste circulazioni sopra la terra. E questo
  • vento, come noi il chiamiamo «turbo», Aristotile il chiama «tifone»
  • nella sua _Meteora_, dove chi vuole può pienamente vedere di questa
  • materia.
  • «Ed io, ch'avea d'orror», cioè di stupore, «la testa cinta», cioè
  • intorniata; e questo dice per lo moto circulare di quel tumulto;
  • «Dissi:--Maestro, che è quel ch'io odo?», che fa questo tumulto, «E
  • che gent'è», questa, «che par nel duol sí vinta?»,--secondo che le
  • loro voci manifestano.
  • «Ed egli a me». In questa seconda parte della sua divisione dichiara
  • Virgilio all'autore chi sien costoro de' quali esso dimanda. «Ed
  • egli», cioè Virgilio, «a me» (_supple_) rispose:--«Questo misero
  • modo», il quale tu odi e del quale tu se' stupefatto, «Tengon l'anime
  • triste di coloro, Che visser senza infamia», d'alcuna loro malvagia
  • operazione, percioché, quantunque buone non fossero, erano intorno a
  • sí bassa e misera materia, che di sé non davano alcuna cagion di
  • parlare, e perciò si può dire che senza infamia vivessero; «e senza
  • lodo», cioè senza fama, percioché, come del loro male adoperare è
  • detto, il simigliante dir si può se alcun bene adoperavano.
  • Ma da vedere è che gente questa può essere. E, se io estimo bene,
  • questa mi pare quella maniera d'uomini, li quali noi chiamiamo
  • «mentacatti» o vero «dementi», li quali, ancora che abbiano alcun
  • senso umano, per molta umiditá di cerebro hanno sí il vigore del cuore
  • spento, che cosa alcuna non ardiscono d'adoperare degna di laude, anzi
  • si stanno freddi e rimessi, ed il piú del tempo oziosi, quantunque
  • talvolta sospinti sieno dal disiderio di dovere alcuna cosa adoperare;
  • di che quello segue che l'autore ne dice, cioè «Che visser senza
  • infamia e senza lodo».
  • «Mischiate sono», queste misere anime, «a quel cattivo coro». «Coro»
  • [si dice propriamente un'adunazion d'uomini, li quali in figura di
  • cerchio sieno congiunti insieme; o «coro» è detto quello luogo nel
  • quale stanno nelle chiese coloro che cantano, il quale ha figura di
  • mezzo cerchio: e qui si potrebbe prendere per ciascuno di questi due
  • significati, percioché, considerato il movimento di questi spiriti, il
  • quale è circulare, come appresso si dimostrerá, si può il loro dir
  • «coro»; e se per altro significato il vorrem prendere, quello di
  • costoro potrem dire «coro», cioè loro essere ordinati a modo di coro,
  • ma non a cantare, anzi a piangere miseramente e in eterno.] «Cattivo»
  • il chiama per la similitudine, la quale hanno quegli spiriti con
  • queste anime de' cattivi, le quali con loro son mischiate; e in tanto
  • sono lor simili, in quanto non seppero diliberare che farsi nel tempo
  • della rebellione del Lucifero, ma si stettero freddi e timidi, senza
  • diliberare di tenersi con Dio come doveano, o di seguire il Lucifero
  • come non doveano.
  • «Degli angeli». Questo nome angelo è derivato da un nome greco, cioè
  • «_aggelos_», il quale in latino viene a dire «nunzio» o «ambasciadore»
  • o «messo»: e percioché essi quello oficio appo il diavolo fanno, cioè
  • d'esser mandati, che appo Iddio fanno i buoni angeli, quel nome antico
  • d'angeli ritenuto s'hanno e ritengono, quantunque sieno divenuti
  • dimòni [e, secondo che alcun santo vuole, questo nome non è loro
  • attribuito giammai, se non quanto sono in alcuna commissione loro
  • fatta da Dio; la qual finita, non si chiama piú angelo, ma spirito
  • beato].
  • «Che non furon ribelli», (_supple_) a Dio, «Né fûr fedeli a Dio, ma
  • per sé fôro»: non tenner costoro né con Dio né col diavolo.
  • [Ed accioché qui alcuno per men che bene intendere non errasse, è da
  • sapere non essere state che due maniere di angeli, sí come il Maestro
  • ne dimostra nel secondo delle _Sentenzie_, e di queste due l'una non
  • peccò, e però appresso a Dio si rimase in paradiso; l'altra che peccò,
  • tutta fu gittata fuori di paradiso, e cadde, e questo aere tenebroso
  • propinquo alla terra riempié; e questo affermano i santi esserne
  • pieno. E da questi talvolta muovono le tempeste e le impetuose
  • turbazioni che nell'aere sono e in terra discendono; e da questi
  • dicono noi essere tentati e stimolati, e venire quelle illusioni dalle
  • quali i non molto savi son talvolta beffati e scherniti. Concedono
  • nondimeno talvolta di questi dimòni discenderne in inferno ad
  • infestare e tormentare l'anime dei dannati; affermando questi cotali
  • spiriti immondi al dí del giudicio tutti dovere dalla divina potenza
  • essere racchiusi in inferno. Ora] pare qui che all'autor piaccia
  • questi malvagi angeli essere di due spezie divisi: delle quali vuole
  • l'una aver men peccato che l'altra, in quanto mostra questa spezie,
  • che men peccò, vicina alla superficie della terra essere rilegata; [e
  • percioché la giustizia di Dio secondo piú e meno punisce, non intende
  • costoro al dí del giudicio dover essere da Dio nel profondo inferno
  • rilegati, come saranno gli altri che molto piú peccarono.]
  • E però vuolsi questa lettera che segue leggere in questo modo:
  • «Cacciangli i cieli», da sé: e segue incontanente la ragione perché,
  • cioè «per non esser men belli»; percioché i cieli sono bellissimi, ed
  • intra l'altre loro singulari bellezze hanno che in essi alcuna macula
  • di colpa non si truova, percioché in essi alcuna cosa non si riceve se
  • non purissima, ed essi furono purissimi creati da Dio; per che segue,
  • se essi ricevessero questa spezie d'angeli, la quale è viziosa, essi
  • maculerebbono la lor bellezza: e perciò, accioché questo non avvenga,
  • essi gli scacciano e dilunganli da loro. «Né il profondo inferno gli
  • riceve» [cioè riceverá; e ponsi qui il presente per lo futuro,
  • percioché, altrimenti leggendosi o intendendosi, parrebbero le spezie
  • degli angeli esser tre, la qual cosa sarebbe contro alla cattolica
  • veritá]; e dice «il profondo», a differenza del luogo dov'e' sono in
  • inferno, che veggiamo gli pone nella piú alta parte di quello. E
  • appresso mostra la cagione perché dal profondo inferno ricevuti
  • non sieno, dicendo: «Ch'alcuna gloria», cioè piacere, «i rei»,
  • angeli, li quali manifestissimamente furon ribelli, «avrebber
  • d'elli»,--veggendoli in quel medesimo supplicio ch'essi [saranno]. E
  • cosí appare non essere opera de' ministri infernali che questi angeli
  • non sieno nel profondo inferno, ma della giustizia di Dio, la quale
  • non patisce che di cosa alcuna quegli spiriti maledetti possano avere
  • alleggiamento della pena loro.
  • «Ed io:--Maestro», (_supple_) dissi, «che è tanto greve», cioè qual
  • tormento, «A lor, che lamentar gli fa sí forte?»--cioè sí amaramente.
  • «Rispose», cioè Virgilio:--«Dicerolti molto breve».
  • E dice cosí: «Questi», cattivi, che tu odi cosí dolersi, «non hanno
  • speranza di morte», percioché manifesto è loro l'anime essere eterne;
  • «E la lor cieca vita», senza alcuna luce di merito, «è tanto bassa»,
  • cioè tanto depressa, avendo riguardo che in inferno sieno dannati in
  • eterno, e su nel mondo di loro alcuna memoria non sia, e quasi sieno
  • come se stati non fossero; «Che invidiosi son d'ogni altra sorte», di
  • peccatori, quantunque di gravissimi supplici tormentati sieno. Per che
  • chiaro comprender si può costoro essere miserissimi, poiché di
  • ciascuno, quantunque misero, invidiosi sono, conciosiacosaché invidia
  • non si soglia portare se non a migliore o a piú felice di sé. «Fama di
  • loro» [che cosa sia fama, è mostrato di sopra nella esposizione della
  • lettera del precedente canto] «il mondo», cioè il costume de' mondani,
  • il quale è solamente i segnalati uomini far famosi, «esser non lassa»,
  • percioché furono torpenti e miseri e freddi; «Misericordia e giustizia
  • gli sdegna»; e questo percioché le loro opere non furon tali, che
  • impetrar misericordia per quelle sapessero o potessero, per la quale
  • sarebbero stati elevati alla gloria eterna; e furon sí vili e sí
  • dolorose, che giustizia gli sdegna, cioè non cura di doverli tra le
  • piú gravi colpe dannare, quantunque in quelle per mentacattaggine
  • forse peccassero; ma, sí come morti senza la grazia di Dio, gli lascia
  • quivi, come gittati da sé, miseramente dolersi, come miseramente
  • vissero. [E questa seconda cagione è troppo piú ponderosa che la
  • primiera, e piú gli prieme; e per questa si manifesta loro sentire
  • quanto la lor vita sia vile.] E questa è la cagione perché, come
  • l'altre anime de' peccatori, non vanno a passare il fiume d'Acheronte,
  • quantunque nondimeno in inferno sieno, lá dove sono. «Non ragioniam di
  • lor»; quasi voglia dire che il ragionar di cosí fatta spezie di genti
  • è un perder tempo; «ma guarda», se t'aggrada di vedere la lor pena, e,
  • guardando, «passa»--e lasciagli stare. E questo riguardare gli concede
  • Virgilio, non in contentamento dell'autore, ma in dispetto de'
  • riguardati, li quali noia sentono, vedendo la lor miseria essere da
  • alcuno veduta o conosciuta.
  • «Ed io che riguardai», secondo m'avea conceduto Virgilio: e qui
  • discrive la qualitá della loro afflizione, per la quale sí amaramente
  • si dolgono: «vidi una insegna, Che girando», cioè in giro andando,
  • «correva», cioè correndo era portata, «tanto ratta», cioè sí
  • velocemente, «Che d'ogni posa mi pareva indegna. E dietro le venia», a
  • questa insegna, «sí lunga tratta», cioè sí gran quantitá, «Di gente»,
  • d'anime state di gente, «ch'io non avrei creduto», avanti che io
  • avessi veduto questo, «Che morte tanta n'avesse disfatta», cioè
  • uccisa. E dice «disfatta», percioché la morte non è altro che la
  • separazione dell'anima dal corpo, la quale per la morte separandosi,
  • resta questa composizione dell'anima e del corpo, le quali insieme
  • fanno l'uomo, essere disfatta; percioché, dopo cotale dipartimento,
  • colui, che prima era uomo, non è poi piú uomo.
  • «Poscia ch'io v'ebbi», guardando, «alcun riconosciuto», il quale non
  • nomina, percioché, se egli il nominasse, qualche fama o infamia gli
  • darebbe (il che sarebbe contro a quello che di sopra ha detto, cioè:
  • «Fama di loro il mondo esser non lassa» ecc.), «Vidi, e conobbi
  • l'ombra di colui, Che fece per viltate il gran rifiuto». Chi costui si
  • fosse, non si sa assai certo; ma, per l'operazione la quale dice da
  • lui fatta, estiman molti lui aver voluto dire di colui il quale noi
  • oggi abbiamo per santo, e chiamiamlo san Piero del Morrone, il quale
  • senza alcun dubbio fece un grandissimo rifiuto, rifiutando il papato.
  • E dicesi lui a questo rifiuto essere in questa maniera pervenuto, che,
  • essendo egli semplice uomo e di buona vita nelle montagne del Morrone
  • in Abruzzo sopra Selmona in atto eremitico, egli fu eletto papa in
  • Perugia, appresso la morte di papa Niccola d'Ascoli; ed, essendo il
  • suo nome Piero, fu chiamato Celestino. La cui semplicitá considerando
  • messer Benedetto Gatano cardinale, uomo avvedutissimo e di grande
  • animo e disideroso del papato, astutamente operando, gl'incominciò a
  • mostrare che esso in pregiudicio dell'anima sua tenea tanto oficio,
  • poiché a ciò sofficiente non si sentía. Alcuni voglion dire ch'esso
  • usò con alcuni suoi segreti servidori, che la notte voci s'udivano
  • nella camera del predetto papa, le quali, quasi d'angeli mandati
  • da Dio fossero, dicevano:--Renunzia, Celestino! renunzia,
  • Celestino!--Dalle quali mosso, ed essendo uomo idiota, ebbe consiglio
  • col predetto messer Benedetto del modo del poter renunziare. Il quale
  • gli disse:--Il modo sará questo, che voi farete una decretale, nella
  • quale si contenga che il papa possa nelle mani de' suoi cardinali
  • renunziare il papato.--Il quale come a doverla fare il vide disposto,
  • essendo essi in Napoli, segretamente fu col re Carlo secondo, re di
  • Cicilia, a cui stanza il detto papa poco davanti avea fatti dodici
  • cardinali, e apertogli l'animo suo, gli promise d'aiutarlo con ogni
  • forza della Chiesa nella guerra sua di Cicilia, dove facesse che,
  • rifiutando Celestino il papato, esso facesse che i dodici cardinali,
  • fatti a sua stanza, gli dessero le boci loro nella elezione: la qual
  • cosa il re gli promise. Laonde esso, con alcuni altri cardinali
  • italiani, sotto certe promessioni, ordinato questo medesimo, adoperò
  • che il papa pronunziò la legge del dover potere rinunziare il papato:
  • e il dí di santa Lucia, essendo stato cinque mesi e alcun dí papa,
  • venuto co' papali ornamenti in concistoro, in presenza de' suoi
  • cardinali pose giú la corona e il papale ammanto, e rifiutò al papato.
  • Di che poi seguí che la vilia di Natale messer Benedetto predetto fu
  • eletto papa e chiamato Bonifazio ottavo. Il quale ivi a poco tempo,
  • percioché vedeva gli animi di molti inchinarsi ad avere nel detto
  • frate Piero, quantunque rinunziato avesse, divozione come in vero
  • papa, fece il predetto frate Piero chiamare dal monte Sant'Agnolo in
  • Puglia, dove per divozione andato n'era, e quindi, secondo che alcuni
  • affermano, era disposto di passarsene in Ischiavonia, e quivi in
  • montagne altissime e salvatiche finire in penitenzia i dí suoi; il
  • fece chiamare, e fecenelo andare alla ròcca di Fumone, e quivi tennelo
  • mentre visse; ed, essendo morto, il fece in una piccola chiesicciuola
  • fuori della ròcca, senza alcuno onore funebre, seppellire in una fossa
  • profondissima, accioché alcuno non curasse di trarne giammai il corpo
  • suo.
  • Pare adunque l'autore qui volere lui, per questa viltá d'animo, in
  • questa parte superiore dello 'nferno tra' cattivi esser dannato. Sono
  • per questo alcuni che riprendono l'autore, dicendo lui qui avere
  • errato e detto contro a quello articolo che si canta nel _Simbolo_,
  • cioè: «_Et in unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam_»; in
  • quanto dice contro a quello che la Chiesa di Dio ha diliberato, cioè
  • questo frate Piero essere santo, ed egli, mostrando di non crederlo,
  • il mette tra' dannati. Alla quale obiezione è cosí da rispondere: che,
  • quando l'autore entrò in questo cammino, il quale egli discrive, e nel
  • qual dice aver veduta e conosciuta l'ombra di colui che fece per viltá
  • il gran rifiuto, questo san Piero non era ancora canonizzato;
  • percioché, sí come apparirá nel vigesimoprimo canto di questo libro,
  • l'autore entrò in questo cammino nel MCCCI, e questo santo uomo fu
  • canonizzato molti anni dopo, cioè al tempo di papa Giovanni
  • vigesimosecondo: e però, infino a quel dí che canonizzato fu, fu
  • lecito a ciascuno di crederne quello che piú gli piacesse, sí come è
  • di ciascuna cosa che dalla Chiesa diterminata non sia; e per
  • conseguente l'autore non fece contro al predetto articolo, ma farebbe
  • oggi chi credesse quello esser vero.
  • Altri voglion dire questo cotale, di cui l'autore senza nominarlo dice
  • che fece il gran rifiuto, essere stato Esaú, figliuolo d'Isac. Il
  • quale, essendo primogenito di Isac, come nel _Genesi_ si legge,
  • percioché innanzi a Iacob, con lui ad un parto nascendo, uscí dal
  • ventre della madre; ed aspettando a lui, per questa ragione, la
  • benedizione del padre quando a morte venisse, secondo che a quegli
  • tempi s'usava; tornando un dí da cacciare, ed avendo grandissimo
  • desiderio di mangiare, trovò Iacob suo fratello avere innanzi una
  • minestra di lenti, le quali la madre gli aveva cotte, e domandogliele:
  • Iacob rispose che non gliele darebbe, se egli non rifiutasse alle
  • ragioni della sua primogenitura e concedessele a lui; per la qual cosa
  • Esaú, tirato dall'appetito del mangiare, rifiutò ogni sua ragione e
  • concedettela a Iacob. E per questo voglion dire l'autore intender
  • d'Esaú, e lui vuol dire aver fatto il gran rifiuto. La qual cosa né la
  • nego né l'affermo. So io bene, secondo che nel _Genesi_ si legge, Esaú
  • fu reo e malizioso e fattivo uomo, e non fu semplice né mentacatto, e
  • fu grande e potente uomo e padre di molte nazioni.
  • «Incontanente», come veduto ebbi e riconosciuto costui, «intesi»,
  • dalla sua viltá, «e certo fui, Che questa», che cosí correva dietro a
  • quella insegna, «era la setta dei cattivi, A Dio spiacenti ed a'
  • nemici sui», cioè a' demòni; quasi voglia dire: come a Domenedio piace
  • l'uomo il quale s'esercita sempre in bene adoperare, «_quia non
  • sufficit abstinere a malo, nisi faciat quis quod bonum est_»; cosí
  • dispiacciono a' demòni coloro che son pigri, oziosi e tardi, e non si
  • esercitano in male adoperare.
  • «Questi sciaurati». Questo vocabolo è disceso dall'antico costume de'
  • gentili, li quali nelle piú lor cose seguivano gli augúri, cioè quelle
  • significazioni che dal volato e dal garrito degli uccelli, qual buona
  • e qual malvagia, secondo le dimostrazioni di quella facultá,
  • scioccamente prendevano; laonde quelli che malo augurio avevano, erano
  • chiamati «sciagurati»; il qual vocabolo oggi appo noi suona
  • «sventurati». «Che mai», cioè in alcun tempo, «non fur vivi», quanto è
  • ad operazioni spettanti ad uomini, li quali si dican vivere. «Erano
  • ignudi»: questo medesimo si può dire di tutti i dannati, i quali non
  • solamente son privati di vestimenti, ma di consolazione e di riposo;
  • «e stimolati molto», trafitti, «da mosconi e da vespe, ch'eran ivi»,
  • cioè in quel luogo. «Elle», cioè i mosconi e le vespe, «rigavan lor di
  • sangue», il quale delle trafitture usciva, «il volto». Chiamasi la
  • faccia dell'uomo «volto», in quanto per quella il piú delle volte si
  • discerne quello che l'uom vuole: e cosí si diriverá da «_volo vis_»,
  • che sta per «volere». «Che mischiato di lagrime, a' lor piedi, Da
  • fastidiosi vermi era ricolto», questo sangue mescolato con le lagrime
  • de' miseri cattivi.
  • «E poi che a riguardare». Qui comincia la quarta parte della
  • suddivisione della seconda parte di questo canto, nella quale, poi che
  • discritta ha la pena dei cattivi, dice aver vedute molte anime tutte
  • correre ad un fiume. «E poi», che veduta la miseria de' cattivi, «che
  • a riguardare oltre mi diedi», cioè piú avanti: il general costume
  • degli uomini pone, li quali, conciosiacosaché tutti siam vaghi di
  • veder cose nuove, sempre oltre alle vedute sospigniamo gli occhi;
  • «Vidi gente alla riva d'un gran fiume, Perch'io dissi:--Maestro», a
  • Virgilio,«or mi concedi, Ch'io sappia quali e' sono», quegli ch'io
  • veggio, «e qual costume Le fa di trapassar», il fiume, «parer sí
  • pronte», cioè volenterose, «Com'io discerno per lo fioco lume»,--cioè
  • per lo non chiaro lume; percioché, sí come l'esser fioco impedisce la
  • chiaritá della voce, cosí le tenebre impediscono la chiaritá della
  • luce. «Ed egli», cioè Virgilio, «a me» (_supple_) rispose:--«Le cose»,
  • delle quali tu domandi, «ti fien cónte», cioè manifeste, «Quando
  • fermerem li nostri passi», lá pervenuti, «Su la trista riviera
  • d'Acheronte».--
  • Secondo che scrive Pronapide nel suo _Protocosmo_, Acheronte è un
  • fiume infernale, il quale dice che in una spelunca, la quale è
  • nell'isola di Creti, nacque della prima Cerere figliuola di Celio; e,
  • vergognandosi di venire in publico, per certe fessure della terra se
  • ne discese in inferno. Sotto questa fizione è da intendere questo:
  • come altra volta dissi, Titano e i figliuoli combatterono con Saturno,
  • e presero lui e la moglie; per la qual cosa Cerere, figliuola di
  • Celio, percioché confortato avea Saturno che non rendesse il regno a
  • Titano, temendo di lui, si fuggí in Creti, tanto dolente, quanto piú
  • esser poteva, di ciò che avvenuto era a Saturno, e quivi si nascose. E
  • poi, sentendo che Giove aveva vinto Titano, e liberato Saturno e la
  • moglie di prigione, non altrimenti che la femmina depone il peso del
  • ventre suo partorendo, cosí Cerere, posto in questo luogo, dove
  • occulta dimorava, ogni dolore giú ed ogni amaritudine, uscí in publico
  • lieta. E da questo dolor posto giú fu data la materia alla fizione:
  • quasi voglia dire il dolore essersi tornato al suo principio, cioè al
  • luogo del dolore in inferno. E questo discrive in forma di fiume, a
  • dimostrare la quantitá essere stata grande del dolore. Ma il nostro
  • autore gli dá, fingendo, altra origine: percioché, sí come apparirá
  • nel quattordicesimo canto del presente libro, egli mostra questo fiume
  • e gli altri infernali nascere di gocciole d'acqua che caggiono di
  • fessure, le quali dice essere in una statua di piú metalli, dritta
  • nell'isola di Creti: e quivi piú a pieno se ne tratterá, e di questo e
  • degli altri.
  • «Allor con gli occhi vergognosi e bassi, Temendo no 'l mio dir gli
  • fosse grave», cioè noioso, «Infino al fiume», d'Acheronte, «di parlar
  • mi trassi», cioè senza parlare mi condussi.
  • «Ed ecco verso noi». Questa è la quinta parte della suddivisione del
  • presente canto, nella quale l'autore mostra un dimonio venire verso
  • loro in una nave e passar gli altri, e lui non aver voluto passare. Ed
  • è questa parte presa da Virgilio, dove nel sesto dell'_Eneida_ scrive:
  • _Portitor has horrendus aquas et flumina servat
  • terribili squalore Charon_, ecc.
  • per ben ventun verso. Dice adunque: «Ed ecco verso noi venir per nave
  • Un vecchio bianco per antico pelo», [il quale per altro sarebbe paruto
  • nero, se gli anni non l'avessero fatto divenir canuto, percioché la
  • gente volgare stimano che il diavolo sia nero, percioché i dipintori
  • dipingono Domeneddio bianco; ma questa è sciocchezza a credere,
  • percioché lo spirito essendo cosa incorporea, non può d'alcun colore
  • esser colorato;] «Gridando:--Guai a voi, anime prave!», cioè malvage.
  • «Non isperate mai veder lo cielo»: il che vuole che elle intendano, in
  • perpetuo quindi non dovere uscire. «Io vegno per menarvi all'altra
  • riva», di questo fiume, «Nelle tenebre eterne, in caldo e 'n gielo. E
  • tu, che se' costí, anima viva», volgendo il suo parlare all'autore,
  • «Pártiti da cotesti, che son morti»;--quasi voglia dire: percioché con
  • loro tu non déi né puoi passare. «Ma, poi ch'e' vide ch'io non mi
  • partiva», per suo comandamento, «Disse:--per altra via», che per
  • questa, «per altri porti, Verrai a piaggia, non qui», donde io levo
  • l'altre, «per passare», dall'altra parte. «Piú lieve legno», cioè
  • nave; è «legno» tra' marinai general nome di qualunque spezie di
  • navilio, e massimamente de' grossi, come che qui per la sua barca, o
  • per un'altra, lo 'ntenda Carone; «convien che ti porti»,--cioè ti
  • valichi.
  • «E 'l duca», cioè Virgilio, «a lui:--Carón». Questo Carón, secondo che
  • Crisippo scrisse, fu figliuolo d'Erebo e della Notte (di questa favola
  • sará il significato nella esposizione allegorica) ed è posto a questo
  • uficio di passare l'anime dannate dall'una riva all'altra d'Acheronte,
  • come qui appare. «Non ti crucciare», e incontanente soggiunge la
  • cagione per la quale gli mostra non doversi crucciare, dicendo:
  • «Vuolsi cosí», cioè che costui vivo vada per questo regno de' morti, e
  • dov'e' si vuole, «colá, dove si puote Ciò che si vuole», cioè nella
  • divina mente, percioché Iddio può ciò che vuole; «e piú non
  • dimandare»;--quasi voglia per questo dirgli: non è convenevole che a
  • te si dimostri la cagione della volontá di Dio. «Quinci», cioè dalle
  • parole da Virgilio dette, «fûr quete», cioè quetate, senza alcuna cosa
  • piú dire, «le lanute gote», cioè barbute, «Del nocchier della livida
  • palude», cioè di Carone. E chiama ora «palude» quello che di sopra
  • chiama «fiume», e questo fa di licenza poetica, per la quale
  • spessissimamente si pone un nome per un altro, sí veramente che quel
  • cotal nome abbia alcuna convenienza con la cosa nominata, come è qui,
  • che il fiume è acqua e la palude è acqua, e talvolta in alcuna parte
  • corre il fiume sí piano, che egli par non men tosto palude che fiume.
  • «Livida» la chiama, a dimostrazione che l'acqua sia torbida, e quella
  • torbidezza sia nera ed oscura. «Che 'ntorno agli occhi avea di fiamma
  • rote», a dimostrare la sua ferocitá e il suo furore.
  • «Ma quelle anime, ch'eran lasse», per dolore, non per lunghezza di
  • cammino, «e nude», di consiglio e d'aiuto; «Cangiár colore», mostrando
  • l'angoscia di fuori, la quale dentro sentivano, «e dibattéro i denti»,
  • come coloro fanno li quali la febbre piglia, che innanzi lo 'ncendio
  • di quella tremano e battono i denti; «Tosto che 'nteser le parole
  • crude», dette da Carón di sopra («Io vegno per menarvi all'altra riva»
  • ecc.).
  • «Bestemmiavano Iddio». Fa qui l'autore imitare a quelle anime il
  • bestiale costume di molti uomini che, quando attendono o hanno alcuna
  • cosa la quale loro a grado non sia, disperatamente cominciano a
  • bestemmiare, quasi per quello non altramenti che se Dio spaventassono,
  • si debba diminuire o mitigare la fatica, la quale aspettano o la quale
  • hanno: «e' lor parenti», cioè i padri e le madri, li quali principio e
  • cagione dierono all'esser loro; «L'umana spezie», quasi volessero piú
  • tosto essere animali bruti, accioché col corpo si fosse morta l'anima;
  • «il luogo», (_supple_) bestemmiavano dove nacquero, «il tempo», nel
  • qual nacquero, «e 'l seme», del quale nacquero, «di lor semenza», cioè
  • bestemmiavano il seme di lor semenza, cioè della quale seminati
  • furono, «e di lor nascimenti», cioè bestemmiavano il luogo e 'l tempo
  • di lor nascimenti. «Poi si ritrasser tutte quante insieme»; quinci
  • appare loro quivi esser venute sparte; «Forte piangendo alla riva
  • malvagia», d'Acheronte, «Ch'attende ciascun uom, che Dio non teme»,
  • percioché tutti dichinan quivi coloro che, vivendo, non ebbono temor
  • di Dio, «Carón dimonio, con occhi di bragia», cioè ardenti e focosi;
  • «loro accennando, tutte le raccoglie», in su la sua nave; «batte con
  • remo», cioè con quel bastone col quale mena la sua nave, il quale i
  • marinai chiamano «remo», «qualunque», di quelle anime, «s'adagia», a
  • sedere o in altra guisa.
  • «Come d'autunno» cioè in quella stagione la quale noi chiamiamo
  • «autunno», da mezzo settembre infino a mezzo dicembre, «si levan le
  • foglie, L'una appresso dell'altra», cadendo, «infin che 'l ramo»,
  • sopra il quale erano, «Vede alla terra tutte le sue spoglie», cioè i
  • vestimenti, li quali, la stagione gli ha fatti cadere da dosso. Ed è
  • questa comparazione presa da Virgilio in quella parte del sesto libro
  • dell'_Eneida_, che di sopra dicemmo. «Similemente il mal seme
  • d'Adamo», il quale fu il primo nostro padre, e del quale noi siamo
  • tutti seme: ma parte di questo seme è buono, sí come sono i santi
  • uomini e i servanti i comandamenti di Dio, e parte n'è malvagio, sí
  • come sono i peccatori, li quali ostinati nelle loro colpe muoiono
  • nell'ira di Dio: e questa è quella parte che si raccoglie nella nave
  • di Carone. «Gittansi in quel lito», cioè d'in su quella riva, «ad una
  • ad una», quelle anime dannate, «Per cenni», da Carón fatti,
  • «com'augel» fa «per suo richiamo», cioè per lo pasto mostratogli.
  • «Cosí», raccolte, «sen vanno su per l'onda bruna», d'Acheronte, «E
  • avanti che sien», queste che pur mò salirono, «di lá», cioè dall'altra
  • riva, «discese, Anche di qua», da quest'altra parte, «nuova schiera»,
  • cioè quantitá d'anime non ancora statavi, «s'aduna». E in questo
  • dimostra l'autore continuamente molti morirne sopra il circuito della
  • terra, de' quali la maggior parte muoiono nell'ira di Dio, «_quia
  • multi sunt vocati, pauci vero electi_».
  • --«Figliuol mio,--disse» In questa sesta parte della suddivisione gli
  • apre Virgilio la cagione perché Caron non l'ha voluto passare, e
  • perché quelle anime son pronte a voler passare il fiume. E
  • dice:--«Figliuol mio»;--mostra in questa parola Virgilio paterna
  • affezione all'autore; «disse il maestro cortese». Ben dice «maestro»,
  • percioché, come qui appare, Virgilio gli solve il dubbio della domanda
  • fattagli da lui di sopra, dove dice: «Maestro, or mi concedi, Ch'io
  • sappia» ecc., e coloro che solvono bene i dubbi meritamente si possono
  • e debbon esser chiamati «maestri». «Cortese» il chiama, percioché
  • continuo in quello che al suo uficio appartenesse, gli fu
  • liberale.--«Quegli», uomini, o le loro anime a dir meglio, «che muoion
  • nell'ira di Dio», li quali son quegli che [senza contrizione, senza
  • confessione, veggendosi nel caso della morte,] consistono pertinaci
  • nelle loro nequizie, e cosí, senza riconciliarsi a Dio de' peccati
  • commessi, si muoiono; [e diconsi morire nell'ira di Dio, in quanto la
  • sua grazia racquistar non hanno voluto, seguendo gl'instituti della
  • cattolica Chiesa;] «Tutti convengon», cioè insiememente vengono,
  • «qui», a questo fiume, «d'ogni paese», di levante e d'occidente e di
  • ciascuna altra plaga del mondo, «e pronti sono a trapassar lo rio»,
  • cioè il fiume, il quale qui chiama «rio», tirato dalla consonanza del
  • verso. E séguita la ragione perché a questo son pronti: «Ché la divina
  • giustizia gli sprona», cioè gli costringe, «Sí che la téma», la quale
  • hanno delle pene eternali, «si converte in disio», di andar tosto a
  • quelle. «Quinci», cioè per la nave di Carone, «non passò mai anima
  • buona», cioè che al cielo dovesse ritornare, come déi tu, che non
  • vieni per rimanere. «E però, se Carón di te si lagna», cioè si duole,
  • e non ti vuol passare, «Ben puoi sapere omai che il suo dir
  • suona»,--avendo intesa la cagione del suo rammarichio.
  • [Lez. X]
  • «Finito questo». Questa è la settima e ultima parte della suddivisione
  • del presente canto, nella quale l'autore mostra sé, per un tremore
  • della terra e per un baleno, vinto e caduto. Dice adunque: «Finito
  • questo», cioè la dichiarazione fattami da Virgilio della prontezza
  • dell'anime a trapassare il fiume, «la buia», cioè oscura, «campagna».
  • «Campagna» sono luoghi piani e larghi, i quali ivi non si dee credere
  • che sieno, ma usa il vocabolo largamente, _auctoritate poëtica_; e
  • dé'si intendere per la qualitá di quello luogo dove vuole dare ad
  • intendere che era, qual che si fosse, o montuoso o piano: «Tremò sí
  • forte».
  • Ma qui è da vedere che volle dire questo tremare, conciosiacosaché
  • l'autore niente ponga senza cagione; e perciò è da sapere l'autore in
  • ogni cosa porre quelli medesimi accidenti avvenire a' dannati, che a
  • coloro che in istato di grazia sono od in via di penitenzia. E quinci,
  • se noi riguarderem bene, come all'entrare d'ogni cerchio di purgatorio
  • si truova alcun agnolo, il quale, lietamente cantando, conforta chi
  • sale in quello; cosí ad ogni cerchio d'inferno si truova alcun
  • demonio, il quale orribilmente spaventa chi discende in esso. E cosí
  • come il monte del purgatorio, quando alcuna anima purgata sale al
  • cielo, tutto triema, e tutti gli spiriti di quello, sentendo il
  • tremore, ed intendendo ciò che significa, da caritá mossi, cantano e
  • ringraziano Iddio, che a sé quella anima beata chiama; cosí in
  • inferno, come anime di nuovo vi caggiono, come dalle trasportate da
  • Carón feciono, triema tutta la valle d'inferno: per la qual cosa
  • l'anime dannate, che ciò sentono, intendendo venire anime ad
  • accrescere la loro tristizia, tutte oltre al dolore usato si
  • contristano e piangono.] E cosí l'autore mostra di volere in questa
  • parte sentire, come che non sia cosa nuova, le parti intrinseche e
  • cavernose della terra talvolta tremare, per la revoluzione dell'aere
  • che in quelle è racchiuso e che vuole uscir fuori.
  • «Che dello spavento, La mente», cioè il ricordarmene, «di sudore ancor
  • mi bagna». Suole talvolta agli uomini subitamente spaventati,
  • rifuggire dalle parti esteriori dentro al cuore, sentendolo temere, il
  • sangue; e per questo coloro, alli quali questo avviene, rimangono
  • pallidi e deboli e quasi insensibili; ed esse parti esteriori, premute
  • dalla passione della paura, mandano per li pori fuori talvolta
  • un'acqua fredda, la qual noi diciamo «sudore»; e se tosto le parti
  • predette non recuperassero il sangue e le forze loro, caderebbe
  • l'uomo, e parrebbegli venir meno come se egli morisse; e forse
  • perseverando il sudore si morrebbe: ed hannone giá alcuni, essendo per
  • paura il sangue rifuggito dentro, perduti o debilitati alcuni membri
  • in guisa che mai poi operare non gli hanno potuti (e dicono i meno
  • savi questi cotali essere stati guasti dal dimonio) e per avventura
  • anche se ne son morti.
  • «La terra lacrimosa», cioè quella valle d'inferno, o per li molti
  • pianti che in quella si fanno, o per l'umiditá, la quale è nella
  • concavitá della terra generata dal freddo, il quale ha l'esalazioni
  • della terra calde e umide risolute in acqua: la quale primieramente
  • accostata alla terra fredda, è fatta in forma di lacrime, e cosí si
  • può dire l'inferno essere lacrimoso.
  • «Diede», cioè causò, «vento». Generansi i venti, secondo che ad
  • Aristotile piace nel secondo della _Meteora_, d'esalazioni calde e
  • secche della terra, cacciate sopra da sé da' nuvoli freddi o da alcun
  • freddo che nell'aere sia. Le quali cose come in inferno sieno, non so.
  • Estimo che 'l tumultuoso rivolgimento, il quale l'autore vuol mostrare
  • che vi sia, causi alcuno impeto il quale muova quello aere, e l'aere
  • mosso paia vento.
  • «Che balenò una luce vermiglia». Questi non sono accidenti che la
  • natura soglia producere sotterra, e perciò è verisimile quello
  • movimento dell'aere, il quale ho detto essere stato, e, oltre a
  • questo, quello impeto, avere dalle parti inferiori seco recata qualche
  • vampa di fuoco, la quale in forma di un baleno apparve all'autore. «La
  • qual», luce, «mi vinse ogni mio sentimento»; segno è, per questo,
  • avere quella luce grandissimo stupore messo nell'autore, ed essere
  • stato tanto, che quello ne sia seguito che dice, cioè: «E caddi, come
  • l'uom cui sonno piglia».
  • II
  • SENSO ALLEGORICO
  • «Per me si va nella cittá dolente». Nel principio del presente canto
  • si continua l'autore alle cose dette nella fine del precedente, lá
  • dove disse, per le vere dimostrazioni fattegli dalla ragione, sé avere
  • la viltá dell'anima posta giuso e essersi ritornato nel proponimento
  • primo, e cosí, dietro alla ragione, essere rientrato nel cammino da
  • dovere poter pervenire allo stato della grazia, e quindi ad eterna
  • salute, come disiderava; e camminando mostra sé alla porta dello
  • inferno essere pervenuto. E sono intorno al senso allegorico di questo
  • canto da considerare tre cose: la prima è quello che l'autore voglia
  • intendere per questa porta; la seconda, come si conformi il supplicio
  • dato a' cattivi con la colpa loro; la terza, quello che l'autore
  • voglia sentire per lo fiume d'Acheronte e per lo nocchiere, ed, oltre
  • a ciò, per lo accidente a lui avvenuto: e, queste vedute, assai
  • convenientemente s'avrá il senso allegorico veduto del presente canto.
  • Avendo adunque riguardo a parte delle parole scritte sopra la porta,
  • la quale l'autor discrive, e alla ampiezza di quella, e similmente
  • all'averla senza alcun serrame trovata, possiam comprendere quella
  • essere la via della morte; conciosiacosaché il Nostro Signore dica
  • nell'Evangelio: «_Intrate per angustam portam, quia lata et spatiosa
  • via est quae ducit ad perditionem, et multi sunt qui intrant per
  • eam_»; e cosí per questa via il peccato ne mena a dannazione eterna.
  • Ed è questa via ampia, a farne chiari agevol cosa essere il peccare, e
  • quello essere assoluto da ogni strettezza di regola; il che delle
  • virtú non avviene, le quali sono ristrette e limitate dalli loro
  • estremi. L'essere senza alcun serrame, ne mostra assai chiaro in ogni
  • ora, in ogni tempo essere a ciascuno, volendo, possibile d'entrare
  • nella via della morte, ed andare ad eterna perdizione. Ed ancora si
  • può per l'ampiezza di questa porta comprendere, essa in tanta
  • larghezza distendersi, che, in qualunque parte del mondo l'uomo pecca,
  • trovi di questa porta la larga entrata. E fu aperta questa dalla
  • superbia dell'angiolo malvagio, il quale primieramente ardí di levare
  • la fronte contro a Colui che creato l'avea, né mai piú si richiuse.
  • Dentro alla quale, entrata l'umana considerazione, dietro a' passi
  • della ragione, nel vestibulo della perdizione eterna vede i cattivi e
  • inerti, come nella lettera è dimostrato, correre dietro ad una insegna
  • aggirandosi; e questi essere agramente stimolati da mosconi e da
  • vespe, e il sangue di questi dolenti esser ricevuto da putridi
  • vermini. Li quali perciò all'entrata della perduta vita dimostrati ne
  • sono, accioché da essi prendiamo quanto abbominevole colpa sia quella
  • della inerzia, veggendo essa non solamente alla divina giustizia, ma
  • ancora a' diavoli dispiacere: e per questo siamo ammaestrati a
  • guardarci da quella, accioché in tanta miseria non divegnamo, che
  • igualmente a' buoni e a' malvagi siamo odiosi. Pare adunque questo
  • vizio consistere in una freddezza d'animo, la quale, occupate non
  • solamente le potenze intellettive, ma eziandio le sensitive, tiene
  • coloro, ne' quali esso dimora, del tutto oziosi, intanto che,
  • brievemente, niuna opportunitá pare che muover gli possa ad alcuno
  • atto operativo; e per questo non come uomini, ma come bruti animali,
  • anzi come vermini pútridi e fastidiosi, menano la vita loro. Ed in
  • questo pare loro, per quel che comprender si possa, sentire alcun
  • diletto, il quale, percioché da viziosa cagione è preso, senza colpa
  • esser non puote. E però, spenta la loro sensual vita e tolta via la
  • gravezza del misero corpo consenziente alla viltá dell'animo, avendo
  • quel conoscimento assoluti che perduto avevan legati, dal vermine
  • della coscienza morsi, e per quello conoscendo sé niuno onesto segno
  • nella lor misera vita aver seguito, ora senza pro seco dicendo:--Cosí
  • dovremmo aver fatto;--non tardi né lenti, ma correndo, seguitano quel
  • segno che seco estimano dover vivendo aver seguito. E percioché questo
  • lor vermine non muore, il seguono in giro, a dimostrare che, come nel
  • cerchio non è alcun principio né fine, cosí questa lor fatica non
  • debba giammai avere requie né riposo. E a questo atto gli solletica il
  • vermine della coscienza con due stimoli, con mosconi e con vespe, li
  • quali continuamente li trafiggono. Li quali mosconi e vespe sono da
  • intendere per la memoria di due loro singulari miserie, nelle quali
  • nella loro dolorosa vita presero alcun piacere: le quali furono l'una
  • nel brutto e sporcinoso modo di vivere che tennero, l'altra
  • nell'oziosamente vivere. [E queste si deono intendere, percioché i
  • mosconi sono generati da putredine d'acqua e di terra corrotte, e
  • questi intender si deono la rimembranza della loro fastidiosa vita, la
  • quale ora conoscono e dispiace loro e, dispiacendo, senza pro gli
  • affligge e infesta; sí che assai bene dimostrano confarsi in questo la
  • pena con la colpa. Le vespe s'ingenerano dell'interiora dell'asino
  • similmente corrotte, e l'asino essere inerte, ozioso e torpente
  • animale, assai chiaro si conosce per tutti; e però per le punture
  • delle vespe, amarissime, assai bene si dee comprendere, per quelle, il
  • morso doloroso della rimembranza della loro oziositá, dalla quale sono
  • dolorosamente trafitti, come apparir può per lo sangue il quale cade
  • dalle punture.] Il loro sangue essere da puzzolenti vermini raccolto,
  • ha a rammemorare a questi dolenti che il sangue generato dalla
  • digestione de' cibi, li quali usarono vivendo, non nutricò e sostenne
  • in vita corpi umani, anzi putridi e sozzi vermini: per le quali cose
  • assai bene pare si conformi con la colpa la pena di costoro. E questo
  • basti de' cattivi aver detto.
  • Resta a vedere la terza parte, cioè quello che l'autore per lo fiume e
  • per lo nocchiere e per lo caso, che a lui addivenne, voglia sentire.
  • [E, secondo che io possa comprendere, la sua intenzione è di mostrare
  • come in inferno, oltre al fiume d'Acheronte, si discenda: e questo
  • mostra convenirsi fare passando il fiume, il quale in due maniere
  • trapassarsi, qui, sotto assai artificiosa fizione, discrive. Delle
  • quali dice esser la prima per la nave di Carón, nella quale, come
  • detto è, esso trapassa l'anime di quegli che in peccato mortale morti
  • sono. E però, avanti che della seconda maniera tocchiamo, è da vedere
  • quello che l'autore sente per questo fiume, che per lo nocchiere, che
  • per la nave e che per lo remo col qual dice che batte qualunque
  • s'adagia.]
  • Vuole adunque per questo fiume l'autore disegnare la vita presente, la
  • quale ottimamente dir si può simile ad un fiume; percioché, sí come il
  • fiume corre continuo, sempre declinando, senza mai in su ritornare;
  • cosí la nostra vita, dal dí del nostro nascimento, sempre e con
  • velocissimo corso declina verso la morte, senza mai indietro
  • rivolgersi. Il che ci è, oltre alla continua esperienza, per la divina
  • Scrittura mostrato, nella quale leggiamo: «_Omnes morimur et quasi
  • aquae dilabimur in terram, quae non revertuntur_». Sono, oltre a ciò,
  • i fiumi, quando per abbondanza d'acque e quando per forza di venti,
  • tempestosi. Il che similemente della nostra vita addiviene: percioché
  • alcuna volta addiviene, per troppa mondana felicitá, che noi gonfiamo
  • e divegnamo superbi, e non ricappiendo in noi, e non essendo a' nostri
  • termini contenti, esondiamo, e, come i fiumi in danno de' campi vicini
  • talvolta traboccano, cosí noi in danno del prossimo e di noi medesimi
  • trabocchiamo, e similemente siamo da diversi impeti della fortuna
  • fieramente afflitti e infestati negli animi nostri. E, come il fiume
  • volge grandissime pietre nel suo fondo, cosí noi nel segreto del
  • nostro petto continuamente rivolgiamo gravissime e noiose
  • sollecitudini; e né altrimenti che i fiumi con le loro circunvoluzioni
  • talvolta trangugian le navi e' naviganti, cosí noi tranghiottisce la
  • circunvoluzione de' peccati e della bocca infernale. E, accioché io
  • faccia fine alle comparazioni, come i fiumi molte afflizioni porgono,
  • cosí la nostra vita è piena di tribolazioni infinite: per la qual
  • cosa, per quel medesimo nome chiamar la possiamo che questo fiume si
  • chiama, il quale è Acheronte, che tanto suona in latino, quanto «cosa
  • senza allegrezza»: la quale per certo è del tutto rimossa dalla
  • presente vita, veggendo non essere alcuno, quantunque vecchio, che con
  • veritá possa dire sé avere avuto giammai un dí intero senza mille
  • angosce piú cocenti che 'l fuoco. E sopra questo fiume è una nave,
  • nella quale dall'una riva all'altra sono l'anime trasportate. [È
  • manifesta cosa di legni leggieri comporsi le navi, e quelle, senza
  • molta acqua prendere, sopra essa dimorare]; per la qual mi pare si
  • possa sentire le nostre concupiscenze, le quali, leggieri e mutabili,
  • non altrimenti per la presente vita trasvolano, che facciano sopra
  • l'onde le navi, e seco d'uno appetito in un altro trasportano coloro,
  • li quali miseramente disiderano, né prima a riva gli pongono, che in
  • perpetua perdizione gli conducono: come per essa dice l'autore, che
  • Carón trasportava l'anime in perpetua doglia.
  • È, appresso, di questa nave nocchiere un demonio chiamato Carón,
  • bianco per antico pelo, il quale nella lettera dicemmo essere stato
  • figliuolo d'Erebo e della Notte. Per lo quale assai apertamente veder
  • si puote intendersi il tempo, percioché il Tempo fu figliuolo d'Erebo,
  • cioè del profondo consiglio di Dio, il quale creò lui come l'altre
  • cose, e non essendo avanti la creazione del mondo alcuna luce
  • sensibile nel mezzo delle tenebre, le quali avanti la creazion del
  • mondo erano, produsse lui come cominciò a distinguer quelle in dí
  • distinti, come nel principio del Genesi si legge; e quinci, perché
  • nelle tenebre prodotto fu, sentirono i poeti lui essere figliuolo
  • della Notte, cioè delle tenebre. Il nome del quale Servio, _Sopra
  • l'«Eneida»_ di Virgilio, dice esser «_'Charon' quasi 'chronos'_»; e
  • questo vocabolo in latino viene a dire tempo. Il quale l'autore dice
  • esser «bianco per antico pelo», discrivendolo dall'accidente della
  • vecchiezza degli uomini, nella quale noi divegnamo canuti: e per
  • questo vuol dimostrare il Tempo essere vecchio, cioè giá è lungo
  • spazio stato prodotto. E nel vero assai è vecchio, percioché, secondo
  • si comprende _in libro Temporum_ d'Eusebio, egli è, dalla creazione
  • del mondo infino a questo anno, perseverato 6572 anni o in quel torno.
  • E perciò si pone nocchiere sopra questo fiume, percioché dir si puote
  • il tempo esser quello che in sé il dí della nostra nativitá ne riceve,
  • e con le sue revoluzioni, avendone dalla riva del nostro nascimento
  • levati, ne mena per la presente vita, qual piú e qual meno, e
  • trasportalo all'altra riva, cioè al dí della morte. È vero che egli è
  • qui posto dall'autore a trapassare l'anime che muoiono nell'ira di
  • Dio, e ciò non è senza cagione; percioché quelle, che questa mortal
  • vita finiscono nella grazia di Dio, non si dicono, secondo che i santi
  • dicono, morire, ma d'una vita trapassare in altra, e quella essere
  • eterna, nella quale il tempo non ha alcuna cosa a fare; percioché
  • l'eternitá non patisce alcuna dimensione di tempo. De' dannati non si
  • può dir cosí, percioché di questa vita vanno in morte perpetua: e
  • perciò pare che il tempo abbia a determinare con certo numero d'anni o
  • di dí lo spazio della presente vita, la quale per rispetto della morte
  • perpetua fu a' dannati morte, in quanto finirono questa vita, la
  • quale, quantunque piena d'afflizioni e di fatiche sia, è nondimeno
  • beata stata a' dannati, per rispetto di quella alla quale in morte
  • perpetua son trapassati.
  • [Ma da vedere è quello che intender voglia l'autore per lo remo di
  • questo nocchiere. È il remo un bastone lungo, col quale il nocchiere
  • fa muovere la sua nave, e con esso la mena e dirizza d'un luogo ad un
  • altro. Col quale remo l'autor dice questo dimonio battere l'anime, le
  • quali s'adagiano nella sua nave, intendendo per questo la
  • sollecitudine di coloro li quali all'acquisto delle cose temporali son
  • tutti dati; percioché questa sollecitudine, dalla varietá del tempo e
  • dalla qualitá delle cose imprese stimolata, non lascia alcun cupido
  • sentire alcun riposo, ma igualmente il dí e la notte o in pensieri o
  • in opera gli tiene occupati, e sempre con nuove dimostrazioni a varie
  • operazioni gli sospigne, molesta e affligge, in guisa che, non che
  • riposo prendere possano, ma elle non lasciano altrui avere spazio di
  • respirare. E, se di ciò per avventura alcuno esemplo aspettaste,
  • lasciando stare la sollecitudine pastorale de' sommi pontefici e le
  • grandi imprese de' re, de' principi e de' signori, riguardate con
  • l'occhio della mente quelle de' mercatanti, co' quali noi
  • continuamente siamo: ogni piccolo movimento, ora in Inghilterra, ora
  • in Fiandra, ora in Ispagna, ora in Cipri, ora in una parte e ora in un
  • 'altra, sollecitando, ricordando, avvisando, li fa scrivere, non
  • lettere, ma volumi a' lor compagni; e innanzi tratto sempre con
  • sospetto l'apportate ricevono; ogni vento gli tien sospesi a' lor
  • navili; né sí piccolo romore di guerra nasce, che essi incontanente
  • non temano delle mercatanzie messe in cammino, e quanti sensali parlan
  • loro, tanti fan loro mutare animi e consigli. Chi potrebbe esplicare
  • quante sieno le cose, che agli avviluppati nelle cose temporali
  • rompano, turbino, guastino, impediscano i desiderati riposi? Niuna
  • scrittura è che appieno gli potesse mostrare. E cosí i dolenti, che
  • hanno torto il disiderio della eterna beatitudine alle cose che perir
  • debbono, sono nella presente vita in continua afflizione, e di qui
  • trapassati alla perpetua.]
  • La cagione perché questo dimonio niega di passare l'autore, puote
  • esser questa: percioché egli non potrebbe ancora conducer l'autore
  • alla riva opposita, conciosiacosaché ancora venuto non sia l'ultimo dí
  • dell'autore, il quale ancora vivea; e appresso sentiva il dimonio
  • l'autore non essere in disposizione ch'egli volesse passare per dover
  • di lá dimorare, e perciò non apparteneva al ministro della divina
  • giustizia, al quale è commesso di trapassare i malvagi, di trapassar
  • similmente quegli che malvagi non sono e vanno per esser buoni, sí
  • come l'autore andava. E però gli dice:--«Piú lieve legno convien che
  • ti porti»;--volendo per questo mostrare che, quando la colpa è piú
  • lieve, piú lievemente trapassi Acheronte. E quelle sono da dir piú
  • lievi, le quali talvolta si posson por giuso (come puote l'uomo, che
  • vive, por giú le sue colpe per la penitenza), che quelle che in eterno
  • non si posson metter giú, come quelle sono nelle quali l'uomo si
  • muore. E non è da credere che attualmente l'autore in inferno andasse,
  • o che questo fiume o questo nocchiere e l'altre cose, che qui e
  • altrove si pongono, vi sieno; ma conviensi a' nostri ingegni in questa
  • maniera parlare, accioché essi con minore difficultá possano dalle
  • cose attualmente discritte comprendere le spirituali, le quali per
  • opera d'immaginazione o di meditazione s'intendono. Non ha la divina
  • volontá bisogno d'alcuno uficiale: basta in lei semplicemente il
  • volere, e quello incontanente è mandato ad esecuzione, sí come dice il
  • salmista: «_Dixit, et facta sunt; mandavit, et creata sunt_». Ma
  • questo noi non comprenderemmo, se in alcuni termini dimostrativi non
  • ne fosse posto dinanzi quello che Iddio dispone e adopera, sí come
  • nelle cose dette si può comprendere, cioè noi vivere ed essere dal
  • tempo menati alla morte, e dopo quella, se male vivuti siamo, dannati.
  • [E cosí possiam questa maniera, del passare in inferno, dire che sia
  • per sentenza diffinitiva data da Dio, sí come da giudice il quale
  • esser non può in alcuna cosa ingannato: e come quegli cotali, che da
  • questa sentenza dannati sono, hanno il fiume valicato, _in rem
  • iudicatam_ sono trapassati, senza dovere sperare che mai per alcuna
  • cagione cotal sentenza si debba o possa rivocare: quantunque
  • scioccamente Origene, per altro prudentissimo e grandissimo letterato
  • uomo, mostrasse di credere Iddio alla fine del mondo dovere, non che
  • d'altrui, ma eziandio de' demòni, aver misericordia, e perdonar loro e
  • menarnegli in vita eterna.]
  • [La seconda maniera del trapassare in inferno, cioè di valicare il
  • fiume d'Acheronte, par che l'autore voglia qui essere per una spezie
  • di sentenza, la quale si chiama «interlocutoria», la quale nostro
  • Signore dá in questa forma: che qualunque uomo cade in peccato
  • mortale, sia incontanente messo nella prigione del diavolo; ma
  • nondimeno esservi con questa condizione, che, se egli d'avere commesso
  • quel peccato, per lo quale è servo del diavolo divenuto, si vuole
  • riconoscere, e per penitenza riconciliarsi a Dio, che egli possa cosí
  • uscire della detta prigione e ritornare in sua libertá; e, dove
  • riconoscer non si voglia, s'intenda in perpetuo esser dannato a dovere
  • stare in quella prigione, nella quale noi miseri tutto 'l dí caggiamo,
  • e all'unghie del diavolo di nostra volontá la gola porgiamo. La qual
  • cosa avvenire discrive l'autore sotto questa fizione.]
  • Dice adunque per se medesimo, e cosí ciascuno può per se medesimo
  • intendere, che «La terra lagrimosa», cioè la presente vita, la quale è
  • piena di lagrime e di miserie, «diede vento, Che balenò una luce
  • vermiglia», cioè uno splendore grande in apparenza, vano e fugace sí
  • come è il vento, il quale niuno può né pigliare né tenere e sempre
  • fugge. E questo splendore dice essere stato balenato da questa cosa
  • vana, a dimostrazione che dalla vanitá delle cose della presente vita
  • nasca questa luce a guisa di baleno, il lume del quale essendo súbito,
  • reca seco ammirazione, e poi subitamente si converte in nulla, sí come
  • noi veggiamo avvenire de' fulgori temporali, che testé sono e testé
  • non sono. Or nondimeno sono appo la nostra fragilitá di tanta forza,
  • che spesse volte occupano in tanto le menti d'alcuno, e con tanta
  • affezione disiderati sono, che, lasciata la debita notizia di Dio e
  • dello splendore eterno, per qual è via, e per li vizi e per le
  • malvagie operazioni, si trascorre in essi. Di che assai appare a
  • questi cotali ogni sentimento razionale esser tolto, ed essi cadere
  • nelle colpe e nelle miserie del peccato, come cade colui il quale è
  • soprappreso dal sonno. E fa in questo l'autore debita comparazione:
  • percioché, quantunque, peccando mortalmente, nella infernal morte si
  • caggia, nondimeno è questa morte in tanto simile al sonno, in quanto
  • l'uomo si può da essa destare mentre nella presente vita dimora, sí
  • come nel principio del seguente canto mostra l'autore d'essere stato
  • desto, ma da grave tuono; la gravitá del qual tuono possiam dire
  • essere stata alcuna di quelle cose, con le quali davanti nel principio
  • del primo canto del presente libro dicemmo che Domeneddio toccava i
  • peccatori con la grazia operante, quando in alcuno la mandava. E
  • meritamente qui possiam repetere quello che nel predetto luogo
  • dicemmo, l'autore per lo sonno non essersi accorto come nella prigion
  • del diavolo s'entrasse, cioè come si trapassasse il fiume d'Acheronte;
  • ma, destandosi e trovandosi dall'altra parte del fiume, assai
  • leggiermente conoscer si può la sua colpa e la sentenza di Dio
  • avervelo trasportato. E questo trasportamento sarebbe stoltizia a
  • credere che corporale fosse stato. Fu adunque spirituale, come
  • spiritualmente intender si dee noi per lo peccato divenir servi del
  • diavolo. E, quantunque a quegli, che in questa forma trapassano in
  • inferno, sia licito, volendo, il poterne uscire, non posson però
  • uscirne per tornarsi addietro per la via donde entrarono, percioché
  • per lo peccato non si può di peccato uscire, come quegli farebbono che
  • per quella via n'uscissono, per la quale v'entrarono; ma conviensene
  • uscire per la via opposita al peccato, la quale nulla altra cosa è che
  • la penitenza. E a pervenire a questa via mostra l'autore essergli
  • convenuto tutto l'inferno trapassare, e di quello, per la parte
  • opposita a quella onde v'entrò, esserne uscito. E questa via, se noi
  • riguardiam bene, il conduce a piè del monte della penitenza, dove
  • trova Catone, che a quella il drizza e sollecita.
  • FINE DEL PRIMO VOLUME.
  • INDICE
  • I
  • VITA DI DANTE
  • I. Proposizione p. 3
  • II. Patria e maggiori di Dante 6
  • III. Suoi studi 8
  • IV. Impedimenti avuti da Dante agli studi 10
  • V. Amore per Beatrice 10
  • VI. Dolore di Dante per la morte di Beatrice 12
  • VII. Digressione sul matrimonio 14
  • VIII. Opposte vicende della vita pubblica di Dante 18
  • IX. Come la lotta delle parti lo coinvolse 18
  • X. Si maledice all'ingiusta condanna dell'esilio 20
  • XI. La vita del poeta esule sino alla venuta in Italia di Arrigo
  • settimo 21
  • XII. Dante ospite di Guido Novel da Polenta 23
  • XIII. Sua perseveranza al lavoro 24
  • XIV. Grandezza del poeta volgare. Sua morte 24
  • XV. Sepoltura e onori funebri 25
  • XVI. Gara di poeti per l'epitafio di Dante 26
  • XVII. Epitafio 27
  • XVIII. Rimprovero ai fiorentini 27
  • XIX. Breve ricapitolazione 32
  • XX. Fattezze e costumi di Dante 32
  • XXI. Digressione sull'origine della poesia 36
  • XXII. Difesa della poesia 39
  • XXIII. Dell'alloro conceduto ai poeti 43
  • XXIV. Origine di questa usanza 44
  • XXV. Carattere di Dante 45
  • XXVI. Delle opere composte da Dante 48
  • XXVII. Ricapitolazione 57
  • XXVIII. Ancora il sogno della madre di Dante 57
  • XXIX. Spiegazione del sogno 58
  • XXX. Conclusione 63
  • II
  • REDAZIONI COMPENDIOSE DELLA VITA DI DANTE
  • (PRIMO E SECONDO COMPENDIO)
  • Avvertenza 66
  • I. Proposizione 67
  • II. Patria e maggiori di Dante 68
  • III. Suoi studi 70
  • IV. Impedimenti avuti da Dante agli studi 71
  • V. Amore per Beatrice 72
  • VI. Dolore di Dante per la morte di Beatrice 73
  • VII. Matrimonio di Dante 74
  • VIII. Digressione sul matrimonio 75
  • IX. Cure familiari e pubbliche 76
  • X. Come la lotta delle parti lo coinvolse 78
  • XI. La vita del poeta esule sino alla venuta in Italia di Arrigo
  • settimo 79
  • XII. Dante ospite di Guido Novel da Polenta 80
  • XIII. Morte di Dante 81
  • XIV. Gara di poeti per l'epitafio di Dante 82
  • XV. Rimprovero ai fiorentini 82
  • XVI. Fattezze e costumi di Dante 83
  • XVII. Digressione sull'origine della poesia 85
  • XVIII. Che la poesia è simigliante alla teologia 87
  • XIX. Dimostrazione della predetta sentenza 88
  • XIX bis. Perché i poeti nascondono il vero sotto fizioni 90
  • XX. Dell'alloro conceduto ai poeti 91
  • XXI. Carattere di Dante 94
  • XXII. La «Vita nuova» e la «Commedia». Incidenti occorsi
  • nella composizione di questa opera 95
  • XXIII. Perché Dante compose la «Commedia» in volgare. A chi
  • egli la dedicò 99
  • XXIV. Altre opere composte da Dante 100
  • XXV. Spiegazione del sogno della madre di Dante 101
  • XXVI. Conclusione 107
  • III
  • COMENTO ALLA «DIVINA COMMEDIA»
  • Proemio 111
  • Canto primo:
  • I. Senso letterale 127
  • II. Senso allegorico 159
  • Canto secondo:
  • I. Senso letterale 195
  • II. Senso allegorico 227
  • Canto terzo:
  • I. Senso letterale 237
  • II. Senso allegorico 257
  • End of the Project Gutenberg EBook of Il Comento alla Divina Commedia, e gli
  • altri scritti intorno a Dante, vol. 1, by Giovanni Boccaccio
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