- The Project Gutenberg EBook of Il Comento alla Divina Commedia, e gli
- altri scritti intorno a Dante, vol. 1, by Giovanni Boccaccio
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- Title: Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1
- Author: Giovanni Boccaccio
- Editor: Domenico Guerri
- Release Date: May 12, 2007 [EBook #21424]
- Language: Italian
- *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA ***
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- SCRITTORI D'ITALIA
- G. BOCCACCIO
- OPERE VOLGARI
- XII
- GIOVANNI BOCCACCIO
- IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA
- E GLI ALTRI SCRITTI INTORNO A DANTE
- A CURA DI
- DOMENICO GUERRI
- VOLUME PRIMO
- BARI
- GIUS. LATERZA & FIGLI
- TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
- 1918
- PROPRIETÁ LETTERARIA
- GIUGNO MCMXVIII--49326
- A
- PIO RAJNA E GIROLAMO VITELLI
- I
- VITA DI DANTE
- I
- PROPOSIZIONE
- Solone, il cui petto un umano tempio di divina sapienzia fu reputato,
- e le cui sacratissime leggi sono ancora alli presenti uomini chiara
- testimonianza dell'antica giustizia, era, secondo che dicono alcuni,
- spesse volte usato di dire ogni republica, sí come noi, andare e stare
- sopra due piedi; de' quali, con matura gravitá, affermava essere il
- destro il non lasciare alcun difetto commesso impunito, e il sinistro
- ogni ben fatto remunerare; aggiugnendo che, qualunque delle due cose
- giá dette per vizio o per nigligenzia si sottraeva, o meno che bene si
- servava, senza niun dubbio quella republica, che 'l faceva, convenire
- andare sciancata: e se per isciagura si peccasse in amendue, quasi
- certissimo avea, quella non potere stare in alcun modo.
- Mossi adunque piú cosí egregi come antichi popoli da questa laudevole
- sentenzia e apertissimamente vera, alcuna volta di deitá, altra di
- marmorea statua, e sovente di celebre sepultura, e tal fiata di
- triunfale arco, e quando di laurea corona secondo i meriti precedenti
- onoravano i valorosi: le pene, per opposito, a' colpevoli date non
- curo di raccontare. Per li quali onori e purgazioni la assiria, la
- macedonica, la greca e ultimamente la romana republica aumentate, con
- l'opere le fini della terra, e con la fama toccaron le stelle. Le
- vestigie de' quali in cosí alti esempli, non solamente da' successori
- presenti, e massimamente da' miei fiorentini, sono male seguite, ma in
- tanto s'è disviato da esse, che ogni premio di virtú possiede
- l'ambizione; per che, sí come e io e ciascun altro che a ciò con
- occhio ragionevole vuole guardare, non senza grandissima afflizione
- d'animo possiamo vedere li malvagi e perversi uomini a' luoghi eccelsi
- e a' sommi ofici e guiderdoni elevare, e li buoni scacciare, deprimere
- e abbassare. Alle quali cose qual fine serbi il giudicio di Dio,
- coloro il veggiano che il timone governano di questa nave: percioché
- noi, piú bassa turba, siamo trasportati dal fiotto, della fortuna, ma
- non della colpa partecipi. E, comeché con infinite ingratitudini e
- dissolute perdonanze apparenti si potessero le predette cose
- verificare, per meno scoprire li nostri difetti e per pervenire al mio
- principale intento, una sola mi fia assai avere raccontata (né questa
- fia poco o picciola), ricordando l'esilio del chiarissimo uomo Dante
- Alighieri. Il quale, antico cittadino né d'oscuri parenti nato, quanto
- per vertú e per scienzia e per buone operazioni meritasse, assai il
- mostrano e mostreranno le cose che da lui fatte appaiono: le quali, se
- in una republica giusta fossero state operate, niuno dubbio ci è che
- esse non gli avessero altissimi meriti apparecchiati.
- Oh scellerato pensiero, oh disonesta opera, oh miserabile esempio e di
- futura ruina manifesto argomento! In luogo di quegli, ingiusta e
- furiosa dannazione, perpetuo sbandimento, alienazione de' paterni
- beni, e, se fare si fosse potuto, maculazione della gloriosissima
- fama, con false colpe gli fûr donate. Delle quali cose le recenti orme
- della sua fuga e l'ossa nelle altrui terre sepulte e la sparta prole
- per l'altrui case, alquante ancora ne fanno chiare. Se a tutte l'altre
- iniquitá fiorentine fosse possibile il nascondersi agli occhi di Dio,
- che veggono tutto, non dovrebbe quest'una bastare a provocare sopra sé
- la sua ira? Certo sí. Chi in contrario sia esaltato, giudico che sia
- onesto il tacere. Sí che, bene ragguardando, non solamente è il
- presente mondo del sentiero uscito del primo, del quale di sopra
- toccai, ma ha del tutto nel contrario vòlti i piedi. Per che assai
- manifesto appare che, se noi e gli altri che in simile modo vivono,
- contro la sopra toccata sentenzia di Solone, sanza cadere stiamo in
- piede, niuna altra cosa essere di ciò cagione, se non che o per lunga
- usanza la natura delle cose è mutata, come sovente veggiamo avvenire,
- o è speziale miracolo, nel quale, per li meriti d'alcuno nostro
- passato, Dio, contra ogni umano avvedimento ne sostiene, o è la sua
- pazienzia, la quale forse il nostro riconoscimento attende; il quale
- se a lungo andare non seguirá, niuno dubiti che la sua ira, la quale
- con lento passo procede alla vendetta, non ci serbi tanto piú grave
- tormento, che appieno supplisca la sua tarditá. Ma, percioché, come
- che impunite ci paiono le mal fatte cose, quelle non solamente
- dobbiamo fuggire, ma ancora, bene operando, d'amendarle ingegnarci;
- conoscendo io me essere di quella medesima cittá, avvegnaché picciola
- parte, della quale, considerati li meriti, la nobiltá e la vertú,
- Dante Alighieri fu grandissima, e per questo, sí come ciascun altro
- cittadino, a' suoi onori sia in solido obbligato; comeché io a tanta
- cosa non sia sofficiente, nondimeno secondo la mia picciola facultá,
- quello ch'essa dovea verso lui magnificamente fare, non avendolo
- fatto, m'ingegnerò di far io; non con istatua o con egregia sepoltura,
- delle quali è oggi appo noi spenta l'usanza, né basterebbono a ciò le
- mie forze, ma con lettere povere a tanta impresa. Di queste ho, e di
- queste darò, accioché igualmente, e in tutto e in parte, non si possa
- dire fra le nazioni strane, verso cotanto poeta la sua patria essere
- stata ingrata. E scriverò in istilo assai umile e leggiero, peroché
- piú alto nol mi presta lo 'ngegno, e nel nostro fiorentino idioma,
- accioché da quello, ch'egli usò nella maggior parte delle sue opere,
- non discordi, quelle cose le quali esso di sé onestamente tacette:
- cioè la nobiltá della sua origine, la vita, gli studi, i costumi;
- raccogliendo appresso in uno l'opere da lui fatte, nelle quali esso sé
- sí chiaro ha renduto a' futuri, che forse non meno tenebre che
- splendore gli daranno le lettere mie, come che ciò non sia di mio
- intendimento né di volere; contento sempre, e in questo e in
- ciascun'altra cosa, da ciascun piú savio, lá dove io difettuosamente
- parlassi, essere corretto. Il che accioché non avvenga, umilemente
- priego Colui che lui trasse per sí alta scala a vedersi, come
- sappiamo, che al presente aiuti e guidi lo 'ngegno mio e la debole
- mano.
- II
- PATRIA E MAGGIORI DI DANTE
- Fiorenza, intra l'altre cittá italiane piú nobile, secondo che
- l'antiche istorie e la comune opinione de' presenti pare che vogliano,
- ebbe inizio da' romani; la quale in processo di tempo aumentata, e di
- popolo e di chiari uomini piena, non solamente cittá, ma potente
- cominciò a ciascun circunstante ad apparere. Ma qual si fosse, o
- contraria fortuna o avverso cielo o li loro meriti, agli alti inizi di
- mutamento cagione, ci è incerto; ma certissimo abbiamo, essa non dopo
- molti secoli da Attila, crudelissimo re de' vandali e generale
- guastatore quasi di tutta Italia, uccisi prima e dispersi tutti o la
- maggior parte di quegli cittadini, che ['n] quella erano o per nobiltá
- di sangue o per qualunque altro stato d'alcuna fama, in cenere la
- ridusse e in ruine: e in cotale maniera oltre al trecentesimo anno si
- crede che dimorasse. Dopo il qual termine, essendo non senza cagione
- di Grecia il romano imperio in Gallia translatato, e alla imperiale
- altezza elevato Carlo magno, allora clementissimo re de' franceschi;
- piú fatiche passate, credo da divino spirito mosso, alla
- reedificazione della desolata cittá lo 'mperiale animo dirizzò; e da
- quegli medesimi che prima conditori n'erano stati, come che in picciol
- cerchio di mura la riducesse, in quanto poté, simile a Roma la fe'
- reedificare e abitare; raccogliendovi nondimeno dentro quelle poche
- reliquie, che si trovarono de' discendenti degli antichi scacciati.
- Ma intra gli altri novelli abitatori, forse ordinatore della
- reedificazione, partitore delle abitazioni e delle strade, e datore al
- nuovo popolo delle leggi opportune, secondo che testimonia la fama, vi
- venne da Roma un nobilissimo giovane per ischiatta de' Frangiapani, e
- nominato da tutti Eliseo; il quale per avventura, poi ch'ebbe la
- principale cosa, per la quale venuto v'era, fornita, o dall'amore
- della cittá nuovamente da lui ordinata, o dal piacere del sito, al
- quale forse vide nel futuro dovere essere il cielo favorevole, o da
- altra cagione che si fosse, tratto, in quella divenne perpetuo
- cittadino, e dietro a sé di figliuoli e di discendenti lasciò non
- picciola né poco laudevole schiatta: li quali, l'antico sopranome de'
- loro maggiori abbandonato, per sopranome presero il nome di colui che
- quivi loro aveva dato cominciamento, e tutti insieme si chiamâr gli
- Elisei. De' quali di tempo in tempo, e d'uno in altro discendendo, tra
- gli altri nacque e visse uno cavaliere per arme e per senno
- ragguardevole e valoroso, il cui nome fu Cacciaguida; al quale nella
- sua giovanezza fu data da' suo' maggior per isposa una donzella nata
- degli Aldighieri di Ferrara, cosí per bellezza e per costumi, come per
- nobiltá di sangue pregiata, con la quale piú anni visse, e di lei
- generò piú figliuoli. E comeché gli altri nominati si fossero, in uno,
- sí come le donne sogliono esser vaghe di fare, le piacque di rinnovare
- il nome de' suoi passati, e nominollo Aldighieri; comeché il vocabolo
- poi, per sottrazione di questa lettera «d» corrotto, rimanesse
- Alighieri. Il valore di costui fu cagione a quegli che discesero di
- lui, di lasciare il titolo degli Elisei, e di cognominarsi degli
- Alighieri; il che ancora dura infino a questo giorno. Del quale,
- comeché alquanti figliuoli e nepoti e de' nepoti figliuoli
- discendessero, regnante Federico secondo imperadore, uno ne nacque, il
- cui nome fu Alighieri, il quale piú per la futura prole che per sé
- doveva esser chiaro; la cui donna gravida, non guari lontana al tempo
- del partorire, per sogno vide quale doveva essere il frutto del ventre
- suo; comeché ciò non fosse allora da lei conosciuto né da altrui, ed
- oggi, per lo effetto seguíto, sia manifestissimo a tutti.
- Pareva alla gentil donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo
- alloro, sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, e
- quivi si sentia partorire un figliuolo, il quale in brevissimo tempo,
- nutricandosi solo dell'orbache, le quali dell'alloro cadevano, e
- dell'onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pastore, e
- s'ingegnasse a suo potere d'avere delle fronde dell'albero, il cui
- frutto l'avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere,
- e nel rilevarsi non uomo piú, ma uno paone il vedea divenuto. Della
- qual cosa tanta ammirazione le giunse, che ruppe il sonno; né guari di
- tempo passò che il termine debito al suo parto venne, e partorí uno
- figliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui per nome
- chiamaron Dante: e meritamente, percioché ottimamente, sí come si
- vedrá procedendo, seguí al nome l'effetto.
- Questi fu quel Dante, del quale è il presente sermone; questi fu quel
- Dante, che a' nostri seculi fu conceduto di speziale grazia da Dio;
- questi fu quel Dante, il qual primo doveva al ritorno delle muse,
- sbandite d'Italia, aprir la via. Per costui la chiarezza del
- fiorentino idioma è dimostrata; per costui ogni bellezza di volgar
- parlare sotto debiti numeri è regolata; per costui la morta poesí
- meritamente si può dir suscitata: le quali cose, debitamente guardate,
- lui niuno altro nome che Dante poter degnamente avere avuto
- dimostreranno.
- III
- SUOI STUDI
- Nacque questo singulare splendore italico nella nostra cittá, vacante
- il romano imperio per la morte di Federigo giá detto, negli anni della
- salutifera incarnazione del Re dell'universo MCCLXV, sedente Urbano
- papa quarto nella cattedra di san Piero, ricevuto nella paterna casa
- da assai lieta fortuna: lieta, dico, secondo la qualitá del mondo che
- allora correa. Ma, quale che ella si fosse, lasciando stare il
- ragionare della sua infanzia, nella quale assai segni apparirono della
- futura gloria del suo ingegno, dico che dal principio della sua
- puerizia, avendo giá li primi elementi delle lettere impresi, non,
- secondo il costume de' nobili odierni, si diede alle fanciullesche
- lascivie e agli ozi, nel grembo della madre impigrendo, ma nella
- propia patria tutta la sua puerizia con istudio continuo diede alle
- liberali arti, e in quelle mirabilmente divenne esperto. E crescendo
- insieme con gli anni l'animo e lo 'ngegno, non a' lucrativi studi,
- alli quali generalmente oggi corre ciascuno, si dispose, ma da una
- laudevole vaghezza di perpetua fama [tratto], sprezzando le
- transitorie ricchezze, liberamente si diede a volere aver piena
- notizia delle fizioni poetiche e dell'artificioso dimostramento di
- quelle. Nel quale esercizio familiarissimo divenne di Virgilio,
- d'Orazio, d'Ovidio, di Stazio e di ciascun altro poeta famoso; non
- solamente avendo caro il conoscergli, ma ancora, altamente cantando,
- s'ingegnò d'imitarli, come le sue opere mostrano, delle quali appresso
- a suo tempo favelleremo. E, avvedendosi le poetiche opere non essere
- vane o semplici favole o maraviglie, come molti stolti estimano, ma
- sotto sé dolcissimi frutti di veritá istoriografe o filosofiche avere
- nascosti; per la quale cosa pienamente, sanza le istorie e la morale e
- naturale filosofia, le poetiche intenzioni avere non si potevano
- intere; partendo i tempi debitamente, le istorie da sé, e la filosofia
- sotto diversi dottori s'argomentò, non sanza lungo studio e affanno,
- d'intendere. E, preso dalla dolcezza del conoscere il vero delle cose
- racchiuse dal cielo, niuna altra piú cara che questa trovandone in
- questa vita, lasciando del tutto ogni altra temporale sollecitudine,
- tutto a questa sola si diede. E, accioché niuna parte di filosofia non
- veduta da lui rimanesse, nelle profonditá altissime della teologia con
- acuto ingegno si mise. Né fu dalla intenzione l'effetto lontano,
- percioché, non curando né caldi né freddi, vigilie né digiuni, né
- alcun altro corporale disagio, con assiduo studio pervenne a conoscere
- della divina essenzia e dell'altre separate intelligenzie quello che
- per umano ingegno qui se ne può comprendere. E cosí come in varie
- etadi varie scienze furono da lui conosciute studiando, cosí in vari
- studi sotto vari dottori le comprese.
- Egli li primi inizi, sí come di sopra è dichiarato, prese nella propia
- patria, e di quella, sí come a luogo piú fertile di tal cibo, n'andò a
- Bologna; e giá vicino alla sua vecchiezza n'andò a Parigi, dove, con
- tanta gloria di sé, disputando, piú volte mostrò l'altezza del suo
- ingegno, che ancora, narrandosi, se ne maravigliano gli uditori. E di
- tanti e sí fatti studi non ingiustamente meritò altissimi titoli:
- percioché alcuni il chiamarono sempre «poeta», altri «filosofo» e
- molti «teologo», mentre visse. Ma, percioché tanto è la vittoria piú
- gloriosa al vincitore, quanto le forze del vinto sono state maggiori,
- giudico esser convenevole dimostrare, di come fluttuoso e tempestoso
- mare costui, gittato ora in qua ora in lá, vincendo l'onde parimente
- e' venti contrari, pervenisse al salutevole porto de' chiarissimi
- titoli giá narrati.
- IV
- IMPEDIMENTI AVUTI DA DANTE AGLI STUDI
- Gli studi generalmente sogliono solitudine e rimozione di
- sollecitudine e tranquillitá d'animo disiderare, e massimamente gli
- speculativi, a' quali il nostro Dante, sí come mostrato è, si diede
- tutto. In luogo della quale rimozione e quiete, quasi dallo inizio
- della sua vita infino all'ultimo della morte, Dante ebbe fierissima e
- importabile passione d'amore, moglie, cura familiare e publica, esilio
- e povertá; l'altre lasciando piú particulari, le quali di necessitá
- queste si traggon dietro: le quali, accioché piú appaia della loro
- gravezza, partitamente convenevole giudico di spiegarle.
- V
- AMORE PER BEATRICE
- Nel tempo nel quale la dolcezza del cielo riveste de' suoi ornamenti
- la terra, e tutta per la varietá de' fiori mescolati fra le verdi
- frondi la fa ridente, era usanza della nostra cittá, e degli uomini e
- delle donne, nelle loro contrade ciascuno in distinte compagnie
- festeggiare; per la qual cosa, infra gli altri per avventura, Folco
- Portinari, uomo assai orrevole in que' tempi tra' cittadini, il primo
- dí di maggio aveva i circustanti vicini raccolti nella propia casa a
- festeggiare, infra li quali era il giá nominato Alighieri. Al quale,
- sí come i fanciulli piccoli, e spezialmente a' luoghi festevoli,
- sogliono li padri seguire, Dante, il cui nono anno non era ancora
- finito, seguito avea; e quivi mescolato tra gli altri della sua etá,
- de' quali cosí maschi come femmine erano molti nella casa del
- festeggiante, servite le prime mense, di ciò che la sua picciola etá
- poteva operare, puerilmente si diede con gli altri a trastullare.
- Era intra la turba de' giovinetti una figliuola del sopradetto Folco,
- il cui nome era Bice, comeché egli sempre dal suo primitivo, cioè
- Beatrice, la nominasse, la cui etá era forse d'otto anni, leggiadretta
- assai secondo la sua fanciullezza, e ne' suoi atti gentilesca e
- piacevole molto, con costumi e con parole assai piú gravi e modeste
- che il suo picciolo tempo non richiedea; e, oltre a questo, aveva le
- fattezze del viso dilicate molto e ottimamente disposte, e piene,
- oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi una
- angioletta era reputata da molti. Costei adunque, tale quale io la
- disegno, o forse assai piú bella, apparve in questa festa, non credo
- primamente, ma prima possente ad innamorare, agli occhi del nostro
- Dante: il quale, ancoraché fanciul fosse, con tanta affezione la bella
- imagine di lei ricevette nel cuore, che da quel giorno innanzi, mai,
- mentre visse, non se ne dipartí. Quale ora questa si fosse, niuno il
- sa; ma, o conformitá di complessioni o di costumi o speziale
- influenzia del cielo che in ciò operasse, o, sí come noi per
- esperienza veggiamo nelle feste, per la dolcezza de' suoni, per la
- generale allegrezza, per la dilicatezza de' cibi e de' vini, gli animi
- eziandio degli uomini maturi, non che de' giovinetti, ampliarsi e
- divenire atti a poter essere leggiermente presi da qualunque cosa che
- piace; è certo questo esserne divenuto, cioè Dante nella sua
- pargoletta etá fatto d'amore ferventissimo servidore. Ma, lasciando
- stare il ragionare de' puerili accidenti, dico che con l'etá
- multiplicarono l'amorose fiamme, in tanto che niun'altra cosa gli era
- piacere o riposo o conforto, se non il vedere costei. Per la qual
- cosa, ogni altro affare lasciandone, sollecitissimo andava lá dovunque
- credeva potere vederla, quasi del viso o degli occhi di lei dovesse
- attignere ogni suo bene e intera consolazione.
- Oh insensato giudicio degli amanti! chi altri che essi estimerebbe per
- aggiugnimento di stipa fare le fiamme minori? Quanti e quali fossero
- li pensieri, li sospiri, le lagrime e l'altre passioni gravissime poi
- in piú provetta etá da lui sostenute per questo amore, egli medesimo
- in parte il dimostra nella sua _Vita nova_, e però piú distesamente
- non curo di raccontarle. Tanto solamente non voglio che non detto
- trapassi, cioè che, secondo che egli scrive e che per altrui, a cui fu
- noto il suo disio, si ragiona, onestissimo fu questo amore, né mai
- apparve, o per isguardo o per parola o per cenno, alcuno libidinoso
- appetito né nello amante né nella cosa amata: non picciola maraviglia
- al mondo presente, del quale è sí fuggito ogni onesto piacere, e
- abituatosi l'avere prima la cosa che piace conformata alla sua
- lascivia che diliberato d'amarla, che in miracolo è divenuto, sí come
- cosa rarissima, chi amasse altramente. Se tanto amore e sí lungo poté
- il cibo, i sonni e ciascun'altra quiete impedire, quanto si dee potere
- estimare lui essere stato avversario agli sacri studi e allo 'ngegno?
- Certo, non poco; comeché molti vogliano lui essere stato incitatore di
- quello, argomento a ciò prendendo dalle cose leggiadramente nel
- fiorentino idioma e in rima, in laude della donna amata, e accioché li
- suoi ardori e amorosi concetti esprimesse, giá fatte da lui; ma certo
- io nol consento, se io non volessi giá affermare l'ornato parlare
- essere sommissima parte d'ogni scienza; che non è vero.
- VI
- DOLORE DI DANTE PER LA MORTE DI BEATRICE
- Come ciascuno puote evidentemente conoscere, niuna cosa è stabile in
- questo mondo; e, se niuna leggermente ha mutamento, la nostra vita è
- quella. Un poco di soperchio freddo o di caldo che noi abbiamo,
- lasciando stare gli altri infiniti accidenti e possibili, da essere a
- non essere sanza difficultá ci conduce; né da questo gentilezza,
- ricchezza, giovanezza, né altra mondana dignitá è privilegiata; della
- quale comune legge la gravitá convenne a Dante prima per l'altrui
- morte provare che per la sua. Era quasi nel fine del suo
- vigesimoquarto anno la bellissima Beatrice, quando, sí come piacque a
- Colui che tutto puote, essa, lasciando di questo mondo l'angosce,
- n'andò a quella gloria che li suoi meriti l'avevano apparecchiata.
- Della qual partenza Dante in tanto dolore, in tanta afflizione, in
- tante lagrime rimase, che molti de' suoi piú congiunti e parenti ed
- amici niuna fine a quelle credettero altra che solamente la morte; e
- questa estimarono dover essere in brieve, vedendo lui a niun conforto,
- a niuna consolazione pórtagli dare orecchie. Gli giorni erano alle
- notte iguali e agli giorni le notti; delle quali niuna ora si
- trapassava senza guai, senza sospiri e senza copiosa quantitá di
- lagrime; e parevano li suoi occhi due abbondantissime fontane d'acqua
- surgente, in tanto che piú si maravigliarono donde tanto umore egli
- avesse che al suo pianto bastasse. Ma, sí come noi veggiamo, per lunga
- usanza le passioni divenire agevoli a comportare, e similmente nel
- tempo ogni cosa diminuire e perire; avvenne che Dante infra alquanti
- mesi apparò a ricordarsi, senza lagrime, Beatrice esser morta, e con
- piú dritto giudicio, dando alquanto il dolore luogo alla ragione, a
- conoscere li pianti e li sospiri non potergli, né ancora alcuna altra
- cosa, rendere la perduta donna. Per la qual cosa con piú pazienza
- s'acconciò a sostenere l'avere perduta la sua presenzia; né guari di
- spazio passò che, dopo le lasciate lagrime, li sospiri, li quali giá
- erano alla loro fine vicini, cominciarono in gran parte a partirsi
- sanza tornare.
- Egli era sí per lo lagrimare, sí per l'afflizione che il cuore sentiva
- dentro, e sí per lo non avere di sé alcuna cura, di fuori divenuto
- quasi una cosa salvatica a riguardare: magro, barbuto e quasi tutto
- trasformato da quello che avanti esser solea; intanto che 'l suo
- aspetto, nonché negli amici, ma eziandio in ciascun altro che il
- vedea, a forza di sé metteva compassione; comeché egli poco, mentre
- questa vita cosí lagrimosa durò, altrui che ad amici veder si
- lasciasse.
- Questa compassione e dubitanza di peggio facevano li suoi parenti
- stare attenti a' suoi conforti; li quali, come alquanto videro le
- lagrime cessate e conobbero li cocenti sospiri alquanto dare sosta al
- faticato petto, con le consolazioni lungamente perdute rincominciarono
- a sollecitare lo sconsolato; il quale, come che infino a quella ora
- avesse a tutte ostinatamente tenute le orecchie chiuse, alquanto le
- cominciò non solamente ad aprire, ma ad ascoltare volentieri ciò che
- intorno al suo conforto gli fosse detto. La qual cosa veggendo i suoi
- parenti, accioché del tutto non solamente de' dolori il traessero, ma
- il recassero in allegrezza, ragionarono insieme di volergli dar
- moglie; accioché, come la perduta donna gli era stata di tristizia
- cagione, cosí di letizia gli fosse la nuovamente acquistata. E,
- trovata una giovane, quale alla sua condizione era decevole, con
- quelle ragioni che piú loro parvero induttive, la loro intenzion gli
- scoprirono. E, accioché io particularmente non tocchi ciascuna cosa,
- dopo lunga tenzone, senza mettere guari di tempo in mezzo, al
- ragionamento seguí l'effetto: e fu sposato.
- VII
- DIGRESSIONE SUL MATRIMONIO
- Oh menti cieche, oh tenebrosi intelletti, oh argomenti vani di molti
- mortali, quanto sono le riuscite in assai cose contrarie a' vostri
- avvisi, e non sanza ragion le piú volte! Chi sarebbe colui che del
- dolce aere d'Italia, per soperchio caldo, menasse alcuno nelle cocenti
- arene di Libia a rinfrescarsi, o dell'isola di Cipri, per riscaldarsi,
- nelle eterne ombre de' monti Rodopei? qual medico s'ingegnerá di
- cacciare l'aguta febbre col fuoco, o il freddo delle medolla dell'ossa
- col ghiaccio o con la neve? Certo, niuno altro, se non colui che con
- nuova moglie crederá l'amorose tribulazion mitigare. Non conoscono
- quegli, che ciò credono fare, la natura d'amore, né quanto ogni altra
- passione aggiunga alla sua. Invano si porgono aiuti o consigli alle
- sue forze, se egli ha ferma radice presa nel cuore di colui che ha
- lungamente amato. Cosí come ne' princípi ogni picciola resistenza è
- giovevole, cosí nel processo le grandi sogliono essere spesse volte
- dannose. Ma da ritornare è al proposito, e da concedere al presente
- che cose sieno, le quali per sé possano l'amorose fatiche fare
- obliare.
- Che avrá fatto però chi, per trarmi d'un pensiero noioso, mi metterá
- in mille molto maggiori e di piú noia? Certo niuna altra cosa, se non
- che per giunta del male che m'avrá fatto, mi fará disiderare di
- tornare in quello, onde m'ha tratto; il che assai spesso veggiamo
- addivenire a' piú, li quali o per uscire o per essere tratti d'alcune
- fatiche, ciecamente o s'ammogliano o sono da altrui ammogliati; né
- prima s'avveggiono, d'uno viluppo usciti, essere intrati in mille, che
- la pruova, sanza potere, pentendosi, indietro tornare, n'ha data
- esperienza. Dierono gli parenti e gli amici moglie a Dante, perché le
- lagrime cessassero di Beatrice. Non so se per questo, comeché le
- lagrime passassero, anzi forse eran passate, sí passò l'amorosa
- fiamma; ché nol credo; ma, conceduto che si spegnesse, nuove cose e
- assai poterono piú faticose sopravvenire. Egli, usato di vegghiare ne'
- santi studi, quante volte a grado gli era, cogl'imperadori, co' re e
- con qualunque altri altissimi prencipi ragionava, disputava co'
- filosofi, e co' piacevolissimi poeti si dilettava, e l'altrui angosce
- ascoltando, mitigava le sue. Ora, quanto alla nuova donna piace, è con
- costoro, e quel tempo, ch'ella vuole tolto da cosí celebre compagnia,
- gli conviene ascoltare i femminili ragionamenti, e quegli, se non vuol
- crescer la noia, contra il suo piacere non solamente acconsentir, ma
- lodare. Egli, costumato, quante volte la volgar turba gli rincresceva,
- di ritrarsi in alcuna solitaria parte e, quivi speculando, vedere
- quale spirito muove il cielo, onde venga la vita agli animali che sono
- in terra, quali sieno le cagioni delle cose, o premeditare alcune
- invenzioni peregrine o alcune cose comporre, le quali appo li futuri
- facessero lui morto viver per fama; ora non solamente dalle
- contemplazioni dolci è tolto quante volte voglia ne viene alla nuova
- donna, ma gli conviene essere accompagnato di compagnia male a cosí
- fatte cose disposta. Egli, usato liberamente di ridere, di piagnere,
- di cantare o di sospirare, secondo che le passioni dolci e amare il
- pungevano, ora o non osa, o gli conviene non che delle maggiori cose,
- ma d'ogni picciol sospiro rendere alla donna ragione, mostrando che 'l
- mosse, donde venne e dove andò; la letizia cagione dell'altrui amore,
- la tristizia esser del suo odio estimando.
- Oh fatica inestimabile, avere con cosí sospettoso animale a vivere, a
- conversare, e ultimamente a invecchiare o a morire! Io voglio lasciare
- stare la sollecitudine nuova e gravissima, la quale si conviene avere
- a' non usati (e massimamente nella nostra cittá), cioè onde vengano i
- vestimenti, gli ornamenti e le camere piene di superflue dilicatezze,
- le quali le donne si fanno a credere essere al ben vivere opportune;
- onde vengano li servi, le serve, le nutrici, le cameriere; onde
- vengano i conviti, i doni, i presenti che fare si convengono a'
- parenti delle novelle spose, a quegli che vogliono che esse credano da
- loro essere amate; e appresso queste, altre cose assai prima non
- conosciute da' liberi uomini; e venire a cose che fuggir non si
- possono. Chi dubita che della sua donna, che ella sia bella o non
- bella, non caggia il giudicio nel vulgo? Se bella fia reputata, chi
- dubita che essa subitamente non abbia molti amadori, de' quali alcuno
- con la sua bellezza, altri con la sua nobiltá, e tale con maravigliose
- lusinghe, e chi con doni, e quale con piacevolezza infestissimamente
- combatterá il non stabile animo? E quel, che molti disiderano,
- malagevolmente da alcuno si difende. E alla pudicizia delle donne non
- bisogna d'essere presa piú che una volta, a fare sé infame e i mariti
- dolorosi in perpetuo. Se per isciagura di chi a casa la si mena, fia
- sozza, assai aperto veggiamo le bellissime spesse volte e tosto
- rincrescere; che dunque dell'altre possiamo pensare, se non che, non
- che esse, ma ancora ogni luogo nel quale esse sieno credute trovare da
- coloro, a' quali sempre le conviene aver per loro, è avuto in odio?
- Onde le loro ire nascono, né alcuna fiera è piú né tanto crudele
- quanto la femmina adirata, né può viver sicuro di sé, chi sé commette
- ad alcuna, alla quale paia con ragione esser crucciata; che pare a
- tutte.
- Che dirò de' loro costumi? Se io vorrò mostrare come e quanto essi
- sieno tutti contrari alla pace e al riposo degli uomini, io tirerò in
- troppo lungo sermone il mio ragionare; e però uno solo, quasi a tutte
- generale, basti averne detto. Esse immaginano il bene operare ogni
- menomo servo ritener nella casa, e il contrario fargli cacciare; per
- che estimano, se ben fanno, non altra sorte esser la lor che d'un
- servo: per che allora par solamente loro esser donne, quando, male
- adoperando, non vengono al fine che' fanti fanno. Perché voglio io
- andare dimostrando particularmente quello che gli piú sanno? Io
- giudico che sia meglio il tacersi che dispiacere, parlando, alle vaghe
- donne. Chi non sa che tutte l'altre cose si pruovano, prima che colui,
- di cui debbono esser, comperate, le prenda, se non la moglie, accioché
- prima non dispiaccia che sia menata? A ciascuno che la prende, la
- conviene avere non tale quale egli la vorrebbe, ma quale la fortuna
- gliele concede. E se le cose che di sopra son dette son vere (che il
- sa chi provate l'ha), possiamo pensare quanti dolori nascondano le
- camere, li quali di fuori, da chi non ha occhi la cui perspicacitá
- trapassi le mura sono reputati diletti. Certo io non affermo queste
- cose a Dante essere avvenute, ché nol so; comeché vero sia che, o
- simili cose a queste, o altre che ne fosser cagione, egli, una volta
- da lei partitosi, che per consolazione de' suoi affanni gli era stata
- data, mai né dove ella fosse volle venire, né sofferse che lá dove
- egli fosse ella venisse giammai; con tutto che di piú figliuoli egli
- insieme con lei fosse parente. Né creda alcuno che io per le su dette
- cose voglia conchiudere gli uomini non dover tôrre moglie; anzi il
- lodo molto, ma non a ciascuno. Lascino i filosofanti lo sposarsi a'
- ricchi stolti, a' signori e a' lavoratori, e essi con la filosofia si
- dilettino, molto migliore sposa che alcuna altra.
- VIII
- OPPOSTE VICENDE DELLA VITA PUBBLICA DI DANTE
- Natura generale è delle cose temporali, l'una l'altra tirarsi di
- dietro. La familiar cura trasse Dante alla publica, nella quale tanto
- l'avvilupparono li vani onori che alli publici ofici congiunti sono,
- che, senza guardare donde s'era partito e dove andava con abbandonate
- redine, quasi tutto al governo di quella si diede; e fugli tanto in
- ciò la fortuna seconda, che niuna legazion s'ascoltava, a niuna si
- rispondea, niuna legge si fermava, niuna se ne abrogava, niuna pace si
- faceva, niuna guerra publica s'imprendeva, e brievemente niuna
- diliberazione, la quale alcuno pondo portasse, si pigliava, s'egli in
- ciò non dicesse prima la sua sentenzia. In lui tutta la publica fede,
- in lui ogni speranza, in lui sommariamente le divine cose e l'umane
- parevano esser fermate. Ma la Fortuna, volgitrice de' nostri consigli
- e inimica d'ogni umano stato, comeché per alquanti anni nel colmo
- della sua rota gloriosamente reggendo il tenesse, assai diverso fine
- al principio recò a lui, in lei fidantesi di soperchio.
- IX
- COME LA LOTTA DELLE PARTI LO COINVOLSE
- Era al tempo di costui la fiorentina cittadinanza in due parti
- perversissimamente divisa, e, con l'operazioni di sagacissimi e
- avveduti prencipi di quelle, era ciascuna assai possente; intanto che
- alcuna volta l'una e alcuna l'altra reggeva oltre al piacere della
- sottoposta. A volere riducere a unitá il partito corpo della sua
- republica, pose Dante ogni suo ingegno, ogni arte, ogni studio,
- mostrando a' cittadini piú savi come le gran cose per la discordia in
- brieve tempo tornano al niente, e le picciole per la concordia
- crescere in infinito. Ma, poi che vide essere vana la sua fatica, e
- conobbe gli animi degli uditori ostinati; credendolo giudicio di Dio,
- prima propose di lasciar del tutto ogni publico oficio e vivere seco
- privatamente; poi dalla dolcezza della gloria tirato e dal vano favor
- popolesco e ancora dalle persuasioni de' maggiori; credendosi, oltre a
- questo, se tempo gli occorresse, molto piú di bene potere operare per
- la sua cittá, se nelle cose publiche fosse grande, che a sé privato e
- da quelle del tutto rimosso (oh stolta vaghezza degli umani splendori,
- quanto sono le tue forze maggiori, che creder non può chi provati non
- gli ha!): il maturo uomo e nel santo seno della filosofia allevato,
- nutricato e ammaestrato, al quale erano davanti dagli occhi i
- cadimenti de' re antichi e de' moderni, le desolazioni de' regni,
- delle province e delle cittá e li furiosi impeti della Fortuna, niun
- altro cercanti che l'alte cose, non si seppe o non si poté dalla tua
- dolcezza guardare.
- Fermossi adunque Dante a volere seguire gli onori caduchi e la vana
- pompa dei publici ofici; e, veggendo che per se medesimo non potea una
- terza parte tenere, la quale, giustissima, l'ingiustizia dell'altre
- due abbattesse, tornandole ad unitá; con quella s'accostò, nella
- quale, secondo il suo giudicio, era piú di ragione e di giustizia;
- operando continuamente ciò che salutevole alla sua patria e a'
- cittadini conoscea. Ma gli umani consigli le piú delle volte rimangon
- vinti dalle forze del cielo. Gli odii e l'animositá prese, ancora che
- sanza giusta cagione nati fossoro, di giorno in giorno divenivan
- maggiori, in tanto che non senza grandissima confusione de' cittadini,
- piú volte si venne all'arme con intendimento di por fine alla lor lite
- col fuoco e col ferro: sí accecati dall'ira, che non vedevano sé con
- quella miseramente perire. Ma, poi che ciascuna delle parti ebbe piú
- volte fatta pruova delle sue forze con vicendevoli danni dell'una e
- dell'altra; venuto il tempo che gli occulti consigli della minacciante
- fortuna si doveano scoprire, la fama, parimente del vero e del falso
- rapportatrice, nunziando gli avversari della parte presa da Dante, di
- maravigliosi e d'astuti consigli esser forte e di grandissima
- moltitudine d'armati, sí gli prencipi de' collegati di Dante spaventò,
- che ogni consilio, ogni avvedimento e ogni argomento cacciò da loro,
- se non il cercare con fuga la loro salute; co' quali insieme Dante, in
- un momento prostrato della sommitá del reggimento della sua cittá, non
- solamente gittato in terra si vide, ma cacciato di quella. Dopo questa
- cacciata non molti dí, essendo giá stato dal popolazzo corso alle case
- de' cacciati, e furiosamente votate e rubate, poi che i vittoriosi
- ebbero la cittá riformata secondo il loro giudicio, furono tutti i
- prencipi de' loro avversari, e con loro, non come de' minori ma quasi
- principale, Dante, sí come capitali nemici della republica dannati a
- perpetuo esilio, e li loro stabili beni o in publico furon ridotti, o
- alienati a' vincitori.
- X
- SI MALEDICE ALL'INGIUSTA CONDANNA D'ESILIO
- Questo merito riportò Dante del tenero amore avuto alla sua patria!
- questo merito riportò Dante dell'affanno avuto in voler tôrre via le
- discordie cittadine! questo merito riportò Dante dell'avere con ogni
- sollecitudine cercato il bene, la pace e la tranquillitá de' suoi
- cittadini! Per che assai manifestamente appare quanto sieno vòti di
- veritá i favori de' popoli, e quanta fidanza si possa in essi avere.
- Colui, nel quale poco avanti pareva ogni publica speranza esser posta,
- ogni affezione cittadina, ogni rifugio populare; subitamente, senza
- cagione legittima, senza offesa, senza peccato, da quel romore, il
- quale per addrieto s'era molte volte udito le sue laude portare infino
- alle stelle, è furiosamente mandato in inrevocabile esilio. Questa fu
- la marmorea statua fattagli ad eterna memoria della sua virtú! con
- queste lettere fu il suo nome tra quegli de' padri della patria
- scritto in tavole d'oro! con cosí favorevole romore gli furono rendute
- grazie de' suoi benefici! Chi sará dunque colui che, a queste cose
- guardando, dica la nostra republica da questo piè non andare
- sciancata?
- Oh vana fidanza de' mortali, da quanti esempli altissimi se' tu
- continuamente ripresa, ammonita e gastigata! Deh! se Cammillo,
- Rutilio, Coriolano, e l'uno e l'altro Scipione, e gli altri antichi
- valenti uomini per la lunghezza del tempo interposto ti sono della
- memoria caduti, questo ricente caso ti faccia con piú temperate redine
- correr ne' tuoi piaceri. Niuna cosa ci ha meno stabilita che la
- popolesca grazia; niuna piú pazza speranza, niuno piú folle consiglio
- che quello che a crederle conforta nessuno. Levinsi adunque gli animi
- al cielo, nella cui perpetua legge, nelli cui eterni splendori, nella
- cui vera bellezza si potrá senza alcuna oscuritá conoscere la
- stabilitá di Colui che lui e le altre cose con ragione muove;
- accioché, sí come in termine fisso, lasciando le transitorie cose, in
- lui si fermi ogni nostra speranza, se trovare non ci vogliamo
- ingannati.
- XI
- LA VITA DEL POETA ESULE SINO ALLA VENUTA IN ITALIA DI ARRIGO SETTIMO
- Uscito adunque in cotal maniera Dante di quella cittá, della quale
- egli non solamente era cittadino, ma n'erano li suoi maggiori stati
- reedificatori, e lasciatavi la sua donna, insieme con l'altra
- famiglia, male per picciola etá alla fuga disposta; di lei sicuro,
- percioché di consanguinitá la sapeva ad alcuno de' prencipi della
- parte avversa congiunta, di se medesimo or qua or lá incerto, andava
- vagando per Toscana. Era alcuna particella delle sue possessioni dalla
- donna col titolo della sua dote dalla cittadina rabbia stata con
- fatica difesa, de' frutti della quale essa sé e i piccioli figliuoli
- di lui assai sottilmente reggeva; per la qual cosa povero, con
- industria disusata gli convenia il sostentamento di se medesimo
- procacciare. Oh quanti onesti sdegni gli convenne posporre, piú duri a
- lui che morte a trapassare, promettendogli la speranza questi dover
- esser brievi, e prossima la tornata! Egli, oltre al suo stimare,
- parecchi anni, tornato da Verona (dove nel primo fuggire a messer
- Alberto della Scala n'era ito, dal quale benignamente era stato
- ricevuto), quando col conte Salvatico in Casentino, quando col
- marchese Morruello Malespina in Lunigiana, quando con quegli della
- Faggiuola ne' monti vicini ad Orbino, assai convenevolmente, secondo
- il tempo e secondo la loro possibilitá, onorato si stette. Quindi poi
- se n'andò a Bologna, dove poco stato n'andò a Padova, e quindi da capo
- si ritornò a Verona. Ma poi ch'egli vide da ogni parte chiudersi la
- via alla tornata, e di dí in dí piú divenire vana la sua speranza; non
- solamente Toscana, ma tutta Italia abbandonata, passati i monti che
- quella dividono dalla provincia di Gallia, come poté, se n'andò a
- Parigi; e quivi tutto si diede allo studio e della filosofia e della
- teologia, ritornando ancora in sé dell'altre scienzie ciò che forse
- per gli altri impedimenti avuti se ne era partito. E in ciò il tempo
- studiosamente spendendo, avvenne che oltre al suo avviso, Arrigo,
- conte di Luzimborgo, con volontá e mandato di Clemente papa V, il
- quale allora sedea, fu eletto in re de' romani, e appresso coronato
- imperadore. Il quale sentendo Dante della Magna partirsi per
- soggiogarsi Italia, alla sua maestá in parte rebelle, e giá con
- potentissimo braccio tenere Brescia assediata, avvisando lui per molte
- ragioni dover essere vincitore; prese speranza con la sua forza e
- dalla sua giustizia di potere in Fiorenza tornare, comeché a lui la
- sentisse contraria. Perché ripassate l'alpi, con molti nemici di
- fiorentini e di lor parte congiuntosi, e con ambascerie e con lettere
- s'ingegnarono di tirare lo 'mperadore da l'assedio di Brescia,
- accioché a Fiorenza il ponesse, sí come a principale membro de' suoi
- nemici; mostrandogli che, superata quella, niuna fatica gli restava, o
- piccola, ad avere libera ed espedita la possessione e il dominio di
- tutta Italia. E comeché a lui e agli altri a ciò tenenti venisse fatto
- il trarloci, non ebbe perciò la sua venuta il fine da loro avvisato:
- le resistenze furon grandissime, e assai maggiori che da loro avvisate
- non erano; per che, senza avere niuna notevole cosa operata, lo
- 'mperadore, partitosi quasi disperato, verso Roma drizzò il suo
- cammino. E come che in una parte e in altra piú cose facesse, assai ne
- ordinasse e molte di farne proponesse, ogni cosa ruppe la troppo
- avacciata morte di lui: per la qual morte generalmente ciascuno che a
- lui attendea disperatosi, e massimamente Dante, sanza andare di suo
- ritorno piú avanti cercando, passate l'alpi d'Appennino, se ne andò in
- Romagna, lá dove l'ultimo suo dí, e che alle sue fatiche doveva por
- fine, l'aspettava.
- XII
- DANTE OSPITE DI GUIDO NOVEL DA POLENTA
- Era in que' tempi signore di Ravenna, famosa e antica cittá di
- Romagna, uno nobile cavaliere, il cui nome era Guido Novel da Polenta;
- il quale, ne' liberali studi ammaestrato, sommamente i valorosi uomini
- onorava, e massimamente quegli che per iscienza gli altri avanzavano.
- Alle cui orecchie venuto Dante, fuori d'ogni speranza, essere in
- Romagna (avendo egli lungo tempo avanti per fama conosciuto il suo
- valore) in tanta disperazione, sí dispose di riceverlo e d'onorarlo.
- Né aspettò di ciò da lui essere richiesto, ma con liberale animo,
- considerata qual sia a' valorosi la vergogna del domandare, e con
- proferte, gli si fece davanti, richiedendo di spezial grazia a Dante
- quello ch'egli sapeva che Dante a lui dovea dimandare: cioè che seco
- li piacesse di dover essere. Concorrendo adunque i due voleri a un
- medesimo fine, e del domandato e del domandatore, e piacendo
- sommamente a Dante la liberalitá del nobile cavaliere, e d'altra parte
- il bisogno strignendolo, senza aspettare piú inviti che 'l primo, se
- n'andò a Ravenna, dove onorevolemente dal signore di quella ricevuto,
- e con piacevoli conforti risuscitata la caduta speranza, copiosamente
- le cose opportune donandogli, in quella seco per piú anni il tenne,
- anzi infino a l'ultimo della vita di lui.
- XIII
- SUA PERSEVERANZA AL LAVORO
- Non poterono gli amorosi disiri, né le dolenti lagrime, né la
- sollecitudine casalinga, né la lusinghevole gloria de' publici ofici,
- né il miserabile esilio, né la intollerabile povertá giammai con le
- lor forze rimuovere il nostro Dante dal principale intento, cioè da'
- sacri studi; percioché, sí come si vederá dove appresso partitamente
- dell'opere da lui fatte si fará menzione, egli, nel mezzo di qualunque
- fu piú fiera delle passioni sopradette, si troverá componendo essersi
- esercitato. E se, obstanti cotanti e cosí fatti avversari, quanti e
- quali di sopra sono stati mostrati, egli per forza d'ingegno e di
- perseveranza riuscí chiaro qual noi veggiamo; che si può sperare
- ch'esso fosse divenuto, avendo avuti altrettanti aiutatori, o almeno
- niuno contrario, o pochissimi, come hanno molti? Certo, io non so; ma
- se licito fosse a dire, io direi ch'egli fosse in terra divenuto uno
- iddio.
- XIV
- GRANDEZZA DEL POETA VOLGARE-SUA MORTE
- Abitò adunque Dante in Ravenna, tolta via ogni speranza di ritornare
- mai in Firenze (comeché tolto non fosse il disio) piú anni sotto la
- protezione del grazioso signore; e quivi con le sue dimostrazioni fece
- piú scolari in poesia e massimamente nella volgare; la quale, secondo
- il mio giudicio, egli primo non altramenti fra noi italici esaltò e
- recò in pregio, che la sua Omero tra' greci o Virgilio tra' latini.
- Davanti a costui, come che per poco spazio d'anni si creda che innanzi
- trovata fosse, niuno fu che ardire o sentimento avesse, dal numero
- delle sillabe e dalla consonanza delle parti estreme in fuori, di
- farla essere strumento d'alcuna artificiosa materia; anzi solamente in
- leggerissime cose d'amore con essa s'esercitavano. Costui mostrò con
- effetto con essa ogni alta materia potersi trattare, e glorioso sopra
- ogni altro fece il volgar nostro.
- Ma, poiché la sua ora venne segnata a ciascheduno, essendo egli giá
- nel mezzo o presso del cinquantesimo sesto suo anno infermato, e
- secondo la cristiana religione ogni ecclesiastico sacramento umilmente
- e con divozione ricevuto, e a Dio per contrizione d'ogni cosa commessa
- da lui contra al suo piacere, sí come da uomo, riconciliatosi; del
- mese di settembre negli anni di Cristo MCCCXXI, nel dí che la
- esaltazione della santa Croce si celebra dalla Chiesa, non sanza
- grandissimo dolore del sopradetto Guido, e generalmente di tutti gli
- altri cittadini ravignani, al suo Creatore rendé il faticato spirito;
- il quale non dubito che ricevuto non fosse nelle braccia della sua
- nobilissima Beatrice, con la quale nel cospetto di Colui ch'è sommo
- bene, lasciate le miserie della presente vita, ora lietissimamente
- vive in quella, alla cui felicitá fine giammai non s'aspetta.
- XV
- SEPOLTURA E ONORI FUNEBRI
- Fece il magnanimo cavaliere il morto corpo di Dante d'ornamenti
- poetici sopra uno funebre letto adornare; e quello fatto portare sopra
- gli omeri de' suoi cittadini piú solenni, infino al luogo de' frati
- minori in Ravenna, con quello onore che a sí fatto corpo degno
- estimava, infino quivi quasi con publico pianto seguitolo, in una arca
- lapidea, nella quale ancora giace, il fece porre. E, tornato alla casa
- nella quale Dante era prima abitato, secondo il ravignano costume,
- esso medesimo, sí a commendazione dell'alta scienzia e della vertú del
- defunto, e sí a consolazione de' suoi amici, li quali egli avea in
- amarissima vita lasciati, fece un ornato e lungo sermone; disposto, se
- lo stato e la vita fossero durati, di sí egregia sepoltura onorarlo,
- che, se mai alcuno altro suo merito non l'avesse memorevole renduto a'
- futuri, quella l'avrebbe fatto.
- XVI
- GARA DI POETI PER L'EPITAFIO DI DANTE
- Questo laudevole proponimento infra brieve spazio di tempo fu
- manifesto ad alquanti, li quali in quel tempo erano in poesí
- solennissimi in Romagna; per che ciascuno sí per mostrare la sua
- sofficienzia, sí per rendere testimonianza della portata benivolenzia
- da loro al morto poeta, sí per captare la grazia e l'amore del
- signore, il quale ciò sapevano disiderare, ciascuno per sé fece versi,
- li quali, posti per epitafio alla futura sepultura. con debite lode
- facessero la posteritá certa chi dentro da essa giacesse; e al
- magnifico signore gli mandarono. Il quale con gran peccato della
- fortuna non dopo molto tempo, toltogli lo Stato, si morí a Bologna;
- per la qual cosa e il fare il sepolcro e il porvi li mandati versi si
- rimase. Li quali versi stati a me mostrati poi piú tempo appresso, e
- veggendo loro avere avuto luogo per lo caso giá dimostrato, pensando
- le presenti cose per me scritte, comeché sepoltura non sieno
- corporale, ma sieno, sí come quella sarebbe stata, perpetue
- conservatrici della colui memoria; imaginai non essere sconvenevole
- quegli aggiugnere a queste cose. Ma, percioché piú che quegli che
- l'uno di coloro avesse fatti (che furon piú) non si sarebbero ne'
- marmi intagliati, cosí solamente quegli d'uno qui estimai che fosser
- da scrivere; per che, tutti meco esaminatigli, per arte e per
- intendimento piú degni estimai che fossero quattordici fattine da
- maestro Giovanni del Virgilio bolognese, allora famosissimo e gran
- poeta, e di Dante stato singularissimo amico; li quali sono questi
- appresso scritti:
- XVII
- EPITAFIO
- _Theologus Dantes, nullius dogmatis expers,
- quod foveat claro philosophia sinu:
- gloria musarum, vulgo gratissimus auctor,
- hic iacet, et fama pulsat utrumque polum:
- qui loca defunctis gladiis regnumque gemellis
- distribuit, laicis rhetoricisque modis.
- Pascua Pieriis demum resonabat avenis;
- Atropos heu laetum livida rupit opus.
- Huic ingrata tulit tristem Florentia fructum,
- exilium, vati patria cruda suo.
- Quem pia Guidonis gremio Ravenna Novelli
- gaudet honorati continuisse ducis,
- mille trecentenis ter septem Numinis annis,
- ad sua septembris idibus astra redit._
- XVIII
- RIMPROVERO AI FIORENTINI
- Oh ingrata patria, quale demenzia, qual trascutaggine ti teneva,
- quando tu il tuo carissimo cittadino, il tuo benefattore precipuo, il
- tuo unico poeta con crudeltá disusata mettesti in fuga; o poscia
- tenuta t'ha? Se forse per la comune furia di quel tempo mal
- consigliata ti scusi; ché, tornata, cessate l'ire, la tranquillitá
- dell'animo, ripentútati del fatto, nol rivocasti? Deh! non ti
- rincresca lo stare con meco, che tuo figliuol sono, alquanto a
- ragione, e quello che giusta indegnazion mi fa dire, come da uomo che
- ti ramendi disidera e non che tu sii punita, piglierai. Párti egli
- essere gloriosa di tanti titoli e di tali che tu quello uno del quale
- non hai vicina cittá che di simile si possa esaltare, tu abbi voluto
- da te cacciare? Deh! dimmi: di qua' vittorie, di qua' triunfi, di
- quali eccellenzie, di quali valorosi cittadini se' tu splendente? Le
- tue ricchezze, cosa mobile e incerta; le tue bellezze, cosa fragile e
- caduca; le tue dilicatezze, cosa vituperevole e femminile, ti fanno
- nota nel falso giudicio de' popoli, il quale piú ad apparenza che ad
- esistenza sempre riguarda. Deh! gloriera'ti tu de' tuoi mercatanti e
- de' molti artisti, donde tu se' piena? Scioccamente farai: l'uno fu,
- continuamente l'avarizia operandolo, mestiere servile; l'arte, la
- quale un tempo nobilitata fu dagl'ingegni, intanto che una seconda
- natura la fecero, dall'avarizia medesima è oggi corrotta, e niente
- vale. Gloriera'ti tu della viltá e ignavia di coloro li quali,
- percioché di molti loro avoli si ricordano, vogliono dentro da te
- della nobiltá ottenere il principato, sempre con ruberie e con
- tradimenti e con falsitá contra quella operanti? Vana gloria sará la
- tua, e da coloro, le cui sentenzie hanno fondamento debito e stabile
- fermezza, schernita. Ahi! misera madre, apri gli occhi e guarda con
- alcuno rimordimento quello che tu facesti; e vergógnati almeno,
- essendo reputata savia come tu se', d'avere avuta ne' falli tuoi falsa
- elezione! Deh! se tu da te non avevi tanto consiglio, perché non
- imitavi tu gli atti di quelle cittá, le quali ancora per le loro
- laudevoli opere son famose? Atene, la quale fu l'uno degli occhi di
- Grecia, allora che in quella era la monarchia del mondo, per
- iscienzia, per eloquenzia e per milizia splendida parimente; Argos,
- ancora pomposa per li titoli de' suoi re; Smirna, a noi reverenda in
- perpetuo per Niccolaio suo pastore; Pilos, notissima per lo vecchio
- Nestore; Chimi, Chios e Colofon, cittá splendidissime per adietro,
- tutte insieme, qualora piú gloriose furono, non si vergognarono né
- dubitarono d'avere agra quistione della origine del divino poeta
- Omero, affermando ciascuna lui di sé averla tratta; e si ciascuna fece
- con argomenti forte la sua intenzione, che ancora la quistion vive; né
- è certo donde si fosse, perché parimente di cotal cittadino cosí l'una
- come l'altra ancor si gloria. E Mantova, nostra vicina, di quale altra
- cosa l'è piú alcuna fama rimasa, che l'essere stato Virgilio
- mantovano? il cui nome hanno ancora in tanta reverenzia, e sí è appo
- tutti accettevole, che non solamente ne' publici luoghi, ma ancora in
- molti privati si vede la sua imagine effigiata; mostrando in ciò che,
- non ostante che il padre di lui fosse lutifigolo, esso di tutti loro
- sia stato nobilitatore. Sulmona d'Ovidio, Venosa d'Orazio, Aquino di
- Giovenale, e altre molte, ciascuna si gloria del suo, e della loro
- sufficienzia fanno quistione. L'esemplo di queste non t'era vergogna
- di seguitare; le quali non è verisimile sanza cagione essere state e
- vaghe e ténere di cittadini cosí fatti. Esse conobbero quello che tu
- medesima potevi conoscere e puoi; cioè che le costoro perpetue
- operazioni sarebbero ancora dopo la lor ruina ritenitrici eterne del
- nome loro; cosí come al presente divulgate per tutto il mondo le fanno
- conoscere a coloro che non le vider giammai. Tu sola, non so da qual
- cechitá adombrata, hai voluto tenere altro cammino, e quasi molto da
- te lucente, di questo splendore non hai curato: tu sola, quasi i
- Camilli, i Publicoli, i Torquati, i Fabrizi, i Catoni, i Fabi e gli
- Scipioni con le loro magnifiche opere ti facessero famosa e in te
- fossero; non solamente, avendoti lasciato l'antico tuo cittadino
- Claudiano cader delle mani, non hai avuto del presente poeta cura; ma
- l'hai da te cacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi potuto, del
- tuo sopranome. Io non posso fuggire di vergognarmene in tuo servigio.
- Ma ecco: non la fortuna, ma il corso della natura delle cose è stato
- al tuo disonesto appetito favorevole in tanto, in quanto quello che tu
- volentieri, bestialmente bramosa, avresti fatto se nelle mani ti fosse
- venuto, cioè uccisolo, egli con la sua eterna legge l'ha operato.
- Morto è il tuo Dante Alighieri in quello esilio che tu ingiustamente,
- del suo valore invidiosa, gli désti. Oh peccato da non ricordare, che
- la madre alle virtú d'alcuno suo figliuolo porti livore! Ora adunque
- se' di sollicitudine libera, ora per la morte di lui vivi ne' tuoi
- difetti sicura, e puoi alle tue lunghe e ingiuste persecuzioni porre
- fine. Egli non ti può far, morto, quello che mai, vivendo, non t'avria
- fatto; egli giace sotto altro cielo che sotto il tuo, né piú déi
- aspettar di vederlo giammai, se non quel dí, nel quale tutti li tuoi
- cittadini veder potrai, e le lor colpe da giusto giudice esaminate e
- punite.
- Adunque se gli odii, l'ire e le inimicizie cessano per la morte di
- qualunque è che muoia, come si crede, comincia a tornare in te
- medesima e nel tuo diritto conoscimento; comincia a vergognarti
- d'avere fatto contra la tua antica umanitá; comincia a volere apparir
- madre e non piú inimica; concedi le debite lagrime al tuo figliuolo;
- concedigli la materna pietá; e colui, il quale tu rifiutasti, anzi
- cacciasti vivo sí come sospetto, disidera almeno di riaverlo morto;
- rendi la tua cittadinanza, il tuo seno, la tua grazia alla sua
- memoria. In veritá, quantunque tu a lui ingrata e proterva fossi, egli
- sempre come figliuolo ebbe te in reverenza, né mai di quello onore che
- per le sue opere seguire ti dovea, volle privarti, come tu lui della
- tua cittadinanza privasti. Sempre fiorentino, quantunque l'esilio
- fosse lungo, si nominò e volle essere nominato, sempre a ogni altra ti
- prepose, sempre t'amò. Che dunque farai? starai sempre nella tua
- iniquitá ostinata? sará in te meno d'umanitá che ne' barbari, li quali
- troviamo non solamente aver li corpi delli lor morti raddomandati, ma
- per riavergli essersi virilmente disposti a morire? Tu vuogli che 'l
- mondo creda te essere nepote della famosa Troia e figliuola di Roma:
- certo, i figliuoli deono essere a' padri e agli avoli simiglianti.
- Priamo nella sua miseria non solamente raddomandò il corpo del morto
- Ettore, ma quello con altrettanto oro ricomperò. Li romani, secondo
- che alcuni pare che credano, feciono da Linterno venire l'ossa del
- primo Scipione, da lui a loro con ragione nella sua morte vietate. E
- come che Ettore fosse con la sua prodezza lunga difesa de' troiani, e
- Scipione liberatore non solamente di Roma, ma di tutta Italia (delle
- quali due cose forse cosí propiamente niuna si può dire di Dante),
- egli non è perciò da posporre; niuna volta fu mai che l'armi non
- dessero luogo alla scienzia. Se tu primieramente, e dove piú si saria
- convenuto, l'esemplo e l'opere delle savie cittá non imitasti, amenda
- al presente, seguendole. Niuna delle sette predette fu che o vera o
- fittizia sepultura non facesse ad Omero. E chi dubita che i mantovani,
- li quali ancora in Piettola onorano la povera casetta e i campi che
- fûr di Virgilio, non avessero a lui fatta onorevole sepoltura, se
- Ottaviano Augusto, il quale da Brandizio a Napoli le sue ossa avea
- trasportate, non avesse comandato quello luogo dove poste l'avea,
- volere loro essere perpetua requie? Sermona niun'altra cosa pianse
- lungamente, se non che l'isola di Ponto tenga in certo luogo il suo
- Ovidio; e cosí di Cassio Parma si rallegra tenendolo. Cerca tu adunque
- di volere essere del tuo Dante guardiana; raddomandalo; mostra questa
- umanitá, presupposto che tu non abbi voglia di riaverlo; togli a te
- medesima con questa fizione parte del biasimo per adietro acquistato.
- Raddomandalo. Io son certo ch'egli non ti fia renduto; e a una ora ti
- sarai mostrata pietosa, e goderai, non riavendolo, della tua innata
- crudeltá. Ma a che ti conforto io? Appena che io creda, se i corpi
- morti possono alcuna cosa sentire, che quello di Dante si potesse
- partire di lá dove è, per dovere a te tornare. Egli giace con
- compagnia troppo piú laudevole che quella che tu gli potessi dare.
- Egli giace in Ravenna, molto piú per etá veneranda di te; e comeché la
- sua vecchiezza alquanto la renda deforme, ella fu nella sua giovanezza
- troppo piú florida che tu non se'. Ella è quasi un generale sepolcro
- di santissimi corpi, né niuna parte in essa si calca, dove su per
- reverendissime ceneri non si vada. Chi dunque disidererebbe di tornare
- a te per dovere giacere fra le tue, le quali si può credere che ancora
- servino la rabbia e l'iniquitá nella vita avute, e male concorde
- insieme si fuggano l'una da l'altra, non altramenti che facessero le
- fiamme de' due tebani? E comeché Ravenna giá quasi tutta del prezioso
- sangue di molti martiri si bagnasse, e oggi con reverenzia servi le
- loro reliquie, e similemente i corpi di molti magnifici imperadori e
- d'altri uomini chiarissimi e per antichi avoli e per opere virtuose,
- ella non si rallegra poco d'esserle stato da Dio, oltre a l'altre sue
- dote, conceduto d'essere perpetua guardiana di cosí fatto tesoro, come
- è il corpo di colui, le cui opere tengono in ammirazione tutto il
- mondo, e del quale tu non ti se' saputa far degna. Ma certo egli non è
- tanta l'allegrezza d'averlo, quanta la invidia ch'ella ti porta che tu
- t'intitoli della sua origine, quasi sdegnando che dove ella sia per
- l'ultimo dí di lui ricordata, tu allato a lei sii nominata per lo
- primo. E perciò con la tua ingratitudine ti rimani, e Ravenna de' tuoi
- onori lieta si glori tra' futuri.
- XIX
- BREVE RICAPITOLAZIONE
- Cotale, quale di sopra è dimostrata, fu a Dante la fine della vita
- faticata da' vari studi; e, percioché assai convenevolemente le sue
- fiamme, la familiare e la publica sollecitudine e il miserabile esilio
- e la fine di lui mi pare avere secondo la mia promessa mostrate,
- giudico sia da pervenire a mostrare della statura del corpo,
- dell'abito, e generalmente de' piú notabili modi servati nella sua
- vita da lui; da quegli poi immediatamente vegnendo all'opere degne di
- nota, compilate da esso nel tempo suo, infestato da tanta turbine
- quanta di sopra brievemente è dichiarata.
- XX
- FATTEZZE E COSTUMI DI DANTE
- Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla
- matura etá fu pervenuto, andò alquanto curvetto, ed era il suo andare
- grave e mansueto, d'onestissimi panni sempre vestito in quell'abito
- che era alla sua maturitá convenevole. Il suo volto fu lungo, e il
- naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle
- grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore
- era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre
- nella faccia malinconico e pensoso. Per la qual cosa avvenne un giorno
- in Verona, essendo giá divulgata pertutto la fama delle sue opere, e
- massimamente quella parte della sua _Comedia_, la quale egli intitola
- _Inferno_, ed esso conosciuto da molti e uomini e donne, che, passando
- egli davanti a una porta dove piú donne sedevano, una di quelle
- pianamente, non però tanto che bene da lui e da chi con lui era non
- fosse udita, disse all'altre donne:--Vedete colui che va nell'inferno,
- e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che lá giú
- sono?--Alla quale una dell'altre rispose semplicemente:--In veritá tu
- déi dir vero: non vedi tu com'egli ha la barba crespa e il color bruno
- per lo caldo e per lo fummo che è lá giú?--Le quali parole udendo egli
- dir dietro a sé, e conoscendo che da pura credenza delle donne
- venivano, piacendogli, e quasi contento ch'esse in cotale opinione
- fossero, sorridendo alquanto, passò avanti.
- Ne' costumi domestici e publici mirabilmente fu ordinato e composto, e
- in tutti piú che alcun altro cortese e civile.
- Nel cibo e nel poto fu modestissimo, sí in prenderlo all'ore ordinate
- e sí in non trapassare il segno della necessitá, quel prendendo; né
- alcuna curiositá ebbe mai piú in uno che in uno altro: li dilicati
- lodava, e il piú si pasceva di grossi, oltremodo biasimando coloro, li
- quali gran parte del loro studio pongono e in avere le cose elette e
- quelle fare con somma diligenzia apparare; affermando questi cotali
- non mangiare per vivere, ma piú tosto vivere per mangiare.
- Niuno altro fu piú vigilante di lui e negli studi e in qualunque altra
- sollecitudine il pugnesse; intanto che piú volte e la sua famiglia e
- la donna se ne dolfono, prima che, a' suoi costumi adusate, ciò
- mettessero in non calere.
- Rade volte, se non domandato, parlava, e quelle pesatamente e con voce
- conveniente alla materia di che diceva; non pertanto, lá dove si
- richiedeva, eloquentissimo fu e facundo, e con ottima e pronta
- prolazione.
- Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovanezza, e a
- ciascuno che a que' tempi era ottimo cantatore o sonatore fu amico e
- ebbe sua usanza; e assai cose, da questo diletto tirato compose, le
- quali di piacevole e maestrevole nota a questi cotali facea rivestire.
- Quanto ferventemente esso fosse ad amor sottoposto, assai chiaro è giá
- mostrato. Questo amore è ferma credenza di tutti che fosse movitore
- del suo ingegno a dovere, prima imitando, divenir dicitore in volgare;
- poi, per vaghezza di piú solennemente mostrare le sue passioni, e di
- gloria, sollecitamente esercitandosi in quella, non solamente passò
- ciascuno suo contemporaneo, ma in tanto la dilucidò e fece bella, che
- molti allora e poi di dietro a sé n'ha fatti e fará vaghi d'essere
- esperti.
- Dilettossi similemente d'essere solitario e rimoto dalle genti,
- accioché le sue contemplazioni non gli fossero interrotte; e se pure
- alcuna che molto piaciuta gli fosse ne gli veniva, essendo esso tra
- gente, quantunque d'alcuna cosa fosse stato addomandato, giammai
- infino a tanto che egli o fermata o dannata la sua imaginazione
- avesse, non avrebbe risposto al dimandante: il che molte volte,
- essendo egli alla mensa, ed essendo in cammino con compagni, e in
- altre parti, domandato, gli avvenne.
- Ne' suoi studi fu assiduissimo, quanto è quel tempo che ad essi si
- disponea, in tanto che niuna novitá che s'udisse, da quegli il poteva
- rimuovere. E, secondo che alcuni degni di fede raccontano di questo
- darsi tutto a cosa che gli piacesse, egli, essendo una volta tra
- l'altre in Siena, e avvenutosi per accidente alla stazzone d'uno
- speziale, e quivi statogli recato uno libretto davanti promessogli, e
- tra' valenti uomini molto famoso, né da lui stato giammai veduto, non
- avendo per avventura spazio di portarlo in altra parte, sopra la panca
- che davanti allo speziale era, si pose col petto, e, messosi il
- libretto davanti, quello cupidissimamente cominciò a vedere. E comeché
- poco appresso in quella contrada stessa, e dinanzi da lui, per alcuna
- general festa de' sanesi si cominciasse da gentili giovani e facesse
- una grande armeggiata, e con quella grandissimi romori da' circustanti
- (sí come in cotal casi con istrumenti vari e con voci applaudenti suol
- farsi), e altre cose assai v'avvenissero da dover tirare altrui a
- vedersi, sí come balli di vaghe donne e giuochi molti di giovani; mai
- non fu alcuno che muovere quindi il vedesse, né alcuna volta levare
- gli occhi dal libro: anzi, postovisi quasi a ora di nona, prima fu
- passato vespro, e tutto l'ebbe veduto e quasi sommariamente compreso,
- che egli da ciò si levasse; affermando poi ad alcuni, che il
- domandavano come s'era potuto tenere di riguardare a cosí bella festa
- come davanti a lui s'era fatta, sé niente averne sentito; per che alla
- prima maraviglia non indebitamente la seconda s'aggiunse a'
- dimandanti.
- Fu ancora questo poeta di maravigliosa capacitá e di memoria
- fermissima e di perspicace intelletto, intanto che, essendo egli a
- Parigi, e quivi sostenendo in una disputazione _de quolibet_ che nelle
- scuole della teologia si facea, quattordici quistioni da diversi
- valenti uomini e di diverse materie, con gli loro argomenti pro e
- contra fatti dagli opponenti, senza mettere in mezzo raccolse, e
- ordinatamente, come poste erano state, recitò; quelle poi, seguendo
- quello medesimo ordine, sottilmente solvendo e rispondendo agli
- argomenti contrari. La qual cosa quasi miracolo da tutti i circustanti
- fu reputata.
- D'altissimo ingegno e di sottile invenzione fu similmente, sí come le
- sue opere troppo piú manifestano agl'intendenti che non potrebbono
- fare le mie lettere.
- Vaghissimo fu e d'onore e di pompa per avventura piú che alla sua
- inclita virtú non si sarebbe richiesto. Ma che? qual vita è tanto
- umile, che dalla dolcezza della gloria non sia tócca? E per questa
- vaghezza credo che oltre a ogni altro studio amasse la poesia,
- veggendo, comeché la filosofia ogni altra trapassi di nobiltá, la
- eccellenzia di quella con pochi potersi comunicare, e esserne per lo
- mondo molti famosi: e la poesia piú essere apparente e dilettevole a
- ciascuno, e li poeti rarissimi. E perciò, sperando per la poesí allo
- inusitato e pomposo onore della coronazione dell'alloro poter
- pervenire, tutto a lei si diede e istudiando e componendo. E certo il
- suo disiderio veniva intero, se tanto gli fosse stata la fortuna
- graziosa, che egli fosse giammai potuto tornare in Firenze, nella
- quale sola sopra le fonti di San Giovanni s'era disposto di coronare;
- accioché quivi, dove per lo battesimo aveva preso il primo nome, quivi
- medesimo per la coronazione prendesse il secondo. Ma cosí andò che,
- quantunque la sua sufficienzia fosse molta, e per quella in ogni
- parte, ove piaciuto gli fosse, avesse potuto l'onore della laurea
- pigliare (la quale non iscienzia accresce, ma è dell'acquistata
- certissimo testimonio e ornamento); pur, quella tornata, che mai non
- doveva essere, aspettando, altrove pigliar non la volle; e cosí, senza
- il molto disiderato onore avere, si morí. Ma, percioché spessa
- quistione si fa tra le genti, e che cosa sia la poesí e che il poeta,
- e donde sia questo nome venuto e perché di lauro sieno coronati i
- poeti, e da pochi pare essere stato mostrato; mi piace qui di fare
- alcuna transgressione, nella quale io questo alquanto dichiari,
- tornando, come piú tosto potrò, al proposito.
- XXI
- DIGRESSIONE SULL'ORIGINE DELLA POESIA
- La prima gente ne' primi secoli, comeché rozzissima e inculta fosse,
- ardentissima fu di conoscere il vero con istudio, sí come noi veggiamo
- ancora naturalmente disiderare a ciascuno. La quale veggendo il cielo
- muoversi con ordinata legge continuo, e le cose terrene avere certo
- ordine e diverse operazioni in diversi tempi, pensarono di necessitá
- dovere essere alcuna cosa, dalla quale tutte queste cose procedessero,
- e che tutte l'altre ordinasse, sí come superiore potenzia da
- niun'altra potenziata. E, questa investigazione seco diligentemente
- avuta, s'immaginarono quella, la quale «divinitá» ovvero «deitá»
- nominarono, con ogni cultivazione, con ogni onore e con piú che umano
- servigio esser da venerare. E perciò ordinarono, a reverenza del nome
- di questa suprema potenzia, ampissime ed egregie case, le quali ancora
- estimarono fossero da separare cosí di nome, come di forma separate
- erano, da quelle che generalmente per gli uomini si abitavano; e
- nominaronle «templi». E similmente avvisarono doversi [ordinar]
- ministri, li quali fossero sacri e, da ogni altra mondana
- sollecitudine rimoti, solamente a' divini servigi vacassero, per
- maturitá, per etá e per abito, piú che gli altri uomini, reverendi;
- gli quali appellarono «sacerdoti». E oltre a questo, in
- rappresentamento della immaginata essenzia divina, fecero in varie
- forme magnifiche statue, e a' servigi di quella vasellamenti d'oro e
- mense marmoree e purpurei vestimenti e altri apparati assai pertinenti
- a' sacrifici per loro istabiliti. E, accioché a questa cotale potenzia
- tacito onore o quasi mutolo non si facesse, parve loro che con parole
- d'alto suono essa fosse da umiliare e alle loro necessitá rendere
- propizia. E cosí come essi estimavano questa eccedere ciascuna altra
- cosa di nobilitá, cosí vollono che, di lungi da ogni plebeio o publico
- stilo di parlare, si trovassero parole degne di ragionare dinanzi alla
- divinitá, nelle quali le si porgessero sacrate lusinghe. E oltre a
- questo, accioché queste parole paressero aver piú d'efficacia, vollero
- che fossero sotto legge di certi numeri composte, per li quali alcuna
- dolcezza si sentisse, e cacciassesi il rincrescimento e la noia. E
- certo, questo non in volgar forma o usitata, ma con artificiosa ed
- esquisita e nuova convenne che si facesse. La qual forma li greci
- appellano «_poetes_»; laonde nacque, che quello che in cotale forma
- fatto fosse s'appellasse «_poesis_»; e quegli, che ciò facessero o
- cotale modo di parlare usassono, si chiamassero «poeti».
- Questa adunque fu la prima origine del nome della poesia, e per
- consequente de' poeti, comeché altri n'assegnino altre ragioni, forse
- buone: ma questa mi piace piú.
- Questa buona e laudevole intenzione della rozza etá mosse molti a
- diverse invenzioni nel mondo multiplicante per apparere; e dove i
- primi una sola deitá onoravano, mostrarono i seguenti molte esserne,
- comeché quella una dicessono oltre ad ogni altra ottenere il
- principato; le quali molte vollero che fossero il Sole, la Luna,
- Saturno, Giove e ciascuno degli altri de' sette pianeti, dagli loro
- effetti dando argomento alla loro deitá; e da questi vennero a
- mostrare ogni cosa utile agli uomini, quantunque terrena fosse, deitá
- essere, sí come il fuoco, l'acqua, la terra e simiglianti. Alle quali
- tutte e versi e onori e sacrifici s'ordinarono. E poi susseguentemente
- cominciarono diversi in diversi luoghi, chi con uno ingegno, chi con
- un altro, a farsi sopra la moltitudine indòtta della sua contrada
- maggiori; diffinendo le rozze quistioni, non secondo scritta legge,
- ché non l'aveano ancora, ma secondo alcuna naturale equitá, della
- quale piú uno che un altro era dotato; dando alla loro vita e alli
- loro costumi ordine, dalla natura medesima piú illuminati; resistendo
- con le loro corporali forze alle cose avverse possibili ad avvenire; e
- a chiamarsi re; e mostrarsi alla plebe e con servi e con ornamenti non
- usati infino a que' tempi dagli uomini a farsi ubbidire; e ultimamente
- a farsi adorare. Il che, solo che fosse chi 'l presumesse, sanza
- troppa difficultá avvenia; percioché a' rozzi popoli parevano, cosí
- vedendogli, non uomini ma iddii. Questi cotali, non fidandosi tanto
- delle lor forze, cominciarono ad aumentare le religioni, e con la fede
- di quelle a impaurire i suggetti e a strignere con sacramenti alla
- loro obbedienza quegli li quali non vi si sarebbono potuti con forza
- costrignere. E oltre a questo diedono opera a deificare li lor padri,
- li loro avoli e li loro maggiori, accioché piú fossero e temuti e
- avuti in reverenzia dal vulgo. Le quali cose non si poterono
- comodamente fare senza l'oficio de' poeti, li quali, sí per ampliare
- la loro fama, sí per compiacere a' prencipi, sí per dilettare i
- sudditi, e sí per persuadere il virtuosamente operare a ciascuno;
- quello che con aperto parlare saria suto della loro intenzione
- contrario, con fizioni varie e maestrevoli, male da' grossi oggi non
- che a quel tempo intese, facevano credere quello che li prencipi
- volevan che si credesse; servando negli nuovi iddii e negli uomini,
- gli quali degl'iddii nati fingevano, quello medesimo stile che nel
- vero Iddio solamente e nel suo lusingarlo avevan gli primi usato. Da
- questo si venne allo adequare i fatti de' forti uomini a quegli
- degl'iddii; donde nacque il cantare con eccelso verso le battaglie e
- gli altri notabili fatti degli uomini mescolatamente con quegli
- degl'iddii; il quale e fu ed è oggi, insieme con l'altre cose di sopra
- dette, uficio ed esercizio di ciascuno poeta. E percioché molti non
- intendenti credono la poesia niuna altra cosa essere che solamente un
- fabuloso parlare, oltre al promesso mi piace brievemente quella essere
- teologia dimostrare, prima ch'io vegna a dire perché di lauro si
- coronino i poeti.
- XXII
- DIFESA DELLA POESIA
- Se noi vorremo por giú gli animi e con ragion riguardare, io mi credo
- che assai leggiermente potremo vedere gli antichi poeti avere imitate,
- tanto quanto a lo 'ngegno umano è possibile, le vestigie dello Spirito
- santo; il quale, sí come noi nella divina Scrittura veggiamo, per la
- bocca di molti, i suoi altissimi secreti revelò a' futuri, facendo
- loro sotto velame parlare ciò che a debito tempo per opera, senza
- alcuno velo, intendeva di dimostrare. Impercioché essi, se noi
- ragguarderemo ben le loro opere, accioché lo imitatore non paresse
- diverso dallo imitato, sotto coperta d'alcune fizioni, quello che
- stato era, o che fosse al loro tempo presente, o che disideravano o
- che presumevano che nel futuro dovesse avvenire, discrissono; per che,
- come che ad uno fine l'una scrittura e l'altra non riguardasse, ma
- solo al modo del trattare, al che piú guarda al presente l'animo mio,
- ad amendune si potrebbe dare una medesima laude, usando di Gregorio le
- parole. Il quale della sacra Scrittura dice ciò che ancora della
- poetica dir si puote, cioè che essa in un medesimo sermone, narrando,
- apre il testo e il misterio a quel sottoposto; e cosí ad un'ora
- coll'uno gli savi esercita e con l'altro gli semplici riconforta, e ha
- in publico donde li pargoletti nutrichi, e in occulto serva quello
- onde essa le menti de' sublimi intenditori con ammirazione tenga
- sospese. Percioché pare essere un fiume, accioché io cosí dica, piano
- e profondo, nel quale il piccioletto agnello con gli piè vada, e il
- grande elefante ampissimamente nuoti. Ma da procedere è al verificare
- delle cose proposte.
- Intende la divina Scrittura, la qual noi «teologia» appelliamo, quando
- con figura d'alcuna istoria, quando col senso d'alcuna visione, quando
- con lo 'ntendimento d'alcun lamento, e in altre maniere assai,
- mostrarci l'alto misterio della incarnazione del Verbo divino, la vita
- di quello, le cose occorse nella sua morte, e la resurrezione
- vittoriosa, e la mirabile ascensione, e ogni altro suo atto, per lo
- quale noi ammaestrati, possiamo a quella gloria pervenire, la quale
- Egli e morendo e resurgendo ci aperse, lungamente stata serrata a noi
- per la colpa del primiero uomo. Cosí li poeti nelle loro opere, le
- quali noi chiamiamo «poesia», quando con fizioni di vari iddii, quando
- con trasmutazioni d'uomini in varie forme, e quando con leggiadre
- persuasioni, ne mostrano le cagioni delle cose, gli effetti delle
- virtú e de' vizi, e che fuggire dobbiamo e che seguire, accioché
- pervenire possiamo, virtuosamente operando, a quel fine, il quale
- essi, che il vero Iddio debitamente non conosceano, somma salute
- credevano. Volle lo Spirito santo mostrare nel rubo verdissimo, nel
- quale Moisé vide, quasí come una fiamma ardente, Iddio, la verginitá
- di Colei che piú che altra creatura fu pura, e che dovea essere
- abitazione e ricetto del Signore della natura, non doversi, per la
- concezione né per lo parto del Verbo del Padre, contaminare. Volle per
- la visione veduta da Nabucodonosor, nella statua di piú metalli
- abbattuta da una pietra convertita in monte, mostrare tutte le
- preterite etá dalla dottrina di Cristo, il quale fu ed è viva pietra,
- dovere summergersi; e la cristiana religione, nata di questa pietra,
- divenire una cosa immobile e perpetua, sí come gli monti veggiamo.
- Volle nelle lamentazioni di Ieremia, l'eccidio futuro di Ierusalem
- dichiarare.
- Similemente li nostri poeti, fingendo Saturno avere molti figliuoli, e
- quegli, fuori che quattro, divorar tutti, niuna altra cosa vollono per
- tale fizione farci sentire, se non per Saturno il tempo, nel quale
- ogni cosa si produce, e come ella in esso è prodotta, cosí è esso di
- tutte corrompitore, e tutte le riduce a niente. I quattro suoi
- figliuoli non divorati da lui, è l'uno Giove, cioè l'elemento del
- fuoco; il secondo è Giunone, sposa e sorella di Giove, cioè l'aere,
- mediante la quale il fuoco quaggiú opera li suoi effetti: il terzo è
- Nettuno, iddio del mare, cioè l'elemento dell'acqua; e il quarto e
- ultimo è Plutone, iddio del ninferno, cioè la terra, piú bassa che
- alcuno altro elemento. Similemente fingono li nostri poeti Ercule
- d'uomo essere in dio trasformato, e Licaone in lupo: moralmente
- volendo mostrarci che, virtuosamente operando, come fece Ercule,
- l'uomo diventa iddio per participazione in cielo; e, viziosamente
- operando, come Licaone fece, quantunque egli paia uomo, nel vero si
- può dire quella bestia, la quale da ciascuno si conosce per effetto
- piú simile al suo difetto: sí come Licaone per rapacitá e per
- avarizia, le quali a lupo sono molto conformi, si finge in lupo esser
- mutato. Similemente fingono li nostri poeti la bellezza de' campi
- elisi, per la quale intendo la dolcezza del paradiso; e la oscuritá di
- Dite, per la quale prendo l'amaritudine dello 'nferno; accioché noi,
- tratti dal piacere dell'uno, e dalla noia dell'altro spaventati,
- seguitiamo le virtú che in Eliso ci meneranno, e i vizi fuggiamo che
- in Dite ci farieno trarupare. Io lascio il tritare con piú particulari
- esposizioni queste cose, percioché, se quanto si converrebbe e
- potrebbe le volessi chiarire, comeché elle piú piacevoli ne
- divenissero e piú facessero forte il mio argomento, dubito non mi
- tirassero piú oltre molto che la principale materia non richiede e che
- io non voglio andare. E certo, se piú non se ne dicesse che quello
- ch'è detto, assai si dovrebbe comprendere la teologia e la poesia
- convenirsi quanto nella forma dell'operare, ma nel suggetto dico
- quelle non solamente molto essere diverse, ma ancora avverse in alcuna
- parte: percioché il suggetto della sacra teologia è la divina veritá,
- quello dell'antica poesí sono gl'iddii de' gentili e gli uomini.
- Avverse sono, in quanto la teologia niuna cosa presuppone se non vera;
- la poesia ne suppone alcune per vere, le quali sono falsissime ed
- erronee e contra la cristiana religione. Ma, percioché alcuni
- disensati si levano contra li poeti, dicendo loro sconce favole e male
- a niuna veritá consonanti avere composte, e che in altra forma che con
- favole dovevano la loro sofficienzia mostrare e a' mondani dare la
- loro dottrina; voglio ancora alquanto piú oltre procedere col presente
- ragionamento.
- Guardino adunque questi cotali le visioni di Daniello, quelle d'Isaia,
- quelle d'Ezechiel e degli altri del Vecchio Testamento con divina
- penna discritte, e da Colui mostrate al quale non fu principio né sará
- fine. Guardinsi ancora nel Nuovo le visioni dell'evangelista, piene
- agl'intendenti di mirabile veritá; e, se niuna poetica favola si
- truova tanto di lungi dal vero o dal verisimile, quanto nella
- corteccia appaiono queste in molte parti, concedasi che solamente i
- poeti abbiano dette favole da non potere dare diletto né frutto. Senza
- dire alcuna cosa alla riprensione che fanno de' poeti, in quanto la
- loro dottrina in favole ovvero sotto favole hanno mostrata, mi potrei
- passare; conoscendo che, mentre che essi mattamente gli poeti
- riprendono di ciò, incautamente caggiono in biasimare quello Spirito,
- il quale nulla altra cosa è che via, vita e veritá: ma pure alquanto
- intendo di soddisfargli.
- Manifesta cosa è che ogni cosa, che con fatica s'acquista, avere
- alquanto piú di dolcezza che quella che vien senz'affanno. La veritá
- piana, percioch'è tosto compresa con piccole forze, diletta e passa
- nella memoria. Adunque, accioché con fatica acquistata fosse piú
- grata, e perciò meglio si conservasse, li poeti sotto cose molto ad
- essa contrarie apparenti, la nascosero; e perciò favole fecero, piú
- che altra coperta, perché la bellezza di quelle attraesse coloro, li
- quali né le dimostrazion filosofiche, né le persuasioni avevano potuto
- a sé tirare. Che dunque direm de' poeti? terremo ch'essi sieno stati
- uomini insensati, come li presenti dissensati, parlando e non
- sappiendo che, gli giudicano? Certo, no; anzi furono nelle loro
- operazioni di profondissimo sentimento, quanto è nel frutto nascoso, e
- d'eccellentissima e d'ornata eloquenzia nelle cortecce e nelle frondi
- apparenti. Ma torniamo dove lasciammo.
- Dico che la teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire, dove
- uno medesimo sia il suggetto; anzi dico piú, che la teologia
- niun'altra cosa è che una poesia di Dio. E ch'altra cosa è che poetica
- fizione nella Scrittura dire Cristo essere ora leone e ora agnello e
- ora vermine, e quando drago e quando pietra, e in altre maniere molte,
- le quali voler tutte raccontare sarebbe lunghissimo? che altro suonano
- le parole del Salvatore nello evangelio, se non uno sermone da' sensi
- alieno? il quale parlare noi con piú usato vocabolo chiamiamo
- «allegoria». Dunque bene appare, non solamente la poesí essere
- teologia, ma ancora la teologia essere poesia. E certo, se le mie
- parole meritano poca fede in sí gran cosa, io non me ne turberò; ma
- credasi ad Aristotile, degnissimo testimonio a ogni gran cosa, il
- quale afferma sé aver trovato li poeti essere stati li primi
- teologizzanti. E questo basti quanto a questa parte; e torniamo a
- mostrare perché a' poeti solamente, tra gli scienziati, l'onore della
- corona dell'alloro conceduto fosse.
- XXIII
- DELL'ALLORO CONCEDUTO AI POETI
- Tra l'altre nazioni, le quali sopra il circuito della terra son molte,
- li greci si crede che sieno quegli alli quali primieramente la
- filosofia sé e li suoi segreti aprisse; de' tesori della quale essi
- trassero la dottrina militare, la vita politica e altre care cose
- assai, per le quali essi oltre a ogni altra nazione divennero famosi e
- reverendi. Ma intra l'altre, tratte del costei tesoro da loro, fu la
- santissima sentenzia di Solone nel principio posta di questa operetta;
- e accioché la loro republica, la quale piú che altra allora fioriva,
- diritta e andasse e stesse sopra due piedi, e le pene a' nocenti e i
- meriti ai valorosi magnificamente ordinarono e osservarono. Ma, intra
- gli altri meriti stabiliti da loro a chi bene adoperasse, fu questo il
- precipuo: di coronare in publico, e con publico consentimento, di
- frondi d'alloro li poeti dopo la vittoria delle loro fatiche, e
- gl'imperadori, li quali vittoriosamente avessero la republica
- aumentata; giudicando che igual gloria si convenisse a colui per la
- cui virtú le cose umane erano e servate e aumentate, che a colui da
- cui le divine eran trattate. E comeché di questo onore li greci
- fossero inventori, esso poi trapassò a' latini, quando la gloria e
- l'arme parimente di tutto il mondo diedero luogo al romano nome; e
- ancora, almeno nelle coronazioni de' poeti, comeché rarissimamente
- avvenga, vi dura. Ma, perché a tale coronazione piú il lauro che altra
- fronda eletto sia, non dovrá essere a veder rincrescevole.
- XXIV
- ORIGINE DI QUESTA USANZA
- Sono alcuni li quali credono, percioché sanno Danne amata da Febo e in
- lauro convertita, essendo Febo e il primo autore e fautore de' poeti
- stato e similmente triunfatore, per amore a quelle frondi portato, di
- quelle le sue cetere e i triunfi aver coronati; e quinci essere stato
- preso esempio dagli uomini, e per conseguente essere quello, che da
- Febo fu prima fatto, cagione di tale coronazione e di tai frondi
- infino a questo giorno a' poeti e agl'imperadori. E certo tale
- opinione non mi spiace, né nego cosí poter essere stato; ma tuttavia
- me muove altra ragione, la quale è questa. Secondo che vogliono
- coloro, li quali le virtú delle piante ovvero la loro natura
- investigarono, il lauro tra l'altre piú sue proprietá n'ha tre
- laudevoli e notevoli molto: la prima si è, come noi veggiamo, che mai
- egli non perde né verdezza, né fronda; la seconda si è, che non si
- truova questo albore mai essere stato fulminato, il che di niuno altro
- leggiamo essere avvenuto; la terza, che egli è odorifero molto, sí
- come noi sentiamo: le quali tre proprietá estimarono gli antichi
- inventori di questo onore convenirsi con le virtuose opere de' poeti e
- de' vittoriosi imperadori. E primieramente la perpetua viriditá di
- queste frondi dissono dimostrare la fama delle costoro opere, cioè di
- coloro che d'esse si coronavano o coronerebbono nel futuro, sempre
- dovere stare in vita. Appresso estimarono l'opere di questi cotali
- essere di tanta potenzia, che né il fuoco della invidia, né la folgore
- della lunghezza del tempo, la quale ogni cosa consuma, dovesse mai
- queste potere fulminare, se non come quello albero fulminava la
- celeste folgore. E oltre a questo diceano queste opere de' giá detti
- per lunghezza di tempo mai dover divenire meno piacevoli e graziose a
- chi l'udisse o le leggesse, ma sempre dovere essere accettevoli e
- odorose. Laonde meritamente si confaceva la corona di cotai frondi,
- piú ch'altra, a cotali uomini, gli cui effetti, in tanto quanto vedere
- possiamo, erano a lei conformi. Per che non senza cagione il nostro
- Dante era ardentissimo disideratore di tale onore ovvero di cotale
- testimonia di tanta vertú, quale questa è a coloro, li quali degni si
- fanno di doversene ornare le tempie. Ma tempo è di tornare lá onde,
- intrando in questo, ci dipartimmo.
- XXV
- CARATTERE DI DANTE
- Fu il nostro poeta, oltre alle cose predette, d'animo alto e
- disdegnoso molto; tanto che, cercandosi per alcun suo amico, il quale
- ad istanzia de' suoi prieghi il facea, che egli potesse ritornare in
- Fiorenza, il che egli oltre ad ogni altra cosa sommamente disiderava,
- né trovandosi a ciò alcun modo con coloro li quali il governo della
- republica allora aveano nelle mani, se non uno, il quale era questo:
- che egli per certo spazio stesse in prigione, e dopo quello in alcuna
- solennitá publica fosse misericordievolmente alla nostra principale
- ecclesia offerto, e per conseguente libero e fuori d'ogni
- condennagione per adietro fatta di lui; la qual cosa parendogli
- convenirsi e usarsi in qualunque e depressi e infami uomini, e non in
- altri: per che oltre al suo maggiore disiderio, preelesse di stare in
- esilio, anzi che per cotal via tornare in casa sua. Oh isdegno
- laudevole di magnanimo, quanto virilmente operasti, reprimendo
- l'ardente disio del ritornare per via meno che degna ad uomo nel
- grembo della filosofia nutricato!
- Molto simigliantemente presunse di sé, né gli parve meno valere,
- secondo che li suoi contemporanei rapportano, che el valesse; la qual
- cosa, tra l'altre volte, apparve una notabilmente, mentre ch'egli era
- con la sua setta nel colmo del reggimento della republica. Che,
- conciofossecosaché per coloro li quali erano depressi fosse chiamato,
- mediante Bonifazio papa ottavo, a ridirizzare lo stato della nostra
- cittá, un fratello ovvero congiunto di Filippo allora re di Francia,
- il cui nome fu Carlo; si ragunarono a uno consiglio per provedere a
- questo fatto tutti li prencipi della setta, con la quale esso tenea; e
- quivi tra l'altre cose providero, che ambasceria si dovesse mandare al
- papa, il quale allora era a Roma, per la quale s'inducesse il detto
- papa a dovere ostare alla venuta del detto Carlo, ovvero lui, con
- concordia della setta, la quale reggeva, far venire. E venuto al
- diliberare chi dovesse esser prencipe di cotale legazione, fu per
- tutti detto che Dante fosse desso. Alla quale richiesta Dante,
- alquanto sopra a sé stato, disse:--Se io vo, chi rimane? se io
- rimango, chi va?,--quasi esso solo fosse colui che tra tutti valesse,
- e per cui tutti gli altri valessero. Questa parola fu intesa e
- raccolta, ma quello che di ciò seguisse non fa al presente proposito,
- e però, passando avanti, il lascio stare.
- Oltre a queste cose, fu questo valente uomo in tutte le sue avversitá
- fortissimo: solo in una cosa non so se io mi dica fu impaziente o
- animoso, cioè in opera pertenente a parte, poi che in esilio fu,
- troppo piú che alla sua sufficienzia non appartenea, e ch'egli non
- volea che di lui per altrui si credesse. E accioché a qual parte fosse
- cosí animoso e pertinace appaia, mi pare sia da procedere alquanto piú
- oltre scrivendo.
- Io credo che giusta ira di Dio permettesse, giá è gran tempo, quasi
- tutta Toscana e Lombardia in due parti dividersi: delle quali, onde
- cotali nomi s'avessero, non so; ma l'una si chiamò e chiama «parte
- guelfa», e l'altra fu «ghibellina» chiamata. E di tanta efficacia e
- reverenzia furono negli stolti animi di molti questi due nomi, che,
- per difendere quello che alcuno avesse eletto per suo contra il
- contrario, non gli era di perdere gli suoi beni e ultimamente la vita,
- se bisogno fosse fatto, malagevole. E sotto questi titoli molte volte
- le cittá italiche sostennero di gravissime pressure e mutamenti; e
- intra l'altre la nostra cittá, quasi capo e dell'uno nome e
- dell'altro, secondo il mutamento de' cittadini; intanto che gli
- maggiori di Dante per guelfi da' ghibellini furono due volte cacciati
- di casa loro, ed egli similemente, sotto il titolo di guelfo, tenne i
- freni della republica in Firenze. Della quale cacciato, come mostrato
- è, non da' ghibellini ma da' guelfi, e veggendo sé non potere
- ritornare, in tanto mutò l'animo, che niuno piú fiero ghibellino e a'
- guelfi avversario fu come lui; e quello di che io piú mi vergogno in
- servigio della sua memoria è che publichissima cosa è in Romagna, lui
- ogni femminella, ogni piccol fanciullo ragionante di parte e dannante
- la ghibellina, l'avrebbe a tanta insania mosso, che a gittare le
- pietre l'avrebbe condotto, non avendo taciuto. E con questa animositá
- si visse infino alla morte.
- Certo, io mi vergogno dovere con alcuno difetto maculare la fama di
- cotanto uomo; ma il cominciato ordine delle cose in alcuna parte il
- richiede; percioché, se nelle cose meno che laudevoli in lui, mi
- tacerò, io torrò molta fede alle laudevoli giá mostrate. A lui
- medesimo adunque mi scuso, il quale per avventura me scrivente con
- isdegnoso occhio d'alta parte del cielo ragguarda.
- Tra cotanta virtú, tra cotanta scienzia, quanta dimostrato è di sopra
- essere stata in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la
- lussuria, e non solamente ne' giovani anni, ma ancora ne' maturi. Il
- quale vizio, comeché naturale e comune e quasi necessario sia, nel
- vero non che commendare, ma scusare non si può degnamente. Ma chi sará
- tra' mortali giusto giudice a condennarlo? Non io. Oh poca fermezza,
- oh bestiale appetito degli uomini, che cosa non possono le femmine in
- noi, s'elle vogliono, che, eziandio non volendo, posson gran cose?
- Esse hanno la vaghezza, la bellezza e il naturale appetito e altre
- cose assai continuamente per loro ne' cuori degli uomini procuranti; e
- che questo sia vero, lasciamo stare quello che Giove per Europa, o
- Ercule per Iole, o Paris per Elena facessero; che, percioché poetiche
- cose sono, molti di poco sentimento le dirien favole; ma mostrisi per
- le cose non convenevoli ad alcuno di negare. Era ancora nel mondo piú
- che una femmina quando il nostro primo padre, lasciato il comandamento
- fattogli dalla propia bocca di Dio, s'accostò alle persuasioni di lei?
- Certo no. E David, non ostante che molte n'avesse, solamente veduta
- Bersabé, per lei dimenticò Iddio, il suo regno, sé e la sua onestá, e
- adultero prima e poi omicida divenne: che si dee credere ch'egli
- avesse fatto, se ella alcuna cosa avesse comandato? E Salomone, al cui
- senno niuno, dal figliuolo di Dio in fuori, aggiunse mai, non
- abbandonò colui che savio l'aveva fatto, e per piacere a una femmina
- s'inginocchiò e adorò Baalim? Che fece Erode? che altri molti, da
- niuna altra cosa tirati che dal piacer loro? Adunque tra tanti e tali
- non iscusato, ma, accusato con assai meno curva fronte che solo, può
- passare il nostro poeta. E questo basti al presente de' suoi costumi
- piú notabili avere contato.
- XXVI
- DELLE OPERE COMPOSTE DA DANTE
- Compose questo glorioso poeta piú opere ne' suoi giorni, delle quali
- fare ordinata memoria credo che sia convenevole, accioché né alcuno
- delle sue s'intitolasse, né a lui fossero per avventura intitolate
- l'altrui. Egli primieramente, duranti ancora le lagrime della morte
- della sua Beatrice, quasi nel suo ventesimosesto anno compose in un
- volumetto, il quale egli intitolò _Vita nova_, certe operette, sí come
- sonetti e canzoni, in diversi tempi davanti in rima fatte da lui,
- maravigliosamente belle; di sopra da ciascuna partitamente e
- ordinatamente scrivendo le cagioni che a quelle fare l'avean mosso, e
- di dietro ponendo le divisioni delle precedenti opere. E comeché egli
- d'avere questo libretto fatto, negli anni piú maturi si vergognasse
- molto, nondimeno, considerata la sua etá, è egli assai bello e
- piacevole, e massimamente a' volgari.
- Appresso questa compilazione piú anni, raguardando egli della sommitá
- del governo della republica, sopra la quale stava, e veggendo in
- grandissima parte, cosí come di sí fatti luoghi si vede, qual fosse la
- vita degli uomini, e quali fossero gli errori del vulgo, e come
- fossero pochi i disvianti da quello e di quanto onore degni fossero, e
- quegli, che a quello s'accostassero, di quanta confusione; dannando
- gli studi di questi cotali e molto piú li suoi commendando, gli venne
- nell'animo un alto pensiero, per lo quale a un'ora, cioè in una
- medesima opera, propose, mostrando la sua sofficienzia, di mordere con
- gravissime pene i viziosi, e con altissimi premi li valorosi onorare,
- e a sé perpetua gloria apparecchiare. E, percioché, come giá è
- mostrato, egli aveva a ogni studio preposta la poesia, poetica opera
- estimò di comporre. E, avendo molto davanti premeditato quello che
- fare dovesse, nel suo trentacinquesimo anno si cominciò a dare al
- mandare ad effetto ciò che davanti premeditato avea, cioè a volere
- secondo i meriti e mordere e premiare, secondo la sua diversitá, la
- vita degli uomini. La quale, percioché conobbe essere di tre maniere,
- cioè viziosa, o da' vizi partentesi e andante alla vertú, o virtuosa;
- quella in tre libri, dal mordere la viziosa cominciando e finendo nel
- premiare la virtuosa, mirabilmente distinse in un volume, il quale
- tutto intitolò _Comedia_. De' quali tre libri egli ciascuno distinse
- per canti e i canti per rittimi, sí come chiaro si vede; e quello in
- rima volgare compose con tanta arte, con sí mirabile ordine e con sí
- bello, che niuno fu ancora che giustamente quello potesse in alcuno
- atto riprendere. Quanto sottilmente egli in esso poetasse pertutto,
- coloro, alli quali è tanto ingegno prestato che 'ntendano, il possono
- vedere. Ma, sí come noi veggiamo le gran cose non potersi in brieve
- tempo comprendere, e per questo conoscer dobbiamo cosí alta, cosí
- grande, cosí escogitata impresa, come fu tutti gli atti degli uomini e
- i loro meriti poeticamente volere sotto versi volgari e rimati
- racchiudere, non essere stato possibile in picciolo spazio avere al
- suo fine recata: e massimamente da uomo, il quale da molti e vari casi
- della fortuna, pieni tutti d'angoscia e d'amaritudine venenati, sia
- stato agitato (come di sopra mostrato è che fu Dante): per che
- dall'ora che di sopra è detta che egli a cosí alto lavorio si diede
- infino allo stremo della sua vita, comeché altre opere, come apparirá,
- non ostante questa, componesse in questo mezzo, gli fu fatica
- continua. Né fia di soperchio in parte toccare d'alcuni accidenti
- intorno al principio e alla fine di quella avvenuti.
- Dico che, mentre che egli era piú attento al glorioso lavoro, e giá
- della prima parte di quello, la quale intitola _Inferno_, aveva
- composti sette canti, mirabilmente fingendo, e non mica come gentile,
- ma come cristianissimo poetando, cosa sotto questo titolo mai avanti
- non fatta; sopravvenne il gravoso accidente della sua cacciata, o fuga
- che chiamar si convegna, per lo quale egli e quella e ogni altra cosa
- abbandonata, incerto di se medesimo, piú anni con diversi amici e
- signori andò vagando. Ma, come noi dovemo certissimamente credere a
- quello che Iddio dispone niuna cosa contraria la fortuna potere
- operare, per la quale, e se forse vi può porre indugio, istôrla possa
- dal debito fine; avvenne che alcuno per alcuna sua scrittura forse a
- lui opportuna, cercando fra cose di Dante in certi forzieri state
- fuggite subitamente in luoghi sacri, nel tempo che tumultuosamente la
- ingrata e disordinata plebe gli era, piú vaga di preda che di giusta
- vendetta, corsa alla casa, trovò li detti sette canti stati da Dante
- composti, gli quali con ammirazione, non sappiendo che si fossero,
- lesse, e, piacendogli sommamente, e con ingegno sottrattigli del luogo
- dove erano, gli portò ad un nostro cittadino, il cui nome fu Dino di
- messer Lambertuccio, in quegli tempi famosissimo dicitore per rima in
- Firenze, e mostrogliele. Li quali veggendo Dino, uomo d'alto
- intelletto, non meno che colui che portati gliele avea, si maravigliò
- sí per lo bello e pulito e ornato stile del dire, sí per la profonditá
- del senso, il quale sotto la bella corteccia delle parole gli pareva
- sentire nascoso: per le quali cose agevolmente insieme col portatore
- di quegli, e sí ancora per lo luogo onde tratti gli avea, estimò
- quegli essere, come erano, opera stata di Dante. E, dolendosi quella
- essere imperfetta rimasa, comeché essi non potessero seco presumere a
- qual fine fosse il termine suo, fra loro diliberarono di sentire dove
- Dante fosse, e quello, che trovato avevan, mandargli, accioché, se
- possibile fosse, a tanto principio desse lo 'mmaginato fine. E,
- sentendo dopo alcuna investigazione lui essere appresso il marchese
- Morruello, non a lui, ma al marchese scrissono il loro disiderio, e
- mandarono li sette canti; gli quali poi che il marchese, uomo assai
- intendente, ebbe veduti e molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante,
- domandandolo se esso sapea cui opera stati fossero; li quali Dante
- riconosciuti subito, rispose che sua. Allora il pregò il marchese
- che gli piacesse di non lasciare senza debito fine sí alto
- principio.--Certo--disse Dante,--io mi credea nella ruina delle mie
- cose questi con molti altri miei libri avere perduti, e perciò, sí per
- questa credenza e sí per la moltitudine dell'altre fatiche per lo mio
- esilio sopravvenute, del tutto avea l'alta fantasia, sopra quest'opera
- presa, abbandonata; ma, poiché la fortuna inopinatamente me gli ha
- ripinti dinanzi, e a voi aggrada, io cercherò di ritornarmi a memoria
- il primo proposito, e procederò secondo che data mi fia la grazia.--E
- reassunta, non sanza fatica, dopo alquanto tempo la fantasia lasciata,
- seguí: «Io dico, seguitando, ch'assai prima» ecc.; dove assai
- manifestamente, chi ben riguarda, può la ricongiunzione dell'opera
- intermessa conoscere.
- Ricominciata adunque da Dante la magnifica opera, non forse, secondo
- che molti estimerebbono, senza piú interromperla la perdusse alla
- fine, anzi piú volte, secondo che la gravitá de' casi sopravvegnenti
- richiedea, quando mesi e quando anni, senza potervi operare alcuna
- cosa, mise in mezzo; né tanto si poté avacciare, che prima nol
- sopraggiugnesse la morte, ch'egli tutta publicare la potesse. Egli era
- suo costume, qualora sei o otto o piú o meno canti fatti n'avea,
- quegli, prima che alcun altro gli vedesse, donde che egli fosse,
- mandare a messer Cane della Scala, il quale egli oltre a ogni altro
- uomo avea in reverenza; e, poi che da lui eran veduti, ne facea copia
- a chi la ne volea. E in cosí fatta maniera avendogliele tutti, fuori
- che gli ultimi tredici canti, mandati, e quegli avendo fatti, né
- ancora mandatigli; avvenne ch'egli, senza avere alcuna memoria di
- lasciargli, si mori. E, cercato da que' che rimasero, e figliuoli e
- discepoli, piú volte e in piú mesi, fra ogni sua scrittura, se alla
- sua opera avesse fatta alcuna fine, né trovandosi per alcun modo li
- canti residui, essendone generalmente ogni suo amico cruccioso, che
- Iddio non l'aveva almeno tanto prestato al mondo ch'egli il picciolo
- rimanente della sua opera avesse potuto compiere, dal piú cercare, non
- trovandogli, s'erano, disperati, rimasi.
- Eransi Iacopo e Piero, figliuoli di Dante, de' quali ciascuno era
- dicitore in rima, per persuasioni d'alcuni loro amici, messi a volere,
- in quanto per loro si potesse, supplire la paterna opera, accioché
- imperfetta non procedesse; quando a Iacopo, il quale in ciò era molto
- piú che l'altro fervente, apparve una mirabile visione, la quale non
- solamente dalla stolta presunzione il tolse, ma gli mostrò dove
- fossero li tredici canti, li quali alla divina _Comedia_ mancavano, e
- da loro non saputi trovare.
- Raccontava uno valente uomo ravignano, il cui nome fu Piero Giardino,
- lungamente discepolo stato di Dante, che, dopo l'ottavo mese della
- morte del suo maestro, era una notte, vicino all'ora che noi chiamiamo
- «matutino», venuto a casa sua il predetto Iacopo, e dettogli sé quella
- notte, poco avanti a quell'ora, avere nel sonno veduto Dante suo
- padre, vestito di candidissimi vestimenti e d'una luce non usata
- risplendente nel viso, venire a lui; il quale gli parea domandare
- s'egli vivea, e udire da lui per risposta di sí, ma della vera vita,
- non della nostra; per che, oltre a questo, gli pareva ancora
- domandare, s'egli avea compiuta la sua opera anzi il suo passare alla
- vera vita, e, se compiuta l'avea, dove fosse quello che vi mancava, da
- loro giammai non potuto trovare. A questo gli parea la seconda volta
- udire per risposta:--Sí, io la compie'--; e quinci gli parea che 'l
- prendesse per mano e menasselo in quella camera dove era uso di
- dormire quando in questa vita vivea; e, toccando una parte di quella,
- dicea:--Egli è qui quello che voi tanto avete cercato.--E questa
- parola detta, ad una ora il sonno e Dante gli parve che si partissono.
- Per la qual cosa affermava, sé non esser potuto stare senza venirgli a
- significare ciò che veduto avea, accioché insieme andassero a cercare
- nel luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente nella memoria
- aveva segnato, a vedere se vero spirito o falsa delusione questo gli
- avesse disegnato. Per la quale cosa, restando ancora gran pezzo di
- notte, mossisi insieme, vennero al mostrato luogo, e quivi trovarono
- una stuoia al muro confitta, la quale leggermente levatane, videro nel
- muro una finestretta da niuno di loro mai piú veduta, né saputo
- ch'ella vi fosse, e in quella trovarono alquante scritte, tutte per
- l'umiditá del muro muffate e vicine al corrompersi, se guari piú state
- vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, leggendole,
- videro contenere li tredici canti tanto da loro cercati. Per la qual
- cosa lietissimi, quegli riscritti, secondo l'usanza dell'autore prima
- gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta opera ricongiunsono
- come si convenia. In cotale maniera l'opera, in molti anni compilata,
- si vide finita.
- Muovono molti, e intra essi alcuni savi uomini generalmente una
- quistione cosí fatta: che conciofossecosa Dante fosse in iscienzia
- solennissimo uomo, perché a comporre cosí grande, di sí alta materia e
- sí notabile libro, come è questa sua _Comedia_, nel fiorentino idioma
- si disponesse; perché non piú tosto in versi latini, come gli altri
- poeti precedenti hanno fatto. A cosí fatta domanda rispondere, tra
- molte ragioni, due a l'altre principali me ne occorrono. Delle quali
- la prima è per fare utilitá piú comune a' suoi cittadini e agli altri
- italiani: conoscendo che, se metricamente in latino, come gli altri
- poeti passati, avesse scritto, solamente a' letterati avrebbe fatto
- utile; scrivendo in volgare fece opera mai piú non fatta, e non tolse
- il non potere esser inteso da' letterati, e mostrando la bellezza del
- nostro idioma e la sua eccellente arte in quello, e diletto e
- intendimento di sé diede agl'idioti, abbandonati per adrieto da
- ciascheduno. La seconda ragione, che a questo il mosse, fu questa.
- Vedendo egli li liberali studi del tutto abbandonati, e massimamente
- da' prencipi e dagli altri grandi uomini, a' quali si soleano le
- poetiche fatiche intitolare, e per questo e le divine opere di
- Virgilio e degli altri solenni poeti non solamente essere in poco
- pregio divenute, ma quasi da' piú disprezzate; avendo egli
- incominciato, secondo che l'altezza della materia richiedea, in questa
- guisa:
- _Ultima regna canam, fluido contermina mundo,
- spiritibus quae lata paient, quæ premia solvunt
- pro meritis cuicumque suis,_ ecc.
- il lasciò stare; e, immaginando invano le croste del pane porsi alla
- bocca di coloro che ancora il latte suggano, in istile atto a' moderni
- sensi ricominciò la sua opera e perseguilla in volgare.
- Questo libro della _Comedia_, secondo il ragionare d'alcuno, intitolò
- egli a tre solennissimi uomini italiani, secondo la sua triplice
- divisione, a ciascuno la sua, in questa guisa: la prima parte, cioè lo
- _'Nferno_, intitolò a Uguiccione della Faggiuola, il quale allora in
- Toscana signore di Pisa era mirabilmente glorioso; la seconda parte,
- cioè il _Purgatoro_, intitolò al marchese Moruello Malespina; la terza
- parte, cioè il _Paradiso_, a Federigo terzo re di Cicilia. Alcuni
- vogliono dire lui averlo intitolato tutto a messer Cane della Scala;
- ma, quale si sia di queste due la veritá, niuna cosa altra n'abbiamo
- che solamente il volontario ragionare di diversi; né egli è sí gran
- fatto che solenne investigazione ne bisogni.
- Similemente questo egregio autore nella venuta d'Arrigo settimo
- imperadore fece un libro in latina prosa, il cui titolo è _Monarchia_,
- il quale, secondo tre quistioni le quali in esso ditermina, in tre
- libri divise. Nel primo, loicalmente disputando, pruova che a ben
- essere del mondo sia di necessitá essere imperio; la quale è la prima
- quistione. Nel secondo, per argomenti istoriografi procedendo, mostra
- Roma di ragione ottenere il titolo dello imperio; ch'è la seconda
- quistione. Nel terzo, per argomenti teologi pruova l'autoritá dello
- 'mperio immediatamente procedere da Dio, e non mediante alcuno suo
- vicario, come li cherici pare che vogliano; ch'è la terza quistione.
- Questo libro piú anni dopo la morte dell'autore fu dannato da messer
- Beltrando cardinale del Poggetto e legato di papa nelle parti di
- Lombardia, sedente Giovanni papa ventesimosecondo. E la cagione fu
- però che Lodovico duca di Baviera, dagli elettori della Magna eletto
- in re de' romani, e venendo per la sua coronazione a Roma, contra il
- piacere del detto Giovanni papa essendo in Roma, fece contra gli
- ordinamenti ecclesiastici un frate minore, chiamato frate Pietro della
- Corvara, papa, e molti cardinali e vescovi; e quivi a questo papa si
- fece coronare. E, nata poi in molti casi della sua autoritá quistione,
- egli e' suoi seguaci, trovato questo libro, a difensione di quella e
- di sé molti degli argomenti in esso posti cominciarono a usare; per la
- qual cosa il libro, il quale infino allora appena era saputo, divenne
- molto famoso. Ma poi, tornatosi il detto Lodovico nella Magna, e li
- suoi seguaci, e massimamente i cherici, venuti al dichino e dispersi;
- il detto cardinale, non essendo chi a ciò s'opponesse, avuto il
- soprascritto libro, quello in publico, sí come cose eretiche
- contenente, dannò al fuoco. E il simigliante si sforzava di fare
- dell'ossa dell'autore a eterna infamia e confusione della sua memoria,
- se a ciò non si fosse opposto un valoroso e nobile cavaliere
- fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa, il quale allora a Bologna,
- dove ciò si trattava, si trovò, e con lui messer Ostagio da Polenta,
- potente ciascuno assai nel cospetto del cardinale di sopra detto.
- Oltre a questi compose il detto Dante due egloghe assai belle, le
- quali furono intitolate e mandate da lui, per risposta di certi versi
- mandatigli, a maestro Giovanni del Virgilio, del quale di sopra altra
- volta è fatta menzione.
- Compuose ancora un comento in prosa in fiorentino volgare sopra tre
- delle sue canzoni distese, comeché egli appaia lui avere avuto
- intendimento, quando il cominciò, di commentarle tutte, benché poi, o
- per mutamento di proposito o per mancamento di tempo che avvenisse,
- piú commentate non se ne truovano da lui; e questo intitolò
- _Convivio_, assai bella e laudevole operetta.
- Appresso, giá vicino alla sua morte, compuose uno libretto in prosa
- latina, il quale egli intitolò _De vulgari eloquentia_, dove intendea
- di dare dottrina, a chi imprendere la volesse, del dire in rima; e
- comeché per lo detto libretto apparisca lui avere in animo di dovere
- in ciò comporre quattro libri, o che piú non ne facesse dalla morte
- soprapreso, o che perduti sieno gli altri, piú non appariscono che due
- solamente.
- Fece ancora questo valoroso poeta molte pistole prosaiche in latino,
- delle quali ancora appariscono assai. Compuose molte canzoni distese,
- sonetti e ballate assai e d'amore e morali, oltre a quelle che nella
- sua _Vita Nova_ appariscono; delle quali cose non curo di fare spezial
- menzione al presente.
- In cosí fatte cose, quali di sopra sono dimostrate, consumò il
- chiarissimo uomo quella parte del suo tempo, la quale egli agli
- amorosi sospiri, alle pietose lacrime, alle sollecitudini private e
- publiche e a' vari fluttuamenti della iniqua fortuna poté imbolare:
- opere troppo piú a Dio e agli uomini accettevoli che gl'inganni, le
- fraudi, le menzogne, le rapine e' tradimenti, li quali la maggior
- parte degli uomini usano oggi, cercando per diverse vie un medesimo
- termine, cioè il divenire ricco, quasi in quelle ogni bene, ogni
- onore, ogni beatitudine stea. Oh menti sciocche, una brieve particella
- di una ora, separará dal caduco corpo lo spirito, e tutte queste
- vituperevoli fatiche annullerá, e il tempo, nel quale ogni cosa suol
- consumarsi, o annullerá prestamente la memoria del ricco, o quella per
- alcuno spazio con gran vergogna di lui serverá! Che del nostro poeta
- certo non avverrá, anzi, sí come noi veggiamo degli strumenti bellici
- addivenire, che per l'usargli diventan piú chiari, cosí avverrá del
- suo nome: egli, per essere stropicciato dal tempo, sempre diventerá
- piú lucente. E perciò fatichi chi vuole nelle sue vanitá, e bastigli
- l'esser lasciato fare, senza volere, con riprensione da se medesimo
- non intesa, l'altrui virtuoso operare andar mordendo.
- XXVII
- RICAPITOLAZIONE
- Mostrato è sommariamente qual fosse l'origine, gli studi e la vita e'
- costumi, e quali sieno l'opere state dello splendido uomo Dante
- Alighieri, poeta chiarissimo, e con esse alcuna altra cosa, facendo
- transgressione, secondo che conceduto m'ha Colui che d'ogni grazia è
- donatore. Ben so, per molti altri molto meglio e piú discretamente si
- saria potuto mostrare; ma chi fa quel che sa, piú non gli è richiesto.
- Il mio avere scritto come io ho saputo, non toglie il poter dire a un
- altro, che meglio ciò creda di scrivere che io non ho fatto; anzi
- forse, se io in parte alcuna ho errato, darò materia altrui di
- scrivere, per dire il vero, del nostro Dante, ove infino a qui niuno
- truovo averlo fatto. Ma la mia fatica non è ancora alla sua fine. Una
- particella, nel processo promessa di questa operetta, mi resta a
- dichiarare, cioè il sogno della madre del nostro poeta, quando in lui
- era gravida, veduto da lei; del quale io, quanto piú brievemente saprò
- e potrò, intendo di dilivrarmi, e porre fine al ragionare.
- XXVIII
- ANCORA IL SOGNO DELLA MADRE DI DANTE
- Vide la gentil donna nella sua gravidezza sé a piè d'uno altissimo
- alloro, allato a una chiara fontana partorire un figliuolo, il quale
- di sopra altra volta narrai, in brieve tempo, pascendosi delle bache
- di quello alloro cadenti e dell'onde della fontana, divenire un gran
- pastore e vago molto delle frondi di quello alloro sotto il quale era;
- alle quali avere mentre ch'egli si sforzava, le parea ch'egli cadesse;
- e subitamente non lui, ma di lui un bellissimo paone le parea vedere.
- Dalla qual maraviglia la gentil donna commossa, ruppe, senza vedere di
- lui piú avanti, il dolce sonno.
- XXIX
- SPIEGAZIONE DEL SOGNO
- La divina bontá, la quale _ab aeterno_, sí come presente ogni cosa
- futura previde, suole, da sua propra benignitá mossa, qualora la
- natura, sua generale ministra, è per producere alcuno inusitato
- effetto infra' mortali, di quello con alcuna dimostrazione o in segno
- o in sogno o in altra maniera farci avveduti, accioché dalla
- predimostrazione argomento prendiamo ogni conoscenza consistere nel
- Signore della natura producente ogni cosa; la quale predimostrazione,
- se ben si riguarda, ne fece nella venuta del poeta, del quale tanto di
- sopra è parlato, nel mondo. E a quale persona la poteva egli fare che
- con tanta affezione e veduta e servata l'avesse, quanto colei che
- della cosa mostrata doveva essere madre, anzi giá era? Certo a niuna.
- Mostrollo dunque a lei, e quello ch'egli a lei mostrasse ci è giá
- manifesto per la scrittura di sopra; ma quello ch'egli intendesse con
- piú aguto occhio è da vedere. Parve adunque alla donna partorire un
- figliuolo, e certo cosí fece ella infra picciolo termine dalla veduta
- visione. Ma che vuole significare l'alto alloro sotto il quale il
- partorisce, è da vedere.
- Opinione è degli astrologi e di molti naturali filosofi, per la vertú
- e influenzia de' corpi superiori gl'inferiori e producersi e
- nutricarsi, e, se potentissima ragione da divina grazia illuminata non
- resiste, guidarsi. Per la qual cosa, veduto quale corpo superiore sia
- piú possente nel grado che sopra l'orizzonte sale in quella ora che
- alcun nasce, secondo quello cotal corpo piú possente, anzi secondo le
- sue qualitá, dicono del tutto il nato disporsi. Per che per lo alloro,
- sotto il quale alla donna pareva il nostro Dante dare al mondo, mi
- pare che sia da intendere la disposizione del cielo la quale fu nella
- sua nativitá, mostrante sé essere tale che magnanimitá e eloquenzia
- poetica dimostrava; le quali due cose significa l'alloro, álbore di
- Febo, e delle cui fronde li poeti sono usi di coronarsi, come di sopra
- è giá mostrato assai.
- Le bache, delle quali nutrimento prendeva il fanciullo nato, gli
- effetti da cosí fatta disposizione di cielo, quale è mostrata, giá
- proceduti, intendo; li quali sono i libri poetici e le loro dottrine,
- da' quali libri e dottrine fu altissimamente nutricato, cioè
- ammaestrato il nostro Dante.
- Il fonte chiarissimo, della cui acqua le parea che questi bevesse,
- niuna altra cosa giudico che sia da intendere se non l'ubertá della
- filosofica dottrina morale e naturale; la quale sí come dalla ubertá
- nascosa nel ventre della terra procede, cosí e queste dottrine dalle
- copiose ragioni dimostrative, che terrena ubertá si possono dire,
- prendono essenza e cagione: senza le quali, cosí come il cibo non può
- bene disporsi, senza bere, negli stomaci di chi 'l prende, non si può
- alcuna scienzia bene negl'intelletti adattare di nessuno, se dalli
- filosofici dimostramenti non v'è ordinata e disposta. Per che
- ottimamente possiamo dire, lui con le chiare onde, cioè con la
- filosofia, disporre nel suo stomaco, cioè nel suo intelletto, le bache
- delle quali si pasce, cioè la poesia, la quale, come giá è detto, con
- tutta la sua sollecitudine studiava.
- Il divenire subitamente pastore ne mostra la eccellenzia del suo
- ingegno, in quanto subitamente; il quale fu tanto e tale, che in
- brieve spazio di tempo comprese per istudio quello che opportuno era a
- divenire pastore, cioè datore di pastura agli altri ingegni di ciò
- bisognosi. E sí come assai leggermente ciascuno può comprendere, due
- maniere sono di pastori: l'una sono pastori corporali, l'altra
- spirituali. Li corporali pastori sono di due maniere, delle quali la
- prima è quella di coloro che volgarmente da tutti sono appellati
- «pastori», cioè i guardatori delle pecore o de' buoi o di qualunque
- altro animale; la seconda maniera sono i padri delle famiglie, dalla
- sollecitudine de' quali convegnono essere e pasciuti e guardati e
- governati la gregge de' figliuoli e de' servidori e degli altri
- suggetti di quegli. Li spirituali pastori similmente si possono dire
- di due maniere, delle quali l'una è quella di coloro li quali
- pascolano l'anime de' viventi della parola di Dio; e questi sono i
- prelati, li predicatori e' sacerdoti, nella cui custodia sono commesse
- l'anime labili di qualunque sotto il governo a ciascuno ordinato
- dimora: l'altra è quella di coloro li quali, d'ottima dottrina, o
- leggendo quello che gli passati hanno scritto, o scrivendo di nuovo
- ciò che loro pare o non tanto chiaro mostrato o omesso, informano e
- l'anime e gl'intelletti degli ascoltanti o de' leggenti, li quali
- generalmente dottori, in qual che facultá si sia, sono appellati. Di
- questa maniera di pastori subitamente, cioè in poco tempo, divenne il
- nostro poeta. E che ciò sia vero, lasciando stare l'altre opere
- compilate da lui, riguardisi la sua _Comedia_, la quale con la
- dolcezza e bellezza del testo pasce non solamente gli uomini, ma i
- fanciulli e le femine; e con mirabile soavitá de' profondissimi sensi
- sotto quella nascosi, poi che alquanto gli ha tenuti sospesi, ricrea e
- pasce gli solenni intelletti.
- Lo sforzarsi ad avere di quelle frondi, il frutto delle quali l'ha
- nutricato, niun'altra cosa ne mostra che l'ardente disiderio avuto da
- lui, come di sopra si dice, della corona laurea; la quale per nulla
- altro si disidera, se non per dare testimonianza del frutto. Le quali
- frondi mentre ch'egli piú ardentemente disiderava, lui dice che vide
- cadere; il quale cadere niuna altra cosa fu se non quello cadimento
- che tutti facciamo senza levarci, cioè il morire; il quale, se bene si
- ricorda di ciò che di sopra è detto, gli avvenne quando piú la sua
- laureazione disiava.
- Seguentemente dice che di pastore subitamente il vide divenuto un
- paone; per lo qual mutamento assai bene la sua posteritá comprendere
- possiamo, la quale, come che nell'altre sue opere stea, sommamente
- vive nella sua _Comedia_, la quale, secondo il mio giudicio,
- ottimamente è conforme al paone, se le propietá de l'uno e de l'altra
- si guarderanno. Il paone tra l'altre sue propietá, per quello che
- appaia, n'ha quattro notabili. La prima si è ch'egli si ha penna
- angelica, e in quella ha cento occhi; la seconda si è ch'egli ha sozzi
- piedi e tacita andatura; la terza si è ch'egli ha voce molto orribile
- a udire; la quarta e ultima si è che la sua carne è odorifera e
- incorruttibile. Queste quattro cose pienamente ha in sé la _Comedia_
- del nostra poeta; ma, percioché acconciamente l'ordine posto di quelle
- non si può seguire, come verranno piú in concio or l'una ora l'altra
- le verrò adattando, e comincerommi da l'ultima.
- Dico che il senso della nostra _Comedia_ è simigliante alla carne del
- paone, percioché esso, o morale o teologo che tu il déi a quale parte
- piú del libro ti piace, è semplice e immutabile veritá, la quale non
- solamente corruzione non può ricevere, ma quanto piú si ricerca,
- maggiore odore della sua incorruttibile soavitá porge a' riguardanti.
- E di ciò leggermente molti esempli si mostrerebbero, se la presente
- materia il sostenesse; e però, senza porne alcuno, lascio il cercarne
- agl'intendenti.
- Angelica penna dissi che copría questa carne; e dico «angelica», non
- perché io sappia se cosí fatte o altramenti gli angeli n'abbiano
- alcuna, ma, congetturando a guisa de' mortali, udendo che gli angeli
- volino, avviso loro dovere avere penne; e, non sappiendone alcuna fra
- questi nostri uccelli piú bella, né piú peregrina, né cosí come quella
- del paone, imagino loro cosí doverle avere fatte; e però non quelle da
- queste, ma queste da quelle dinomino, perché piú nobile uccello è
- l'angelo che 'l paone. Per le quali penne, onde questo corpo si
- cuopre, intendo la bellezza della peregrina istoria, che nella
- superficie della lettera della _Comedia_ suona: sí come l'essere
- disceso in inferno e veduto l'abito del luogo e le varie condizioni
- degli abitanti; essere ito su per la montagna del purgatorio, udite le
- lagrime e i lamenti di coloro che sperano d'essere santi; e quindi
- salito in paradiso e la ineffabile gloria de' beati veduta: istoria
- tanto bella e tanto peregrina, quanto mai da alcuno piú non fu pensata
- non che udita, distinta in cento canti, sí come alcuni vogliono il
- paone avere nella coda cento occhi. Li quali canti cosí
- provvedutamente distinguono le varietá del trattato opportune, come
- gli occhi distinguono i colori o la diversitá delle cose obiette.
- Dunque bene è d'angelica penna coperta la carne del nostro paone.
- Sono similmente a questo paone li piè sozzi e l'andatura queta: le
- quali cose ottimamente alla _Comedia_ del nostro autore si confanno,
- percioché, sí come sopra i piedi pare che tutto il corpo si sostenga,
- cosí _prima facie_ pare che sopra il modo del parlare ogni opera in
- iscrittura composta si sostenga: e il parlare volgare, nel quale e
- sopra il quale ogni giuntura della _Comedia_ si sostiene, a rispetto
- dell'alto e maestrevole stilo letterale che usa ciascun altro poeta, è
- sozzo, comeché egli sia piú che gli altri belli agli odierni ingegni
- conforme. L'andar queto significa l'umiltá dello stilo, il quale nelle
- commedie di necessitá si richiede, come color sanno che intendono che
- vuole dire «comedia».
- Ultimamente dico che la voce del paone è orribile; la quale, come che
- la soavitá delle parole del nostro poeta sia molta quanto alla prima
- apparenza, sanza niuno fallo a chi bene le medolle dentro ragguarderá,
- ottimamente a lui si confá. Chi piú orribilmente grida di lui, quando
- con invezione acerbissima morde le colpe di molti viventi, e quelle
- de' preteriti gastiga? Qual voce è piú orrida che quella del
- gastigante a colui ch'è disposto a peccare? Certo niuna. Egli a un'ora
- colle sue dimostrazioni spaventa i buoni e contrista i malvagi; per la
- qual cosa quanto in questo adopera, tanto veramente orrida voce si può
- dire avere. Per la qual cosa, e per l'altre di sopra toccate, assai
- appare, colui, che fu vivendo pastore, dopo la morte essere divenuto
- paone, sí come credere si puote essere stato per divina spirazione nel
- sonno mostrato alla cara madre.
- Questa esposizione del sogno della madre del nostro poeta conosco
- essere assai superficialmente per me fatta; e questo per piú cagioni.
- Primierarmente, perché forse la sufficienzia, che a tanta cosa si
- richiederebbe, non c'era; appresso, posto che stata ci fosse, la
- principale intenzione nol patía; ultimamente, quando e la sufficienzia
- ci fosse stata e la materia l'avesse patito, era ben fatto da me non
- essere piú detto che detto sia, accioché ad altrui piú di me
- sofficiente e piú vago alcuno luogo si lasciasse di dire. E perciò
- quello, che per me detto n'è, quanto a me dee convenevolmente bastare,
- e quel, che manca, rimanga nella sollecitudine di chi segue.
- XXX
- CONCLUSIONE
- La mia piccioletta barca è pervenuta al porto, al quale ella dirizzò
- la proda partendosi dallo opposito lito: e comeché il peleggio sia
- stato picciolo, e il mare, il quale ella ha solcato, basso e
- tranquillo, nondimeno, di ciò che senza impedimento è venuta, ne sono
- da rendere grazie a Colui che felice vento ha prestato alle sue vele.
- Al quale con quella umiltá, con quella divozione, con quella affezione
- che io posso maggiore, non quelle, né cosí grandi come si converrieno,
- ma quelle che io posso, rendo, benedicendo in eterno il suo nome e 'l
- suo valore.
- II
- REDAZIONI COMPENDIOSE DELLA VITA DI DANTE
- (PRIMO E SECONDO COMPENDIO)
- AVVERTENZA
- Nel testo si è dato il secondo compendio: le varianti del primo sono
- riferite a piè di pagina.
- I
- PROPOSIZIONE
- Solone, il cui petto un umano tempio di divina sapienza fu reputato, e
- le cui sacratissime leggi sono ancora testimonianza dell'antica
- giustizia e della sua gravitá, era, secondo che dicono alcuni, usato
- talvolta di dire ogni republica, sí come noi, andare e stare sopra due
- piedi; de' quali con maturitá affermava essere il destro il non
- lasciare alcun difetto commesso impunito, e il sinistro ogni ben fatto
- remunerare; aggiugnendo che, qualunque delle due cose mancava, senza
- dubbio da quel piè la republica zoppicare.
- Dalla quale laudevole sentenza mossi alcuni cosí egregi come antichi
- popoli, alcuna volta di deitá, altra di marmorea statua, e sovente di
- celebre sepoltura, di triunfale arco, di laurea corona o d'altra
- spettabile cosa, secondo i meriti, onoravano i valorosi; per opposito
- agrissime pene a' colpevoli infligendo. Per li quali meriti l'assiria,
- la macedonica e ultimamente la romana republica aumentate, con l'opere
- li fini della terra, e con la fama toccaron le stelle. Le vestigie de'
- quali non solamente da' successor presenti, e massimamente da' miei
- fiorentini, sono mal seguite, ma in tanto s'è disviato da esse, che
- ogni premio di virtú possiede l'ambizione. Il che, se ogni altra cosa
- occultasse, non lascerá nascondere l'esilio ingiustamente dato al
- chiarissimo uomo Dante Alighieri, uomo di sangue nobile, ragguardevole
- per scienza e per operazioni laudevole e degno di glorioso onore.
- Intorno alla quale opera pessimamente fatta non è la presente mia
- intenzione di volere insistere con debite riprensioni, ma piú tosto in
- quella parte, che le mie piccole forze possono, quella emendare;
- percioché, quantunque picciol sia, pur di quella [cittá] son
- cittadino, e agli onor d'essa mi conosco in solido obbligato.
- Quello adunque che la nostra cittá dovria verso il suo valoroso
- cittadino magnificamente operare, accioché in tutto non sia detto noi
- esorbitare dagli antichi, intendo di fare io, non con istatua o con
- egregia sepoltura, delle quali è oggi dell'una appo noi spenta
- l'usanza, né all'altra basterieno le mie facultadi, ma con povere
- lettere a tanta impresa, volendo piú tosto di presunzione che
- d'ingratitudine potere esser ripreso. Scriverò adunque in istilo assai
- umile e leggiero, peroché piú sublime nol mi presta lo 'ngegno, e nel
- nostro fiorentino idioma, accioché da quello che Dante medesimo usò
- nella maggior parte delle sue opere non discordi, quelle cose, le
- quali esso di sé onestamente tacette, cioè la nobiltá della sua
- origine, la vita, gli studi e i costumi; raccogliendo appresso in uno
- l'opere da lui fatte, nelle quali esso sé chiaro ha renduto a' futuri.
- Il che accioché compiutamente si possa fare, umilmente priego Colui,
- il quale di spezial grazia lui trasse, come leggiamo, per sí alta
- scala a contemplarsi, che me al presente aiuti, e, in onore e gloria
- del suo santissimo nome, e la debole mano guidi, e regga lo 'ngegno
- mio.
- II
- PATRIA E MAGGIORI DI DANTE
- Fiorenza, intra l'altre cittá italiane piú nobile, secondo la generale
- opinione de' presenti, ebbe inizio da' romani; e in processo di tempo
- aumentata di popoli e di chiari uomini e giá potente parendo, o
- contrario cielo, o i lor meriti, che in sé l'ira di Dio provocassero,
- non dopo molti secoli da Attila, crudelissimo re de' vandali e general
- guastatore quasi di tutta Italia, molti de' cittadini uccisi, quella
- ridusse in cenere e in ruine. Poi, trapassato giá il trecentesimo
- anno, e Carlomagno, clementissimo re de' franceschi, essendo
- all'altezza del romano imperio elevato, avvenne che, o per propio
- movimento, forse da Dio a ciò spirato, o per prieghi pòrtigli da
- alcuni, che il detto Carlo alla reedificazione della detta cittá
- l'animo dirizzò, e a coloro medesimi, li quali primi conditori n'erano
- stati, la fatica commise. Li quali in piccol cerchio riducendola,
- quanto poterono, sí come ancora appare, a Roma la fêr simigliante,
- seco raccogliendovi dentro quelle poche reliquie che de' discendenti
- degli antichi scacciati si potêr ritrovare.
- Vennevi, secondo che testimonia la fama, tra' novelli reedificatori un
- giovane, per origine de' Frangiapani, nominato Eliseo; il quale, che
- che cagion sel movesse, di quella divenne perpetuo cittadino; del
- quale rimasi laudevoli discendenti ed onorati molto, non l'antico
- cognome ritennero, ma, da colui, che quivi loro aveva dato principio,
- prendendolo, si chiamâr gli Elisei. De' quali, di tempo in tempo e
- d'uno in altro discendendo, tra gli altri nacque e visse un cavaliere
- per arme e per senno ragguardevole, il cui nome fu Cacciaguida; il
- quale per isposa ebbe una donzella nata degli Aldighieri di Ferrara,
- della quale forse piú figliuoli ricevette. Ma, come che gli altri
- nominati si fossero, in uno, sí come le donne sogliono esser vaghe di
- fare, le piacque di rinnovare il nome de' suoi maggiori, e nominollo
- Aldighieri; comeché il vocabol poi, per sottrazione d'alcuna lettera,
- rimanesse Alighieri. Il valor del quale fu cagione a quegli, che
- disceser di lui, di lasciare il titolo degli Elisei e di cognominarsi
- degli Alighieri. Del quale, come che alquanti e figliuoli e nepoti e
- de' nepoti figliuoli discendessero, regnante Federigo secondo
- imperadore, uno ne nacque, il quale dal suo avolo nominato fu
- Alighieri, piú per colui di cui fu padre che per sé chiaro. Questi
- nella sua donna generò colui del quale dee essere il futuro sermone.
- Né pretermise il nostro signore Iddio, che alla madre nel sonno non
- dimostrasse cui ella portasse nel ventre. Il che allora poco inteso e
- non curato, in processo di tempo e nella vita e nella morte di colui,
- che nascer doveva di lei, chiarissimamente si manifestò, sí come con
- la grazia di Dio mostreremo vicino al fine della presente operetta.
- Venuto adunque il tempo del parto, partorí la donna questa futura
- chiarezza della nostra cittá, e di pari consentimento il padre ed
- ella, non senza divina disposizione, sí come io credo, il nominaron
- Dante, volendone Iddio per cotal nome mostrare lui dovere essere di
- maravigliosa dottrina datore.
- III
- SUOI STUDI
- Nacque adunque questo singulare splendore italico nella nostra cittá,
- vacante il romano imperio per la morte di Federigo, negli anni della
- salutifera incarnazione del Re dell'universo MCCLXV, sedente Urbano
- papa quarto, ricevuto nella paterna casa da assai lieta fortuna:
- lieta, dico, secondo la qualitá del mondo che allora s'usava. E nella
- sua puerizia cominciò a dare, a chi avesse a ciò riguardato, manifesti
- segni qual dovea la sua matura etá divenire; peroché, lasciata ogni
- pueril mollizie, nella propria patria con istudio continuo tutto si
- diede alle liberali arti, e, in quelle giá divenuto esperto, non alle
- lucrative facultadi, alle quali oggi ciascun cupido di guadagnare
- s'avventa innanzi tempo, ma da laudevole vaghezza di perpetua fama
- tratto, alle speculative si diede. E, peroché a ciò, sí come appare,
- era dal ciel produtto, a vedere con aguto intelletto e le fizioni e
- l'artificio mirabile de' poeti si mise; e in brieve tempo, non
- trovandogli semplicemente favolosi, come si parla, familiarissimo
- divenne di tutti, e massimamente de' piú famosi. E, come giá è detto,
- conoscendo le poetiche opere non esser vane o stolte favole, come
- molti dicono, ma sotto sé dolcissimi frutti di veritá istoriografe o
- filosofiche aver nascosti, accioché piena notizia n'avesse, e alle
- istorie e alla filosofia, i tempi debitamente partiti, si diede; e giá
- divenuto di quelle e di questa esperto, cresciuta, con la dolcezza del
- conoscere la veritá delle cose, la vaghezza del piú sapere, a voler
- investigar quello che per umano ingegno se ne può comprendere delle
- celestiali intelligenzie e della prima causa con ogni sollecitudine
- tutto si diede. Né questi studi in picciol tempo sí feciono, né senza
- grandissimi disagi s'esercitarono, né nella patria sola s'acquistò il
- frutto di quegli. Egli, sí come a luogo piú fertile del cibo che 'l
- suo alto intelletto disiderava, a Bologna andatone, non piccol tempo
- vi spese; e, giá vicino alla sua vecchiezza, non gli parve grave
- l'andarne a Parigi, dove, non dopo molta dimora, con tanta gloria di
- sé, disputando, piú volte mostrò l'altezza del suo ingegno, che ancora
- narrandosi se ne maravigliano gli uditori. Di tanti e sí fatti studi
- non ingiustamente il nostro Dante meritò altissimi titoli: percioché
- alcuni assai chiari uomini in scienza il chiamavano sempre «maestro»,
- altri l'appellavan «filosofo», e di tali furono che «teologo» il
- nominavano, e quasi generalmente ogn'uomo il diceva «poeta», sí come
- ancora è appellato da tutti. Ma, percioché tanto è la vittoria piú
- gloriosa quanto le forze del vinto sono state maggiori, giudico esser
- convenevole dimostrare di come fluttuoso anzi tempestoso mare costui,
- ora in qua e ora in lá ributtato, con forte petto parimente le
- traverse onde e i contrari venti vincendo, pervenisse al salutevole
- porto de' chiarissimi titoli giá narrati.
- IV
- IMPEDIMENTI AVUTI DA DANTE AGLI STUDI
- Gli studi generalmente sogliono solitudine e rimozion di sollecitudine
- disiderare e tranquillitá d'animo, e massimamente gli speculativi, a'
- quali, sí come mostrato è, il nostro Dante, in quanto la possibilitá
- permetteva, s'era donato. In luogo della quale rimozione e quiete,
- quasi dallo inizio della sua puerizia infino allo stremo della sua
- vita, Dante ebbe fierissima e importabile passion d'amore. Ebbe oltre
- a ciò moglie; le quali chi 'l pruova sa come capitali nemiche sieno
- dello studio della filosofia. Similmente ebbe ad aver cura della re
- familiare e oltre a ciò della republica, e, sopr'a tutte queste,
- lungamente sostenne esilio e povertá; accioché io lasci stare l'altre
- particulari noie, che queste si tirano appresso. Le quali, per
- mostrare quanta in sé superficialmente di gravezza portassono e
- accioché per questo parte della promessa fatta s'osservi, giudico
- convenevole sia alquanto piú distesamente spiegarle.
- V
- AMORE PER BEATRICE
- Era usanza nella nostra cittá e degli uomini e delle donne, come il
- dolce tempo della primavera ne veniva, nelle lor contrade ciascuno per
- distinte compagnie festeggiare. Per la qual cosa infra gli altri Folco
- Portinari, onorevole cittadino, il primo dí di maggio aveva i suoi
- vicini nella propria casa raccolti a festeggiare, infra' quali era il
- sopradetto Alighieri; e lui, sí come far sogliono i piccoli figliuoli
- i lor padri, e massimamente alle feste, seguíto avea il nostro Dante,
- la cui etá ancor non aggiungnea all'anno nono. Il quale con gli altri
- della sua etá, che nella casa erano, puerilmente si diede a
- trastullare.
- Era tra gli altri una figliuola del detto Folco, chiamata Bice, la
- quale di tempo non passava l'anno ottavo, leggiadretta assai e ne'
- suoi costumi piacevole e gentilesca, bella nel viso, e nelle sue
- parole con piú gravezza che la sua piccola etá non richiedea. La quale
- riguardando Dante e una e altra volta, con tanta affezione, ancor che
- fanciul fusse, piacendogli, la ricevette nell'animo, che mai altro
- sopravvegnente piacere la bella imagine di lei spegnere né poté né
- cacciare. E, lasciando stare de' puerili accidenti il ragionare, non
- solamente continuandosi, ma crescendo di giorno in giorno l'amore, non
- avendo niuno altro disidèro maggiore né consolazione se non di veder
- costei, gli fu in piú provetta etá di cocentissimi sospiri e d'amare
- lagrime assai spesso dolorosa cagione, sí come egli in parte nella sua
- _Vita nuova_ dimostra. Ma quello che rade volte suole negli altri cosí
- fatti amori intervenire, in questo essendo avvenuto, non è senza dirlo
- da trapassare. Fu questo amor di Dante onestissimo, qual che delle
- parti, o forse amendue, fosse di ciò cagione. Egli quantunque, almeno
- dalla parte di Dante, ardentissimo fosse, niuno sguardo, niuna parola,
- niun cenno, niun sembiante, altro che laudevole, per alcun se ne vide
- giammai. Che piú? Dal viso di questa giovine donna, la quale non Bice,
- ma dal suo primitivo sempre chiamò Beatrice, fu primieramente nel
- petto suo desto lo 'ngegno al dovere parole rimate comporre. Delle
- quali, sí come manifestamente appare, in sonetti, ballate e canzoni e
- altri stili, molte in laude di questa donna eccellentissimamente
- compose, e tal maestro, sospingnendolo Amor, ne divenne, che, tolta di
- gran lunga la fama a' dicitor passati, mise in opinion molti che niuno
- nel futuro esser ne dovesse, che lui in ciò potesse avanzare.
- VI
- DOLORE DI DANTE PER LA MORTE DI BEATRICE
- Gravi erano stati i sospiri e le lagrime, mosse assai sovente dal non
- potere aver veduto, quanto il concupiscibile appetito disiderava, il
- grazioso viso della sua donna; ma troppo piú ponderosi gliele serbava
- quella estrema e inevitabile sorte che, mentre viver dovesse, ne 'l
- doveva privare. Avvenne adunque che, essendo quasi nel fine del suo
- vigesimoquarto anno la bellissima Beatrice, piacque a Colui che tutto
- puote di trarla delle temporali angosce e chiamarla alla sua eterna
- gloria. La partita della quale tanto impazientemente sostenne il
- nostro Dante, che, oltre a' sospiri e a' pianti continui, assai de'
- suoi amici lui quel senza morte non dover finire estimarono. Lunghe
- furono e molte [le sue lagrime], e per lungo spazio ad ogni conforto
- datogli tenne gli orecchi serrati. Ma pur poi, in processo di tempo
- maturatasi alquanto l'acerbitá del dolore, e facendo alquanto la
- passion luogo alla ragione, cominciò senza pianto a potersi ricordare
- che morta fosse la donna sua, e per conseguente ad aprir gli orecchi
- a' conforti; ed essendo lungamente stato rinchiuso, incominciò ad
- apparire in publico tra le genti. Né fu solo da questo amor passionato
- il nostro poeta, anzi, inchinevole molto a questo accidente, per altri
- obietti in piú matura etá troviam lui sovente aver sospirato, e
- massimamente dopo il suo esilio, dimorando in Lucca, per una giovine,
- la quale egli nomina Pargoletta. E oltre a ciò, vicino allo stremo
- della sua vita, nell'alpi di Casentino per una alpigina, la quale, se
- mentito non m'è, quantunque bel viso avesse, era gozzuta. E, per
- qualunque fu l'una di queste, compose piú e piú laudevoli cose in
- rima.
- VII
- MATRIMONIO DI DANTE
- Agro e valido nemico degli studi è amore, come veramente testificar
- può ciascuno che a tal passione è soggiaciuto; percioché, poi che con
- lusinghevole speranza ha tutta la mente occupata di chi nel principio
- non l'ha con forte resistenza scacciato, niun pensiero, niuna
- meditazione, niuno appetito in quella patisce che stea se non quelle
- sole, le quali esso medesimo vi reca; e chenti queste siano e come
- contrarie allo specular filosofico o alle poetiche invenzioni, sí
- manifesto mi pare, che superfluo estimo sarebbe il metterci tempo a
- piú chiarirlo.
- A questo stimolo un altro forse non minore se n'aggiunse; percioché,
- poi che, allenate le lagrime della morte di Beatrice, diede agli amici
- suoi alcuna speranza della sua vita, incontanente loro entrò
- nell'animo che, dandogli per moglie una giovane, colei del tutto se ne
- potesse cacciare, che, benché partita del mondo fosse, gli avea nel
- petto la sua imagine lasciata perpetua donna: e, lui a ciò inclinato,
- senza alcuno indugio misero ad effetto il lor pensiero.
- Saranno per avventura di quegli che laudevole diranno cotal consiglio;
- e questo avverrá perché non considereranno quanto pericolo porti lo
- spegnere il fuoco temporal con l'eterno. Era a Dante l'amore, il quale
- a Beatrice portava, per lo suo troppo focoso disiderio spesse volte
- noioso e grave a sofferire; ma pur talvolta alcun soave pensiero,
- alcuna dolce speranza, qualche dilettevole imaginazion ne traeva; dove
- della compagnia della moglie, secondo che coloro afferman che 'l
- pruovano, altro che sollecitudine continua e battaglia senza
- intermission non si trae. Ma lasciamo star quello che la moglie in
- qualunque meccanico possa adoperare, e a quel vegniamo che la presente
- materia richiede.
- VIII
- DIGRESSIONE SUL MATRIMONIO
- Quanto le mogli sieno nimiche degli studi assai leggermente puote
- apparire a' riguardanti. Rincresce spesse volte a' filosofanti la
- turba volgare: per che, da essa partendosi e raccoltosi in alcuna
- solitaria parte della sua casa, sé contra sé con la considerazion
- trasportando, talvolta ragguarda quale spirito muove il cielo, onde
- venga la vita agli animali, quali sieno delle cose le prime cagioni; e
- talvolta nello splendido consistoro de' filosofi mischiatosi col
- pensiero, con Aristotile, con Socrate, con Platone e con gli altri
- disputerá della veritá d'alcuna conclusione acutissimamente; e spesse
- fiate con sottilissima meditazione se ne entrerá sotto la corteccia
- d'alcuna poetica fizione, e, con grandissimo suo piacere, quanto sia
- diverso lo 'ntrinseco dalla crosta riguarderá. Né fia che non avvenga,
- quando vorrá, che gl'imperadori eccelsi, i potentissimi re e prencipi
- gloriosi con lui nella solitudine non si convengano, e con lui
- ragionino de' governamenti publici, dell'arti delle guerre e dei
- mutamenti della fortuna. Alle quali eccelse e piacevoli cose
- sopravverrá la donna e, cacciata via la contemplazion laudevole e
- tanta e tal compagnia, biasimerá il suo star solitario e 'l suo
- pensiero, e spesse volte, sospicando, dirá questo non solergli
- avvenire avanti ch'ella a lui venisse, e però assai manifestamente
- apparire lui esser di lei pessimamente contento. E, postasi quivi a
- sedere, non prima si leverá che, esaminati i pensieri del marito, lui
- di piacevolissima considerazione in noiosa turbazione avrá recato. Che
- dirò dell'odio ch'elle portano a' libri, qualora alcuno ne veggiono
- aprire? che delle notturne vigilie, non solamente utili, ma opportune
- agli studianti? Tutto a' suoi diletti quel tempo esser tolto,
- lagrimando, confermano. Lascio le notturne battaglie, li loro costumi
- gravi a sostenere, la spesa inestimabile che nelli loro ornamenti
- richeggiono: tutte cose, quanto esser possono, avverse a'
- contemplativi pensieri. Che dirò se gelosia v'interviene? che, se
- cruccio che per lunghezza si converta in odio? Io corro troppo questa
- materia, percioché bastar dee agl'intendenti averne superficialmente
- toccato. Ma, chenti che l'altre si sieno, accioché io quando che sia
- mi riduca al proposito, tal fu quella che a Dante fu data, che, da lei
- una volta partitosi, né volle mai dove ella fosse tornare, né che ella
- andasse lá dove egli fosse. Né creda alcuno che io per le sudette cose
- voglia conchiuder gli uomini non dover tôrre moglie; anzi il lodo, ma
- non a tutti. I filosofanti, che 'l mio giudicio in questo
- seguiteranno, lasceranno lo sposarsi a' ricchi stolti e a' signori e
- similmente ai lavoratori; ed essi con la filosofia si diletteranno,
- molto piú piacevole e migliore sposa che alcuna altra.
- IX
- CURE FAMILIARI E PUBBLICHE
- Tirò appresso di sé lo stimolo della moglie al nostro poeta un'altra
- quasi inevitabil gravezza, e questa fu la sollecitudine d'allevare i
- figliuoli, percioché in brieve tempo padre di famiglia divenne; e,
- strignendolo la domestica cura, quel tempo, che alle eccelse
- meditazioni, soluto, soleva prestare, costretto da necessitá,
- conveniva che egli concedesse a' pensieri donde dovessero i salari
- delle nutrici venire, i vestimenti de' figliuoli, e l'altre cose
- opportune a chi piú secondo la opinion del vulgo che secondo la
- filosofica veritá convien che viva. Il che quanto d'impedimento alli
- suoi studi prestasse, assai leggermente conoscer si dee da ciascuno.
- Da questa per avventura ne gli nacque una maggiore; percioché
- l'altiero animo avendo le minor cose in fastidio, e per le maggiori
- estimando quelle potersi cessare, dalla familiar cura transvolò alla
- publica: nella qual tanto e subitamente sí l'avvilupparono i vani
- onori, che, senza guardare donde s'era partito e dove andava con
- abbandonate redine, messa la filosofia in oblio, quasi tutto della
- republica con gli altri cittadin piú solenni al governo si diede. E
- fugli tanto in ciò alcun tempo la fortuna seconda, che di tutte le
- maggior cose occorrenti la sua diliberazion s'attendeva. In lui tutta
- la publica fede, in lui tutta la speranza publica, in lui
- sommariamente le divine cose e l'umane parevano esser fermate. Che
- questa gloria vana, questa pompa, questo vento fallace gonfi
- maravigliosamente i petti de' mortali; e gli atti e portamenti di
- coloro, che ne' reggimenti delle cittá son maggiori, e il fervente
- appetito, che di quegli hanno generalmente gli stolti, assai
- leggermente agli occhi de' savi il possono dimostrare. E come si dee
- credere che intra tanto tumulto, intra tanto rivolgimento di cose,
- quanto dee continuamente essere nelle gonfiate menti de' presidenti,
- deano potere aver luogo le considerazion filosofiche, le quali, come
- giá detto è, somma pace d'animo vogliono? In queste tumultuositá fu il
- nostro Dante inviluppato piú anni, e tanto piú che un altro, quanto il
- suo disiderio tutto tirava al ben publico, dove quello degli altri o
- della maggior parte tirannescamente al privato badava: per che, oltre
- all'altre sollecitudini, in continua battaglia esser gli conveniva. Ma
- la fortuna, volgitrice de' nostri consigli e inimica d'ogni umano
- stato, assai diverso fine pose al principio. Al qual voler dimostrare,
- un pochetto s'amplierá la novella.
- X
- COME LA LOTTA DELLE PARTI LO COINVOLSE
- Era ne' tempi del glorioso stato del nostro poeta la fiorentina
- cittadinanza in due parti perversissimamente divisa, alle quali parti
- riducere ad unitá Dante invano si faticò molte volte. Di che poi che
- s'accorse, prima seco propose, posto giú ogni uficio publico, di viver
- seco privatamente; ma, dalla dolcezza della gloria tratto e dal favor
- popolesco, e ancora dalle persuasioni de' maggiori, sperando di
- potere, se tempo gli fosse prestato, molto di bene adoperare, lasciò
- la disposizione utile e perseverando seguitò la dannosa. E,
- accorgendosi che per se medesimo non poteva una terza parte tenere, la
- quale, giusta, la ingiustizia dell'altre due abbattesse, con quella
- s'accostò nella quale, secondo il suo giudicio, era meno di malvagitá.
- E, aumentandosi per vari accidenti continuamente gli odii delle parti,
- e il tempo vegnendo che gli occulti consigli della minacciante fortuna
- si doveano scoprire, nacque una voce per tutta la cittá: la parte
- avversa a quella, con la qual Dante teneva, grandissima multitudine
- d'armati in disfacimento de' loro avversari aver nelle case loro. La
- qual cosa creduta spaventò sí i collegati di Dante, che, ogni altro
- consiglio abbandonato che di fuggire, non cacciati s'usciron dalla
- cittá e, con loro insieme, Dante. Né molti dí trapassarono che, avendo
- i lor nemici il reggimento tutto della cittá, come nemici publici
- tutti quegli, che fuggiti s'erano, furono in perpetuo esilio dannati,
- e i lor beni ridotti in publico o conceduti a' vincitori.
- XI
- LA VITA DEL POETA ESULE SINO ALLA VENUTA IN ITALIA DI ARRIGO SETTIMO
- Questo fine ebbe la gloriosa maggioranza di Dante, e da' suoi
- cittadini le sue pietose fatiche questo merito riportaro. Lasciati
- adunque la moglie e i piccioli figliuoli nelle mani della fortuna, e
- uscito di quella cittá, nella qual mai tornar non dovea, sperando in
- brieve dovere essere la ritornata, piú anni per Toscana e per
- Lombardia, quasi da estrema povertá costretto, gravissimi sdegni
- portando nel petto, s'andò avvolgendo. Egli primieramente rifuggí a
- Verona. Quivi dal signor della terra e ricevuto e onorato fu
- volentieri e sovvenuto. Quindi in Toscana tornatosene, per alcun tempo
- fu col conte Salvatico in Casentino. Di quindi fu col marchese
- Moruello Malespina in Lunigiana. E ancora per alcuno spazio fu co'
- signori della Faggiuola ne' monti vicini ad Orbino. Quindi n'andò a
- Bologna, e da Bologna a Padova, e da Padova ancor si ritornò a Verona.
- Ma, essendo giá dopo la sua partita di Firenze piú anni passati, né
- apparendo alcuna via da potere in quella tornare, ingannato trovandosi
- del suo avviso, e quasi del mai dovervi tornar disperandosi, si
- dispose del tutto d'abbandonare Italia; e, passati gli Alpi, come poté
- se n'andò a Parigi, accioché, quivi a suo potere studiando, alla
- filosofia il tempo, che nell'altre sollecitudini vane tolto le avea,
- restituisse. Udí adunque quivi e filosofia e teologia alcun tempo, non
- senza gran disagio delle cose opportune alla vita. Da questo il tolse
- una speranza presa di potere in casa sua ritornare con la forza
- d'Arrigo di Luzimborgo imperadore. Per che, lasciati gli studi e in
- Italia tornatosi, e con certi rubelli de' fiorentini congiuntosi, con
- loro insieme con prieghi, con lettere e con ambasciate s'ingegnò di
- rimuovere il detto Arrigo dallo assedio di Brescia e di conducerlo
- intorno alla sua cittá, estimando quella contro a lui non potersi
- tenere. Ma la riuscita contraria gli fece palese il suo avviso essere
- stato vano. Assediò Arrigo la cittá di Fiorenza; e ultimamente, vana
- vedendo la stanza, se ne partí e, non dopo molto tempo passando di
- questa vita, ogni speranza ruppe nel nostro poeta, il quale in Romagna
- se ne passò, dove l'ultimo suo dí, il quale alle sue fatiche doveva
- por fine, l'aspettava.
- XII
- DANTE OSPITE DI GUIDO NOVEL DA POLENTA
- Era in que' tempi signor di Ravenna, antichissima cittá di Romagna, un
- nobile cavaliere, il cui nome era Guido Novel da Polenta, ne' liberali
- studi ammaestrato e amatore degli scenziati uomini. Il quale, udendo
- Dante, cui per fama lungamente avanti avea conosciuto, come disperato
- essersene venuto in Romagna, conoscendo la vergogna de' valorosi nel
- domandare, con liberale animo si fece incontro al suo bisogno, e lui,
- di ció volonteroso, onorevolmente ricevette e tenne, infino all'ultimo
- dí di lui.
- Assai credo che manifesto sia da quanti e quali accidenti contrari
- agli studi fosse infestato il nostro poeta. Il quale né gli amorosi
- disiri, né le dolenti lagrime, né gli stimoli della moglie, né la
- sollecitudine casalinga, né la lusinghevole gloria de' publici ofici,
- né il súbito e impetuoso mutamento della fortuna, né le faticose
- circuizioni, né il lungo e misero esilio, né la intollerabile povertá,
- tutte imbolatrici di tempo agli studianti, non poterono con le lor
- forze vincere, né dal principale intento rimuovere, cioè da' sacri
- studi della filosofia, sí come assai chiaramente dimostrano l'opere
- che da lui composte leggiamo. Che diranno qui coloro, agli studi de'
- quali non bastando della lor casa, cercano le solitudini delle selve?
- che coloro, a' quali è riposo continuo, e a' quali l'ampie facultá
- senza alcun lor pensiero ogni cosa opportuna ministrano? che coloro
- che, soluti da moglie e da figliuoli, liberi posson vacare a' lor
- piaceri? De' quali assai sono che, se ad agio non sedessero, o
- udissero un mormorio, non potrebbono, non che meditare, ma leggere, né
- scrivere, se non stasse il gomito riposato. Certo niuna altra cosa
- potranno dire, se non che il nostro poeta, e per gli impeti superati e
- per l'acquistata scienza, sia di doppia corona da onorare. Ma da
- ritornare è alla intralasciata materia.
- XIII
- MORTE DI DANTE
- Abitò adunque Dante in Ravenna piú anni nella grazia di quel signore,
- e quivi a molti dimostrò la ragione del dire in rima, la quale
- maravigliosamente esaltò. Ed essendo giá al cinquantesimosesto anno
- della sua etá pervenuto, infermò, e come fedel cristiano
- riconciliatosi, per vera contrizione e confessione delle colpe
- commesse, a Dio, del mese di settembre, correnti gli anni di Cristo
- MCCCXXI, il dí che la esaltazione della santa Croce si celebra, passò
- della presente vita. La cui anima creder possiamo essere stata nelle
- braccia della sua nobile Beatrice ricevuta e presentata nel cospetto
- di Dio, accioché quivi in riposo perpetuo prenda merito delle fatiche
- passate.
- Fu la morte del nostro poeta al magnifico cavaliere assai gravosa. Il
- quale, fatto il corpo del defunto ornare d'ornamenti poetici, e quello
- porre sopra un funebre letto, sopra gli omeri de' piú eccellenti
- ravignani il fece alla chiesa de' frati minori, con quello onore che a
- tanto uomo si conveniva, portare, e quivi in una arca lapidea
- seppellire, con animo di fargli una egregia e notabile sepoltura.
- Quindi alla casa, nella quale era Dante prima abitato, tornandosi,
- secondo il ravignan costume, esso medesimo, a commendazione del
- trapassato poeta e a consolazione de' figliuoli e degli amici che dopo
- lui rimanieno, fece uno esquisito e lungo sermone. Ma poi, infra
- brieve spazio essendogli tolto lo Stato, cessò il proponimento della
- magnifica sepoltura; per la qual cosa ancora in quella arca, dove fu
- posto, le venerabili ossa dimorano.
- XIV
- GARA DI POETI PER L'EPITAFIO DI DANTE
- Furono in que' tempi piú uomini nell'arte metrica ammaestrati, li
- quali, sentendo che far si dovea al corpo di Dante una mirabile
- sepoltura, fecero versi per porre in quella, testificanti e la scienza
- e alcun de' piú memorabili casi di Dante, de' quali niun vi si pose
- per lo sopradetto accidente. Nondimeno, piú tempo poi, me ne furono
- monstrati: de' quali alquanti, fattine dal maestro Giovanni del
- Virgilio, sí come piú laudevoli al mio giudicio, ne elessi; ed
- estimando questa operetta quello testificare, che in parte avrebbe
- fatto la sepoltura, di porglici diliberai come segue:
- _Theologus Dantes nullius dogmatis expers,
- quod foveat claro philosophia sinu:
- gloria musarum, vulgo gratissimus auctor,
- hic iacet, et fama pulsat utrumque polum:
- qui loca defunctis gladiis regnumque gemellis
- distribuit, laicis rhetoricisque modis.
- Pascua Pieriis demum resonabat avenis;
- Atropos heu! laetum livida rupit opus.
- Huic ingrata tulit tristem Florentia fructum,
- exilium, vati patria cruda suo.
- Quem pia Guidonis gremio Ravenna Novelli
- gaudet honorati continuisse ducis,
- mille trecentenis ter septem Numinis annis,
- ad sua septembris idibus astra redit._
- XV
- RIMPROVERO AI FIORENTINI
- Sogliono gli odii nella morte degli odiati finirsi; il che nel
- trapassamento di Dante non si trovò avvenire. L'ostinata malivolenza
- de' suoi cittadini nella sua rigidezza stette ferma; niuna publica
- lagrima gli fu conceduta, né alcuno uficio funebre fatto. Nella qual
- pertinacia assai manifestamente sí dimostrò, i fiorentini tanto essere
- dal cognoscimento della scienzia rimoti, che fra loro niuna distinzion
- fosse da un vilissimo calzolaio ad un solenne poeta. Ma essi con la
- lor superbia rimangansi; e noi, avendo gli affanni dimostrati di Dante
- e il suo fine, all'altre cose che di lui, oltre alle dette, dir si
- possono, ci volgiamo.
- XVI
- FATTEZZE E COSTUMI DI DANTE
- Fu il nostro poeta di mediocre statura, ed ebbe il volto lungo e il
- naso aquilino, le mascelle grandi, e il labbro di sotto proteso tanto,
- che alquanto quel di sopra avanzava; nelle spalle alquanto curvo, e
- gli occhi anzi grossi che piccoli, e il color bruno, e i capelli e la
- barba crespi e neri, e sempre malinconico e pensoso. Per la qual cosa
- avvenne un giorno in Verona (essendo giá divulgata per tutto la fama
- delle sue opere, ed esso conosciuto da molti e uomini e donne) che,
- passando egli davanti ad una porta, dove piú donne sedevano, una di
- quelle pianamente, non però tanto che bene da lui e da chi con lui era
- non fosse udita, disse all'altre donne:--Vedete colui che va in
- inferno, e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che
- lá giú sono!--Alla quale semplicemente una dell'altre rispose:--In
- veritá egli dee cosí essere: non vedi tu come egli ha la barba crespa
- e il color bruno per lo caldo e per lo fummo che è lá giú?--Di che
- Dante, perché da pura credenza venir lo sentia, sorridendo passò
- avanti.
- Li suoi vestimenti sempre onestissimi furono, e l'abito conveniente
- alla maturitá, e il suo andare grave e mansueto, e ne' domestici
- costumi e ne' publici mirabilmente fu composto e civile.
- Nel cibo e nel poto fu modestissimo. Né fu alcuno piú vigilante di lui
- e negli studi e in qualunque altra sollecitudine il pugnesse.
- Rade volte, se non domandato, parlava, quantunque eloquentissimo
- fosse.
- Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovanezza, e, per
- vaghezza di quegli, quasi di tutti i cantatori e sonatori famosi suoi
- contemporanei fu dimestico.
- Quanto ferventemente esso fosse da amor passionato, assai è dimostrato
- di sopra.
- Solitario fu molto e di pochi dimestico. E negli studi, quel tempo che
- lor poteva concedere, fu assiduo molto.
- Fu ancora Dante di maravigliosa capacitá e di memoria fermissima, come
- piú volte nelle disputazioni in Parigi e altrove mostrò.
- Fu similmente d'intelletto perspicacissimo e di sublime ingegno e,
- secondo che le sue opere dimostrano, furono le sue invenzioni mirabili
- e pellegrine assai.
- Vaghissimo fu e d'onore e di pompa, per avventura piú che non si
- appartiene a savio uomo. Ma qual vita è tanto umile, che dalla
- dolcezza della gloria non sia tócca? Questa vaghezza credo che cagion
- gli fosse d'amare sopra ogni altro studio quel della poesia, accioché
- per lei al pomposo e inusitato onore della coronazion pervenisse. Il
- quale senza fallo, sí come degno n'è, avrebbe ricevuto, se fermato
- nell'animo non avesse di quello non prendere in altra parte, che nella
- sua patria e sopra il fonte nel quale il battesimo avea ricevuto; ma
- dallo esilio impedito e dalla morte prevenuto, nol fece. Ma, peroché
- spessa quistion si fa tra le genti, e che cosa sia la poesí e che il
- poeta, e donde questo nome venuto, e perché di lauro sieno coronati i
- poeti, e da pochi pare esser mostrato, mi piace qui di fare alcuna
- transgressione, nella quale questo alquanto dichiari, e quindi
- prestamente tornare al proposito.
- XVII
- DIGRESSIONE SULL'ORIGINE DELLA POESIA
- La prima gente ne' primi secoli, comeché rozzissima e inculta fosse,
- ardentissima fu di conoscere il vero con istudio, sí come noi veggiamo
- ancora naturalmente disiderare a ciascuno. La quale veggendo il ciel
- moversi con ordinata legge continuo, e le cose terrene aver certo
- ordine e diverse operazioni in diversi tempi, pensarono di necessitá
- dovere essere alcuna cosa, dalla quale tutte queste cose procedessero
- e che tutte l'altre ordinasse, sí come superiore potenza da niuna
- altra potenziata. E, questa investigazione seco diligentemente avuta,
- s'imaginaron quella, la quale «divinitá» ovvero «deitá» appellarono,
- con ogni cultivazione, con ogni onore e con piú che umano servigio
- esser da venerare. E perciò ordinarono, a reverenzia di questa suprema
- potenza, ampissime ed egregie case, le quali ancora estimaron fossero
- da separare cosí di nome, come di forma separate erano, da quelle che
- generalmente per gli uomini si abitano; e nominaronle «templi». E
- similmente avvisaron doversi ministri, li quali fossero sacri e, da
- ogni altra mondana sollecitudine rimoti, solamente a' divini servigi
- vacassero, per maturitá, per etá e per abito, piú che gli altri
- uomini, reverendi; li quali appellaron «sacerdoti». E oltre a questo,
- in rappresentamento della imaginata essenzia divina, fecero in varie
- forme magnifiche statue, e a' servigi di quelle vasellamenti d'oro e
- mense marmoree e purpurei vestimenti e altri apparati assai pertinenti
- a' sacrifici stabiliti per loro. E accioché a questa cotal potenzia
- tacito onore o quasi mutolo non si facesse, parve loro che con parole
- d'alto suono essa deitá fosse da umiliare e alle loro necessitá render
- propizia. E cosí come essi estimarono questa eccedere ogni altra cosa
- di nobiltá, cosí vollono che, di lungi ad ogni plebeio o publico stile
- di parlare, si trovasser parole degne di proferire dinanzi alla
- divinitá, nelle quali, oltre alle sue lode, si porgessero sacrate
- lusinghe. E oltre a questo, accioché queste parole potessero avere piú
- d'efficacia, vollero che fossero sotto legge di certi numeri,
- corrispondenti per brevitá e per lunghezza a certi tempi ordinati,
- composte, per li quali alcuna dolcezza si sentisse, e cacciassesi il
- rincrescimento e la noia; e questo non in volgar forma o usitata, come
- dicemmo, ma con artificiosa ed esquisita di modi e di vocaboli,
- convenne che si facesse. La qual forma, cioè di parlare esquisito, li
- greci appellan «_poetes_»; laonde nacque, che quello parlare, che in
- cotal modo fatto fosse, «poesie» s'appellasse; e quegli, che ciò
- facessero o cotal modo di parlare usassero, si chiamasson «poeti».
- Questa adunque fu la prima origine della poesia e del suo nome, e per
- conseguente de' poeti, come che altri n'assegnino altre ragioni forse
- buone: ma questa mi piace piú.
- Adunque questa buona e laudevole intenzione della rozza etá mosse
- molti a diverse invenzioni nel mondo multiplicante per apparere; e,
- dove i primi una sola deitá adoravano, stoltamente mostrarono a'
- segnenti esserne molte, comeché quella una dicessero, oltre ad ogni
- altra, ottenere il principato. Tra le quali molte, mostrarono essere
- il Sole, la Luna, Saturno, Giove e qualunque altro pianeto, la loro
- erronea dimostrazion roborando da' loro effetti. E da questi vennero a
- mostrare, ogni cosa utile agli uomini, quantunque terrena fosse, in sé
- occulta deitá conservare; alle quali tutte e versi e onori e sacrifici
- divini s'ordinarono. E poi susseguentemente avendo giá cominciato
- diversi in diversi luoghi, chi con uno ingegno e chi con un altro, a
- farsi, sopra la moltitudine indòtta della sua contrada, maggiori e a
- chiamarsi «re» e mostrarsi alla plebe con servi e con ornamenti, e a
- farsi ubbidire, e talvolta a farsí come Dio adorare; li quali, non
- fidandosi tanto delle lor forze, cominciarono ad aumentare le
- religioni, e con la fede di quelle ad impaurire i suggetti e a
- strignere con sacramenti alla loro obbedienza quegli, li quali non vi
- si sarebbon con le forze recati. E, oltre a questo, diedono opera a
- deificare li lor padri, li loro avoli, li lor maggiori, o a dimostrare
- sé figliuoli degli iddii, accioché piú fosson temuti e avuti in
- reverenza dal vulgo. Le quali cose non si poterono commodamente fare
- senza l'oficio de' poeti, li quali, sí per ampliar la lor fama, sí per
- compiacere a' prencipi, sí per dilettare i sudditi, e sí ancora per
- suadere agl'intendenti il virtuosamente operare, quello che con aperto
- parlare saria suto della loro intenzion contrario, con fizioni varie e
- maestrevoli, male da' grossi, oggi non che a quel tempo, intese,
- facean credere quello che i prencipi voleano si credesse; servando
- nelli nuovi iddii e negli uomini, li quali degli iddii nati fingevano,
- quello medesimo stilo che in quello, che vero Iddio primieramente
- credettero, usavano. Da questo si venne allo adequare i fatti de'
- forti uomini a quegli degl'iddii: donde nacque il cantare con eccelso
- verso le battaglie e gli altri notabili fatti degli uomini
- mescolatamente con quegli degli iddii. Per che si può delle predette
- cose comprendere uficio essere del poeta alcuna veritá sotto fabulosa
- fizion nascondere con ornate ed esquisite parole. E, percioché molti
- ignoranti credono la poesia niuna altra cosa essere, che semplicemente
- un favoloso e ornato parlare; oltre al promesso, mi piace brievemente
- mostrare la poesí esser teologia, o, piú propiamente parlando, quanto
- piú può simigliante di quella, prima che io vegna a dichiarare perché
- di lauro si coronino i poeti.
- XVIII
- CHE LA POESIA È SIMIGLIANTE ALLA TEOLOGIA
- Se noi vorrem por giú gli animi e con ragion riguardare, io mi credo
- che assai leggermente potrem vedere gli antichi poeti avere imitate,
- tanto quanto all'umano ingegno è possibile, le pedate dello Spirito
- santo; il quale, sí come noi nella divina Scrittura veggiamo, per la
- bocca di molti i suo' altissimi segreti rivelò a' futuri, facendo loro
- sotto velame parlare ciò che a debito tempo per opera, senza alcun
- velo, intendeva di dimostrare. Impercioché essi, se noi riguarderem
- bene le loro opere, accioché lo imitatore non paresse diverso dallo
- imitato, sotto coperta d'alcune fizioni, quello che stato era, o che
- fosse al lor tempo presente, o che disideravano, o che presumevano che
- nel futuro dovesse avvenire, discrissono. Per che, comeché ad un fine
- l'una scrittura e l'altra non riguardasse, ma solo al modo del
- trattare, quello del poetico stilo dir si potrebbe che della sacra
- Scrittura dice Gregorio, cioè che essa in un medesimo sermone,
- narrando, apre il testo e il misterio a quello sottoposto; e cosí ad
- un'ora con l'uno li savi esercita e con l'altro li semplici
- riconforta, e ha in publico donde li pargoli nutrichi, e in occulto
- serva quello onde assai le menti dei sublimi intenditori con
- ammirazione tenga sospese. Percioché pare essere un fiume piano e
- profondo, nel quale il piccioletto agnello con gli piè vada e il
- grande elefante ampissimamente nuoti. Ma da verificar sono le cose
- predette con alcune dimostrazioni.
- XIX
- DIMOSTRAZIONE DELLA PREDETTA SENTENZA
- Intende la divina Scrittura, l'esplicazion della quale insieme con
- essa noi «teologia» appelliamo, quando con figura d'alcuna istoria,
- quando col senso d'alcuna visione, quando con lo 'ntendimento d'alcuna
- lamentazione, e in altre maniere assai, mostrarci molti secoli avanti
- esser dallo Spirito santo a' futuri nunziato l'alto misterio della
- incarnazione del Verbo divino, la vita di quello, le cose occorse
- nella sua morte, e la resurrezione vittoriosa, e la mirabile
- ascensione, e ogni altro suo atto, per lo quale noi ammaestrati,
- possiamo a quella gloria pervenire, la quale Egli e morendo e
- risurgendo ci aperse, lungamente stata serrata per la colpa del primo
- uomo. Cosí i poeti nelle loro invenzioni, quando con fizioni di vari
- iddii, quando con trasformazioni d'uomini in varie forme e quando con
- leggiadre persuasioni ne mostrarono, sotto la corteccia di quelle, le
- cagioni delle cose, gli effetti delle virtú e de' vizi e che fuggir
- dobbiamo e che seguire, accioché pervenir possiamo, virtuosamente
- operando, a Dio; il quale essi, che lui non debitamente conoscieno,
- somma salute credeano. Volle lo Spirito santo monstrare nel rubo
- verdissimo, nel quale Moisé vide, quasí come una fiamma ardente,
- Iddio, la verginitá di Colei che piú che altra creatura fu pura, e che
- dovea essere abitazione e ricetto del Signore della natura, non
- doversi per la concezione, né per lo parto del Verbo del Padre in
- alcuna parte diminuire. Volle per la visione veduta da Nabucdonosor,
- nella statua di piú metalli abbattuta da una pietra convertita poi in
- un monte, mostrare tutte le religioni, leggi e dottrine delle
- preterite etá dalla dottrina di Cristo, il qual fu ed è viva pietra,
- [dovere essere sommerse; e la cristiana religione, nata di questa
- pietra,] divenire una cosa grande, immobile e perpetua, sí come li
- monti veggiamo. Volle nelle lamentazioni di Ieremia l'eccidio futuro
- di Ierusalem dichiarare, e quello, per la sua ingratitudine e crudeltá
- in Cristo, avvenire.
- Similemente li nostri poeti, fingendo Saturno aver molti figliuoli, e
- quegli, fuor che quattro, divorar tutti, niuna altra cosa vollono per
- tal fizion farci sentire, se non per Saturno il tempo, nel quale ogni
- cosa si produce; e come ella in esso è prodotta, cosí in esso, di
- tutto corrompitore, viene al niente. I quattro figliuoli dal tempo non
- divorati sono i quattro elementi, li quali niuna diminuzione avere per
- lunghezza di tempo veggiamo. Similmente fingono li nostri poeti Ercule
- d'uomo essere in Dio transformato, e Licaone re d'Arcadia transmutato
- in lupo: nulla altro volendo mostrarci, se non che, virtuosamente
- operando come fece Ercule, l'uomo diventa Iddio per participazione; e
- viziosamente operando, come Licaon fece, cade in infamia, e,
- quantunque nel primo aspetto paia uomo, quella bestia è dinominato, i
- vizi della quale sono a' suoi simiglianti: Licaone, percioché rapace e
- avaro e ingluvioso fu, vizi familiarissimi al lupo, in lupo
- transformato si disse. Li nostri poeti ancora discrissero mirabile la
- bellezza de' campi elisi, e in quegli dissono dopo la morte l'anime
- de' pietosi uomini e valenti abitare: per li quali il cristiano uomo
- meritamente potrá intendere la dolcezza del paradiso solamente alle
- pietose anime conceduta. E, oltre a ciò, oscura ed orrida e nel centro
- della terra finsero la cittá di Dite, e quivi sotto vari tormenti
- l'anime de' crudeli e malvagi uomini tormentarsi: per la quale chi
- sará che non prenda l'amaritudine dello 'nferno e i supplici de'
- dannati tanto quanto piú esser possono rimoti da Dio? Nelle quali
- fizioni assai chiaro mostrano d'ingegnarsi, con la bellezza dell'uno,
- di trar gli uomini a virtuosamente operare per acquistarlo, e, con la
- oscuritá dell'altro, spaventargli, accioché per paura di quella si
- ritraggano da' vizi e seguitin le virtú. Io lascio il tritare con piú
- particulari esposizioni queste cose, per non lasciarmi sí oltre nella
- transgression trasportare, che la principale materia patisca [_a_], e
- per venire a dimostrare perché di lauro si coronino i poeti.
- [Footnote _a_: fidandomi ancora che gl'intendenti, per quello che
- detto è, conosceranno quanta forza, piú trite, al mio argomento
- aggiugnerieno. Assai adunque per le cose dette credo che è chiaro la
- teologia e la poesia nel modo del nascondere i suoi concetti con
- simile passo procedere, e però potersi dire simiglianti. È il vero che
- il subietto della sacra teologia e quello della poesia de' poeti
- gentili è molto diverso, percioché quella nulla altra cosa nasconde
- che vera, ove questa assai erronee e contrarie alla cristiana
- religione ne discrive: né è di ciò da maravigliarsi molto, peroché
- quella fu dettata dallo Spirito santo, il quale è tutto veritá, e
- questa fu trovata dallo 'ngegno degli uomini, li quali di quello
- Spirito o non ebbono alcuna conoscenza o non l'ebbono tanto piena.]
- XIX^bis
- PERCHÉ I POETI NASCONDONO IL VERO SOTTO FIZIONI
- Io poteva per avventura procedere ad altro, se alcuni disensati ancora
- un pochetto intorno a questo ragionamento non mi avessero ritirato.
- Sono adunque alcuni li quali, senza aver mai veduto o voluto vedere
- poeta (o, se veduto n'hanno alcuno, non l'hanno inteso o non l'hanno
- voluto intendere), e di ciò estimandosi molto reputati migliori, con
- ampia bocca dannano quello che ancora conosciuto non hanno, cioè le
- opere de' poeti e i poeti medesimi, dicendo le lor favole essere opere
- puerili e a niuna veritá consonanti; e, oltre a ciò, se essi erano
- uomini d'altissimo sentimento, in altra maniera che favoleggiando
- dovevano la loro dottrina mostrare. Grande presunzione è quella di
- molti volere delle questioni giudicare prima che abbiano conosciuti i
- meriti delle parti: ma, poiché sofferire si conviene, a questi cotali,
- senza altro martirio, confesso le fizioni poetiche nella prima faccia
- avere niuna consonanza col vero. Ma, se per questo elle sono da
- dannare, che diranno costoro delle visioni di Daniello, che di quelle
- di Ezechiel, che dell'altre del vecchio Testamento, scritte con divina
- penna, che di quelle di Giovanni evangelista? Diremo, percioché
- somiglianza di vero in assai cose nella corteccia non hanno, sieno,
- come stoltamente dette, da rifiutare? Nol consentirá mai chi ficcherá
- gli occhi dello 'ntelletto nella midolla. E questo voglio ancora che
- basti per risposta alla seconda opposizione a questi giudici senza
- legge: cioè che, se lo Spirito santo è da commendare d'avere i suoi
- alti misteri dato sotto coverta, accioché le gran cose poste con
- troppa chiarezza nel cospetto di ogni intelletto non venissono in
- vilipensione, e che la veritá, con fatica e perspicacitá d'ingegno
- tratta di sotto le scrupolose ma ponderose parole, fosse piú cara e
- piú e con piú diletto entrasse nella memoria del trovatore; perché
- saranno da biasimare i poeti, se sotto favolosi parlari avranno
- nascosi gli alti effetti della natura, le moralitá e i gloriosi fatti
- degli uomini, mossi dalle sopradette cagioni? Certo io nol conosco.
- Perché sotto cosí fatta forma i poeti dessero la loro dottrina, oltre
- a ciò che detto n'è, ne possono le ragioni essere queste: o per
- imitare piú nobile autore, o perché forse in altra forma non erano
- ammaestrati. Ma di questo non mi pare da dovere far troppo agra
- quistione, conciosiacosaché ciascuno in cosí fatte elezioni piú tosto
- il suo giudicio séguiti che l'altrui; e però piú tosto si potrá
- dimandare se cotal tradizione è utile o disutile. Alla quale mi pare
- che rispondere si possa questa utile essere stata, dove i nostri
- giudici nel gridare la dimostrano disutile; e la ragione puote essere
- questa. Certissima cosa è che, come gli ingegni degli uomini sono
- diversi, cosí esser convengono diverse le maniere del dare la
- dottrina. Assai se ne sono giá veduti, a' quali niuna sillogistica
- dimostrazione ha potuto far comprendere il vero d'alcuna conclusione;
- la qual poi per ragioni persuasive hanno subitamente compresa. Che
- dunque con questi cotali varrá il sillogizzare d'Aristotile? Certo,
- niente. Cosí al contrario alcuni vilipendono tanto le persuasioni, che
- nulla crederanno essere vero, se sillogizzando non ne son convinti.
- Sono altri, li quali solo il nome della filosofia, non che la
- dottrina, spaventa, e che con sommo diletto alle lezioni delle favole
- correranno, non estimando sotto quella alcuna particella di filosofia
- potersi nascondere; ché, se 'l credessero, non le vorrebbono udire. Di
- questi cotali, non è dubbio, giá assai, dalla novitá delle favole
- mossi, divennero investigatori della veritá e domestici della
- filosofia, del cui nome altra volta aveano avuto paura. In questi
- cotali adunque non furono dannosi i poeti, né disutile il modo del
- loro trattare, il qual per certo, a chi non lo intende, non può dare
- altro piacere che faccia il suono della cetera all'asino. E questo al
- presente basti; e vegniamo a mostrare perché i poeti si coronino
- d'alloro. _Tra l'altre genti_ ecc.]
- XX
- DELL'ALLORO CONCEDUTO AI POETI
- Tra l'altre genti, alle quali piú aprí la filosofia i suoi tesori, i
- greci si crede che fosser quegli li quali d'essi trassero la dottrina
- militare e la vita politica, oltre alla notizia delle cose superiori;
- e, tra l'altre cose, la santissima sentenzia di Solone nel principio
- della presente operetta discritta; la quale ottimamente e lungo tempo
- servarono, fiorendo la loro republica. Alla quale osservare,
- considerati con gran diligenzia i meriti degli uomini, con publico
- consentimento ordinarono che, per piú degno guidardon che alcuno
- altro, sí come a piú utile e piú onorevole fatica alla republica, li
- poeti dopo la vittoria delle lor fatiche, cioè dopo la perfezione de'
- lor poemi, e, oltre a ciò, gl'imperadori dopo la vittoria avuta de'
- nimici della republica, fossono coronati d'alloro; estimando dovere
- d'un medesimo onore esser degno colui per la cui virtú le cose
- publiche erano e servate e aumentate, e colui per li cui versi le ben
- fatte cose eran perpetuate, e vituperate le avverse. La quale
- remunerazione poi parimente con la gloria dell'arme trapassò a'
- latini, e ancora, e massimamente nelle coronazioni de' poeti, come che
- rarissimamente avvengano, vi dimora. Ma perché a tal coronazion piú
- l'alloro, che fronda d'altro albero, eletto sia [_a_], pare la ragion
- questa.
- Vogliono coloro, li quali le virtú e le nature delle piante hanno
- investigate, il lauro, sí come noi medesimi veggiamo, giammai verdezza
- non perdere: per la quale perpetua viriditá vollero i greci intendere
- la perpetuitá della fama di coloro che di coronarsi d'esso si fanno
- degni. Appresso affermano li predetti investigatori non trovarsi il
- lauro essere stato mai fulminato, il che d'alcuno altro albero non si
- crede: e per questo vollono gli antichi mostrare che l'opere di
- coloro, che di quello si coronano, esser di tanta potenza dotate da
- Dio, che né il fuoco della 'nvidia, né la folgore della lunghezza del
- tempo, la quale ogni altra cosa consuma, quelle debba potere
- offuscare, rodere o diminuire. Dicono, oltre a ciò, i predetti quello
- che noi tutto il giorno sentiamo, cioè il lauro essere odorifero
- molto: e per quello vogliono intendere i passati, l'opere di colui,
- che degnamente se ne corona, sempre dovere esser piacevoli e graziose
- e odorifere di laudevole fama [_b_]. E perciò era non senza cagione
- [Footnote _a_: non dovrá parere a udire rincrescevole.
- Sono alcuni li quali credono, percioché Dafne, amata da Febo e in
- lauro convertita, fu da lui eletta a coronare le sue vittorie, e i
- poeti sono a lui consacrati, quindi tale coronazione avere origine
- avuta: la quale opinione non mi spiace, né niego cosí poter essere
- stato; ma tuttavia mi muove altra ragione. Secondo che _vogliono
- coloro_, ecc.]
- [Footnote _b_: Similemente una quarta proprietá, e maravigliosa, gli
- aggiungono; e questa è che dicono essere una specie di lauro, la cui
- pianta non fa mai che tre radici, delle frondi del quale qualunque
- persona n'avesse alla testa legate e dormisse, vedrebbe veracissimi
- sogni delle cose future mostranti: per la quale proprietá intesero i
- nostri maggiori una dimostrarsene, la quale essere ne' poeti si vede.
- Perciò i poeti, discrivendo l'operazioni d'alcuno, delle quali
- solamente gli effetti nudi avrá uditi, cosí le particulari incidenzie
- mai non vedute né udite discriverá, come se all'operazione fosse stato
- presente; e percioché veridichi in ciò assai volte sono stati trovati,
- parendo quella essere stata specie di divinazione, furono chiamati
- «vati», cioè profeti, ed estimarono gli uomini loro di lauro coronare,
- a mostrare la proprietá della divinazione, nella quale paiono al lauro
- simiglianti. _E perciò_, ecc.] il nostro Dante, sí come merito poeta,
- di questa laurea disioso. Della quale percioché assai avem parlato,
- estimo sia onesto di tornare al proposito.
- XXI
- CARATTERE DI DANTE
- Fu adunque il nostro poeta, oltre alle cose di sopra dette, d'animo
- altiero e disdegnoso molto: tanto che, cercandosi per alcuno amico
- come egli potesse in Firenze tornare, né altro modo trovandosi, se non
- che egli per alcuno spazio di tempo stato in prigione, fosse
- misericordievolmente offerto a San Giovanni, calcato ogni fervente
- disio del ritornarvi, rispose che Iddio togliesse via che colui, che
- nel seno della filosofia cresciuto era, divenisse cero del suo comune.
- Oltre a questo, di se stesso presunse maravigliosamente tanto, che
- essendo egli glorioso nel colmo del reggimento della republica, e
- ragionandosi tra' maggior cittadini di mandar, per alcuna gran
- bisogna, ambasciata a Bonifazio papa ottavo, e che prencipe
- dell'ambasciata fosse Dante, ed egli a ciò in presenza di tutti
- quegli, che sopra ciò consigliavan, richiesto, avvenne che,
- soprastando egli alla risposta, alcun disse:--Che pensi?--Alle quali
- parole egli rispose:--Penso: se io vo, chi rimane? e se io rimango,
- chi va?--quasi esso solo fosse colui che tra tutti valesse e per cui
- tutti gli altri valessero.
- Appresso, comeché il nostro poeta nelle sue avversitá paziente o no si
- fosse, in una fu impazientissimo: egli infino al cominciamento del suo
- esilio, come i suoi passati, stato guelfissimo, non essendogli aperta
- la via a ritornare in casa sua, sí fuor di modo diventò ghibellino,
- che ogni femminella, ogni piccol fanciullo, e quante volte avesse
- voluto, ragionando di parte e la guelfa preponendo alla ghibellina,
- l'avrebbe non solamente fatto turbare, ma a tanta insania commosso,
- che, se taciuto non fosse, a gittar le pietre l'avrebbe condotto.
- Certo io mi vergogno di dovere con alcun difetto maculare la chiara
- fama di cotanto uomo; ma il cominciato ordine delle cose in alcuna
- parte il richiede, percioché, se nelle cose meno laudevoli mi tacerò,
- io torrò molta fede alle laudevoli giá mostrate. A lui medesimo
- adunque mi scuso, il quale per avventura me scrivente con isdegnoso
- occhio d'alta parte del ciel mi riguarda.
- Tra cotanta vertú, tra cotanta scienza, quanta dimostrato è di sopra
- essere stata in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la
- lussuria, e non solamente ne' giovani anni, ma ancora ne' maturi. E
- questo basti al presente de' suoi costumi piú notabili aver contato, e
- all'opere da lui composte vegniamo.
- XXII
- LA «VITA NUOVA» E LA «COMMEDIA» INCIDENTI OCCORSI NELLA COMPOSIZIONE
- DI QUESTA OPERA
- Compose questo glorioso poeta piú opere ne' suoi giorni, tra le quali
- si crede la prima un libretto volgare, che egli intitola _Vita Nuova_:
- nel quale egli e in prosa e in sonetti e in canzoni gli accidenti
- dimostra dell'amore, il quale portò a Beatrice.
- Appresso piú anni, guardando egli della sommitá del governo della sua
- cittá, e veggendo in gran parte qual fosse la vita degli uomini,
- quanti e quali gli error del vulgo, e i cadimenti ancora de' luoghi
- sublimi come fussero inopinati, gli venne nell'animo quello laudevol
- pensiero che a' compor lo 'ndusse la _Comedia_. E, lungamente avendo
- premeditato quello che in essa volesse descrivere, in fiorentino
- idioma e in rima la cominciò: ma non avvenne il poterne cosí tosto
- vedere il fine, come esso per avventura imaginò; percioché, mentre
- egli era piú attento al glorioso lavoro, avendo giá di quello sette
- canti composti, de' cento che diliberato avea di farne, sopravvenne il
- gravoso accidente della sua cacciata, ovver fuga, per la quale egli,
- quella e ogni altra cosa abbandonata, incerto di se medesimo, piú anni
- con diversi amici e signori andò vagando.
- Ma non poté la nimica fortuna al piacer di Dio contrastare. Avvenne
- adunque che alcun parente di lui, cercando per alcuna scrittura in
- forzieri, che in luoghi sacri erano stati fuggiti nel tempo che
- tumultuosamente la ingrata e disordinata plebe gli era, piú vaga di
- preda che di giusta vendetta, corsa alla casa, trovò un quadernuccio,
- nel quale scritti erano li predetti sette canti. Li quali con
- ammirazion leggendo, né sappiendo che fossero, del luogo dove erano
- sottrattigli, gli portò ad un nostro cittadino, il cui nome fu Dino di
- messer Lambertuccio, in quegli tempi famosissimo dicitore in rima, e
- gliel mostrò. Li quali avendo veduti Dino, e maravigliatosi sí per lo
- bello e pulito stilo, sí per la profonditá del senso, il quale sotto
- la ornata corteccia delle parole gli pareva sentire, senza fallo
- quegli essere opera di Dante imaginò; e, dolendosi quella essere
- rimasa imperfetta, e dopo alcuna investigazione avendo trovato Dante
- in quel tempo essere appresso il marchese Moruello Malespina, non a
- lui, ma al marchese, e l'accidente e il desiderio suo scrisse, e
- mandògli i sette canti. Gli quali poi che il marchese, uomo assai
- intendente, ebbe veduti, e molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante,
- domandandolo se esso sapea cui opera stati fossero. Li quali Dante
- riconosciuti, subito rispose che sua. Allora il pregò il marchese
- che gli piacesse di non lasciar senza debito fine sí alto
- principio.--Certo--disse Dante--io mi credea nella ruina delle mie cose
- questi con molti altri miei libri aver perduti; e perciò, sí per questa
- credenza, e sí per la moltitudine delle fatiche sopravvenute per lo mio
- esilio, del tutto avea la fantasia, sopra questa opera presa,
- abbandonata. Ma, poiché inopinatamente innanzi mi son ripinti, e a voi
- aggrada, io cercherò di rivocare nella mia memoria la imaginazione di
- ciò prima avuta, e secondo che grazia prestata mi fia, cosí avanti
- procederò.--Creder si dee lui non senza fatica aver la intralasciata
- fantasia ritrovata; la qual seguitando, cosí cominciò:
- Io dico, seguitando, ch'assai prima, ecc.;
- dove assai manifestamente, chi ben guarda, può la ricongiunzione
- dell'opera intermessa riconoscere.
- Ricominciato adunque Dante il magnifico lavoro, non forse, secondo che
- molti stimano, senza piú interromperlo il perdusse a fine; anzi piú
- volte, secondo che la gravitá de' casi sopravvegnenti richiedea,
- quando mesi e quando anni, senza potervi adoperare alcuna cosa,
- interponeva; intanto che, piú avacciar non potendosi, avanti che tutto
- il publicasse il sopraggiunse la morte. Egli era suo costume, come sei
- o otto canti fatti n'avea, quegli, prima che alcun gli vedesse,
- mandare a messer Can della Scala, il quale egli oltre ad ogni altro
- uomo in reverenza avea; e, poi che da lui eran veduti, ne faceva copia
- a chi la volea. E in cosí fatta maniera avendogliele tutti, fuori che
- gli ultimi tredici canti, mandati, ancora che questi tredici fatti
- avesse, avvenne che senza farne alcuna memoria si morí; né, piú volte
- cercati da' figliuoli, mai furon potuti trovare; per che Iacopo e
- Piero, suoi figliuoli, e ciascun dicitore, dagli amici pregati che
- l'opera terminasser del padre, a ciò, come sapean, s'eran messi. Ma
- una mirabile visione a Iacopo, che in ciò piú era fervente, apparita,
- lui e 'l fratello non solamente della stolta presunzion levò, ma
- mostrò dove fossero li tredici canti tanto da lor cercati.
- Raccontava uno valente uom ravignano, il cui nome fu Pier Giardino,
- lungamente stato discepolo di Dante, grave di costumi e degno di fede,
- che dopo l'ottavo mese dal dí della morte del suo maestro, venne una
- notte, vicino all'ora che noi chiamiamo «mattutino», alla casa sua
- Iacopo di Dante, e dissegli sé quella notte poco avanti a quell'ora
- avere nel sonno veduto Dante suo padre, vestito di candidissimi
- vestimenti e d'una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui;
- il quale gli parea domandare se 'l vivea, e udire da lui per risposta
- di sí, ma della vera vita, non della nostra. Per che, oltre a questo,
- gli pareva ancor domandare se egli avea compiuta la sua opera avanti
- il suo passare alla vera vita; e, se compiuta l'avea, dove fosse
- quello che vi mancava, da loro giammai non potuto trovare. A questo
- gli pareva similemente udir per risposta:--Sí, io la compie';--e
- quinci gli parea che il prendesse per mano, e menasselo in quella
- camera dove era uso di dormire quando in questa vita vivea, e toccando
- una parte di quella, diceva:--Egli è qui quello che voi tanto avete
- cercato.--E, questa parola detta, ad un'ora il sonno e Dante gli parve
- che si partissono. Per la qual cosa affermava sé non esser potuto
- stare senza venirgli a significare ciò che veduto avea, accioché
- insieme andassero a cercare il luogo mostrato a lui, il quale egli
- ottimamente nella memoria avea segnato, a vedere se vero spirito o
- falsa delusione questo gli avesse disegnato. Per la qual cosa, comeché
- ancora assai fosse di notte, mossisi insieme, vennero alla casa nella
- quale Dante quando morí dimorava; e, chiamato colui che allora in essa
- stava e dentro da lui ricevuti, al mostrato luogo n'andarono, e quivi
- trovarono una stuoia al muro confitta, sí come per lo passato
- continuamente veduta v'aveano. La quale leggiermente in alto levata,
- vidon nel muro una finestretta da niun di loro mai piú veduta, né
- saputo che ella vi fosse, e in quella trovaron piú scritte, tutte per
- l'umiditá del muro muffate e vicino al corrompersi se guari piú state
- vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, vider segnate per
- numeri, e conobbero quello, che in esse scritto era, esser de' rittimi
- della _Comedia_: per che, secondo l'ordine dei numeri continuatele,
- insieme li tredici canti, che alla _Comedia_ mancavan, ritrovâr tutti.
- Per la qual cosa lietissimi quegli riscrissono e, secondo l'usanza
- dell'autore, prima gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta
- opera gli ricongiunson, come si convenía; e in cotal maniera l'opera,
- in molti anni compilata, si vide finita.
- XXIII
- PERCHÉ DANTE COMPOSE LA «COMMEDIA» IN VOLGARE A CHI EGLI LA DEDICÒ
- Muovon molti, e intra essi alcun savi uomini, una quistion cosí fatta:
- che, conciofossecosaché Dante fosse in iscienza solennissimo uomo,
- perché a comporre cosí grande opera e di sí alta materia, come la sua
- _Comedia_ appare, si mosse piú tosto a scrivere in rittimi e nel
- fiorentino idioma che in versi, come gli altri poeti giá fecero. Alla
- quale si può cosí rispondere. Aveva Dante la sua opera cominciata per
- versi in questa guisa:
- _Ultima regna canam, fluido contermina mundo,
- spiritibus quae lata patent, quae praemia solvunt
- pro meritis cuicumque suis,_ ecc.
- Ma, veggendo egli li liberali studi del tutto essere abbandonati, e
- massimamente da' prencipi, a' quali si soleano le poetiche opere
- intitolare, e che soleano essere promotori di quelle; e, oltre a ciò,
- veggendo le divine opere di Virgilio e quelle degli altri solenni
- poeti venute in non calere e quasi rifiutate da tutti, estimando non
- dover meglio avvenir della sua, mutò consiglio e prese partito di
- farla corrispondente, quanto alla prima apparenza, agl'ingegni dei
- prencipi odierni; e, lasciati stare i versi, ne' rittimi la fece che
- noi veggiamo. Di che seguí un bene, che de' versi non sarebbe seguito:
- che, senza tôr via lo esercitare degl'ingegni de' letterati, egli a'
- non letterati diede alcuna cagion di studiare, e a sé acquistò in
- brevissimo tempo grandissima fama, e maravigliosamente onorò il
- fiorentino idioma.
- Questo libro della _Comedia_, secondo che ragionano alcuni, intitolò
- egli a tre solennissimi italiani: la prima parte di quello, cioè lo
- _'Nferno_, ad Uguiccion della Faggiuola, il quale allora in Toscana
- era signor di Pisa; la seconda, cioè il _Purgatorio_, al marchese
- Moruello Malespina; la terza, cioè il _Paradiso_, a Federico terzo, re
- di Cicilia. Alcuni voglion dire lui averlo intitolato tutto a messer
- Can della Scala; e io il credo piú tosto, per la maniera che tenne di
- mandar prima a lui quello che composto avea che ad alcuno altro.
- XXIV
- ALTRE OPERE COMPOSTE DA DANTE
- Compose ancora questo egregio autore nella venuta d'Arrigo settimo
- imperadore un libro in latina prosa, nel quale, in tre libri distinto,
- prova a bene esser del mondo dovere essere imperadore, e che Roma di
- ragione il titolo dello imperio possiede, e ultimamente che l'autoritá
- dello 'mperio procede da Dio senza alcun mezzo. Gli argomenti del
- quale percioché usati furono in favore di Lodovico duca di Baviera
- contro alla Chiesa di Roma, fu il detto libro, sedente Giovanni papa
- ventiduesimo, da messer Beltrando cardinal dal Poggetto, allora per la
- Chiesa di Roma legato in Lombardia, dannato sí come contenente cose
- eretiche, e per lui proibito fu che studiare alcun nol dovesse. E se
- un valoroso cavaliere fiorentino, chiamato messer Pino della Tosa, e
- messer Ostagio da Polenta, li quali amenduni appresso del legato eran
- grandi, non avessero al furor del legato obviato, egli avrebbe nella
- cittá di Bologna insieme col libro fatte ardere l'ossa di Dante[_a_].
- Oltre a questi, compose il detto Dante egloghe assai belle, le quali
- furono intitolate e mandate da lui, per risposta di certi versi
- mandatigli, a maestro Giovanni del Virgilio.
- Compose ancora molte canzoni distese e sonetti e ballate, oltre a
- quelle che nella sua _Vita nuova_ si leggono.
- E sopra tre delle dette canzoni, comeché intendimento avesse sopra
- tutte di farlo, compose uno scritto in fiorentin volgare, il quale
- nominò _Convivio_, assai bella e laudevole operetta.
- [Footnote _a_: Se giustamente o non, Iddio il sa di vero. _Oltre a
- questi_ ecc.]
- Appresso, giá vicino alla sua morte, compose un libretto in prosa
- latina, il quale egli intitolò _De vulgari eloquentia_; e comeché per
- lo detto libretto apparisca lui avere in animo di distinguerlo e
- terminarlo in quattro libri, o che piú non ne facesse dalla morte
- soprappreso, o che perduti sien gli altri, piú non appariscon che i
- due primi.
- In cosí fatte cose, quali di sopra narrate sono, consumò il
- chiarissimo uomo quella parte del suo tempo, la quale egli agli
- amorosi sospiri, alle pietose lagrime, alle sollecitudini private e
- publiche e a' vari fluttuamenti della iniqua fortuna poté imbolare:
- opere troppo piú a Dio e agli uomini accettevoli che gl'inganni, le
- fraudi, le menzogne, le rapine e' tradimenti, li quali la maggior
- parte degli uomini usano oggi, cercando per qualunque via un medesimo
- fine, cioè di divenir ricchi, quasi nelle ricchezze ogni bene, ogni
- onore, ogni beatitudine stea. Oh menti sciocche, una brieve particella
- d'un'ora separará dal caduco corpo lo spirito, e tutte queste
- vituperevoli fatiche annullerá; e il tempo, nel quale ogni cosa si
- suol consumare, o senza indugio recherá a niente la memoria del ricco,
- o quella per alcuno spazio con gran vergogna di lui serverá! Il che
- del nostro poeta certo non avverrá; anzi, sí come noi veggiamo degli
- strumenti bellici avvenir, che, usandogli, piú chiari diventano
- ognora, cosí il suo nome, quanto piú sará stropicciato dal tempo,
- tanto piú chiaro e piú lucente diventerá.
- XXV
- SPIEGAZIONE DEL SOGNO DELLA MADRE DI DANTE
- Mostrato è sommariamente qual fosser l'origine, gli studi e la vita e'
- costumi, e quali sieno l'opere state dello splendido uomo Dante
- Alighieri, poeta chiarissimo, e con esse alcuna altra cosa, facendo
- transgressione, secondo che conceduto m'ha Colui che d'ogni grazia è
- donatore. Ma la mia fatica non è ancora al suo fine venuta,
- rammemorandomi una particella nel processo promessa, cioè il sogno
- della madre del nostro poeta, quando gravida era in lui, e il
- significato di quello: nel quale se un pochetto mi stendessi, priego
- pazientemente il sófferino i lettori.
- Dico adunque che la madre del nostro poeta, essendo gravida di quella
- gravidezza, della quale esso poi a debito tempo nacque, dormendo, le
- parve nel sonno vedere sé essere al piè d'uno altissimo alloro, allato
- a una chiara fontana, e quivi partorire un figliuolo, il quale le
- pareva il piú pascersi delle bache che dello alloro cadevano, e bere
- disiderosamente dell'acqua di quella fontana; e da questo cibo
- nudrito, le parea che in piccol tempo crescesse e divenisse pastore, e
- nella vista grandissima vaghezza mostrasse d'aver delle frondi di
- quello alloro, le cui bache l'avean nutricato; e, sforzandosi d'aver
- di quelle, avanti che ad esse giunto fosse, le pareva che egli
- cadesse; e, aspettando ella di vederlo levare, non lui, ma in luogo di
- lui le pareva vedere un bellissimo paone esser levato. Dalla qual
- maraviglia la gentil donna commossa, senza piú avanti vedere, ruppe il
- dolce sonno. Né tenne quello, che veduto aveva, nascoso, comeché,
- recitatolo a molti, neuno ne fosse, che quello per quel comprendesse
- che seguir ne dovea. Il che, poi che avvenuto è, piú leggiermente
- conoscer si puote, sí come io appresso mi credo mostrare[_a_].
- [Footnote _a_: Opinione è degli astrolagi e di molti filosofi
- naturali, per la virtú e influenzia de' corpi superiori, gl'inferiori,
- quali che essi si sieno, e producersi e nutricarsi, e ciascheduno,
- secondo la qualitá della virtú infusa, essere piú utile ad alcuna o
- alcune cose che al rimanente dell'altre: il che assai appare negli
- uomini, se le loro attitudini guarderemo. Percioché noi tra molti ne
- vedremo alcuno, che senza dottrina, senza maestro, senza alcuna
- dimostrazione, sospinto solamente da uno istinto naturale, divenire
- ottimo cantatore; e, se quanti fabbri furono mai gli fussono
- d'intorno, non gli potrebbono insegnare tenere un martello in mano,
- non che formare una spada; e, se pure, constretto, o per molta
- consuetudine dell'arte fabbrile alcuna cosa imparasse o facesse, come
- in suo arbitrio sará, al naturale suo intento, cioè al canto, si
- tornerá, se da sé giá per forza della sua libertá non lasciasse il
- canto, e al martello s'attenesse. Cosí alcuno altro nascerá a
- disegnare e a intagliare sí disposto, che ogni piccola dimostrazione
- il fará in ciò in brevissimo tempo sommo maestro, dove in qualunque
- altra leggiera arte fia durissima cosa ad introdurlo. Che andrò io
- della varietá delle singolari disposizioni degli uomini dicendo, se
- non quello che il nostro poeta medesimo ne dice:
- Un ci nasce Solone, ed altro Xerse,
- altri Melchisedech, ed altri quello
- che, volando per l'aere, il figlio perse?
- Appare adunque varie constellazioni a varie cose disporre gli ingegni
- degli uomini; e però, considerato chi fu Dante e quale la sua
- principale affezione, assai bene si conoscerá il cielo nella sua
- nativitá essere disposto a dover producere un poeta. E, perché
- l'alloro, come davanti avemo mostrato, è quello albero, le cui frondi
- testimoniano nella coronazione la facoltá del poeta, meritamente
- possiamo dire, l'alloro dalla donna veduto significare e la
- disposizione del cielo nella nativitá futura di Dante, e la precipua
- affezione e studio di colui che nascere dovea, sí come chiaramente
- n'ha dimostrato quello che appresso la nativitá di Dante è seguito.
- _L'essersi colui_, ecc.]
- Possiamo adunque, riguardando, come di sopra è detto, l'alloro esser
- de' poeti ornamento, per quello dalla donna veduto intendere la
- disposizion celeste esser stata atta, nella concezion di Dante, a
- dover producere un poeta.
- L'essersi colui, che nato era, delle bache che dello alloro cadevano
- nudrito, assai chiaramente dimostra quali dovevano essere gli studi di
- Dante; percioché, sí come il corpo si nutrica e cresce del cibo, cosí
- gl'ingegni degli uomini si nutricano e aumentano degli studi. E le
- bache, che frutto son dell'alloro, non vogliono altro significare che
- i frutti della poesia nati, li quali sono i libri da' poeti composti,
- e da' quali Dante senza dubbio e nutricò e aumentò il suo ingegno.
- Il chiarissimo fonte, del quale pareva alla donna che bevesse il suo
- figliuolo, niuna altra cosa credo che voglia significare se non il
- copioso e abbondantissimo seno della filosofia, del quale, ciò che
- compor si vuole, è di necessitá che si prenda; e, sí come il poto è
- ordinatore e disponitor nello stomaco del cibo preso, cosí la
- filosofia, d'ogni cosa buona maestra verissima, con la sua dottrina è
- ottima componitrice d'ogni cosa a debito fine. Nelle cui scuole, come
- di sopra mostrammo, accioché sé e le sue invenzioni ordinare sapesse,
- e intender compiutamente l'altrui, il nostro poeta bevve piú tempo
- digestivo e salutevole beveraggio.
- Appresso il parere pastor divenuto, la sublimitá del suo ingegno ne
- mostra, per la quale in brieve tempo divenne tanto e tale, che non
- solamente bastevole fu a governar sé, ma eziandio a mostrare agli
- altri ingegni la sua dottrina. Sono, al mio giudicio, di pastori due
- maniere: corporali e spirituali [_a_]. I corporali sono i pastor
- silvani, li re e' padri delle famiglie; li spirituali
- [Footnote _a_: Li corporali similmente sono di due qualitá, l'una
- delle quali sono quegli che, per le selve e per gli prati, le pecore,
- gli buoi e gli altri armenti pascendo menano; l'altra sono
- gl'imperadori, i re, i padri delle famiglie, i quali con giustizia e
- in pace hanno a conservare i popoli loro commessi, e a trovare onde
- vengano a' tempi opportuni i cibi a' sudditi e a' figliuoli. Li
- spirituali pastori similmente dire si possono di due maniere: delle
- quali è l'una quella di coloro che pascono l'anime de' viventi di cibo
- spirituale, cioè della parola di Dio, e questi sono i prelati, i
- predicatori e i sacerdoti, nella cui custodia sono commesse l'anime
- labili di qualunque sotto il governo a ciascuno ordinato dimora;
- l'altra è quella di coloro, li quali in alcuna scienzia ammaestrati
- prima, poi ammaestrano altrui leggendo o componendo. E di questa
- maniera di pastori vide la madre il suo figliuolo divenuto. Lo
- sforzarsi ad aver delle frondi assai manifesto ne mostra essere il
- desiderio della laureazione, peroché ogni fatica aspetta premio, e il
- premio dello avere alcuna cosa poetica composta, è l'onore che per la
- corona dello alloro si riceve. Ma séguita che cadere il vide, quando
- piú a ciò si sforzava; il quale cadere niuna altra cosa fu se non quel
- cadimento che tutti facciamo senza levarci, cioè il morire: il che a
- lui avvenne quando giá avea finito quello per che meritamente la
- laureazione gli seguiva. Seguentemente dicea che in luogo di lui vide
- levarsi un paone; ove intender si dee che, dopo alla morte di
- ciascuno, a servare il nome suo appo i futuri surgono l'opere sue. E
- perciò in luogo d'Alessandro macedonico, di Iuda Maccabeo, di Scipione
- Affricano, abbiamo le loro vittorie e l'altre magnifiche opere; in
- luogo d'Aristotile, di Solone e di Virgilio, abbiamo i loro libri, le
- loro composizioni, eterne conservatrici de' nomi e della presenzia
- loro nel cospetto di que' che vivono; e cosí _in luogo di Dante_ ecc.]
- sono i prelati e' sacerdoti e similmente i dottori, in qualunque
- facultá de' quali il nostro Dante fu uno.
- Lo sforzarsi ad aver delle frondi assai manifestamente ne mostra
- essere stato il disiderio della laureazione, nel quale mentre si
- faticava cadde, cioè morí.
- E vide la madre in luogo di lui levarsi un paone: per che intender si
- dee che, dopo alla morte di ciascuno, a servare il nome suo appo i
- futuri surgono l'opere sue. Laonde in luogo di Dante abbiamo la sua
- _Comedia_, la quale ottimamente si può conformare ad un paone. Il
- paone, secondo che comprendere si può, ha queste proprietá: che la sua
- carne è odorifera e incorruttibile; la sua penna è angelica, e in
- quella ha cento occhi; li suoi piedi sono sozzi, e tacita l'andatura;
- e, oltre a ciò, ha sonora e orribile voce: le quali cose con la
- _Comedia_ del nostro poeta ottimamente si convengono.
- Dico adunque primieramente che, cercando in assai parti lo intrinseco
- senso della _Comedia_, e in assai lo intrinseco e lo estrinseco, si
- troverá essere semplice e immutabile veritá, non di gentilizio puzzo
- spiacevole, ma odorifera di cristiana soavitá, e in niuna cosa dalla
- religione di quella scordante.
- Dissi, appresso, il paone avere angelica penna, e in quella cento
- occhi. Certo io non vidi mai alcuno angelo; ma, udendo che voli,
- estimo che penne aver debba; e, non sappiendone alcuna fra questi
- nostri uccelli piú bella né cosí peregrina, considerata la nobiltá di
- loro, imagino che cosí la debbiano aver fatta, e però non da queste le
- loro, ma queste da quelle dinomino; e intendo per quelle, delle quali
- questo paon si cuopre, la bellezza della peregrina istoria che appare
- nella lettera della _Comedia_; e il cambiare del color di quella,
- secondo i vari mutamenti di questo uccello, niuna altra cosa esser
- sento, se non la varietá de' sensi che a quella in una maniera e in
- altra, leggendola, si posson dare. E i cento occhi, chi non intenderá
- i cento canti di quella, ne' quali ella cosí è ordinata e distinta e
- ornata, come ne' lor luoghi distinti mirabilmente gli occhi si veggono
- nel paone?
- Sono e al paone i piè sozzi e l'andatura queta: le quali cose
- ottimamente alla _Comedia_ del nostro autor si confanno; percioché, sí
- come sopra i piedi pare che tutto il corpo si sostenga, cosí _prima
- facie_ pare che sopra il modo del parlare ogni opera in iscrittura
- composta si sostenga; e il parlare volgare, nel quale e sopra il quale
- ogni giuntura della _Comedia_ si sostiene, a rispetto dell'alto e
- maestrevole stilo letterale che usa ciascuno altro poeta, è senza
- dubbio sozzo. L'andar quieto e tacito significa l'umiltá dello stilo,
- il quale nelle comedie di necessitá si richiede, come color sanno che
- intendon che vuol dir «comedia».
- Ultimamente dico che la voce del paone è sonora e orribile; la quale,
- comeché la soavitá delle parole del nostro poeta paia e sia molta,
- nondimeno chi bene in alcune parti riguarderá, ottimamente conoscerá
- confarsi con la voce della _Comedia_, e massimamente dove con
- acerbissime invezioni grida ne' vizi d'alcuni, oppur, distesamente
- procedendo, d'alcuni altri morde le colpe o gastiga i miseri
- peccatori. E niuna è piú orrida voce di quella del gastigante, e
- massimamente a colui che ha commesso o a colui che, a mandare i suoi
- appetiti ad effetto, schifa l'ostacolo del riprensore. Per la qual
- cosa e per l'altre di sopra mostrate assai appare, colui che fu,
- vivendo, pastore, dopo la morte esser divenuto paone, sí come creder
- si puote essere stato per divina spirazione nel sonno mostrato alla
- cara madre[_a_].
- [Footnote _a_: Questa esposizione del sogno della madre del nostro
- poeta conosco essere assai superficialmente per me fatta; e questo per
- piú cagioni. Primieramente, perché per avventura la sufficienzia, che
- a tanta cosa si richiederebbe, non c'era; appresso, posto che stata ci
- fosse, piú tosto altro luogo per sé richiedeva che questo, ad altra
- materia congiunta; ultimamente, quando la sufficienzia ci fosse stata,
- e la materia l'avesse patito, era ben fatto, piú che detto sia, non
- essere detto da me, accioché ad altrui piú di me sufficiente e piú
- vago di ciò alcun luogo si lasciasse di dire. _La mia picciola barca_,
- ecc.]
- XXVI
- CONCLUSIONE
- La mia picciola barca è pervenuta al porto, al quale ella drizzò la
- proda partendosi dallo apposito lito; e, comeché il peleggio sia stato
- piccolo e il mare basso e tranquillo, nondimeno, di ciò che senza
- impedimento è venuta, ne sono da render grazie a Colui che felice
- vento ha prestato alle sue vele. Al Quale con quella umiltá e
- divozione che io posso maggiore, non cosí grandi come si converrieno,
- ma quelle che io posso, rendo, benedicendo in eterno il nome suo.
- III
- COMENTO ALLA «DIVINA COMMEDIA»
- PROEMIO
- [Lez. I]
- «Nel mezzo del cammin di nostra vita», ecc. La nostra umanitá,
- quantunque di molti privilegi dal nostro Creatore nobilitata sia,
- nondimeno di sua natura è sí debile, che cosa alcuna, quantunque
- menoma sia, fare non può né bene né compiutamente, senza la divina
- grazia. La qual cosa gli antichi valenti uomini e' moderni
- considerando, a quella supplicemente addomandare e con ogni divozione
- a nostro potere impetrare, almeno ne' princípi d'ogni nostra
- operazione, pietosamente e con paterna affezione ne confortano. Alla
- qual cosa dee ciascuno senza alcuna difficultá divenire, leggendo
- quello che ne scrive Platone, uomo di celestiale ingegno, nel fine del
- prologo del suo _Timeo_, per sé dicendo: «_Nam cum omnibus mos sit et
- quasi quaedam religio, qui vel de maximis rebus, vel de minimis
- aliquid acturi sunt, precari divinitatem ad auxilium; quanto nos
- aequius est, qui universitatis naturae substantiaeque rationem
- praestaturi sumus, invocare divinam opem, nisi plane quodam saevo
- furore atque implacabili raptemur amentia?_». E, se Platone confessa
- sé, piú che alcun altro, avere del divino aiuto bisogno, io che debbo
- di me presumere, conoscendo il mio intelletto tardo, lo 'ngegno
- piccolo e la memoria labile? E spezialmente, sottentrando a peso molto
- maggiore che a' miei ómeri si convegna, cioè a spiegare l'artificioso
- testo, la moltitudine delle storie, e la sublimitá de' sensi nascosi
- sotto il poetico velo della _Commedia_ del nostro Dante; e
- massimamente ad uomini d'alto intendimento e di mirabile perspicacitá,
- come universalmente solete esser voi, signori fiorentini: certo, oltre
- ogni considerazione umana, debbo credere abbisognarmi. Adunque,
- accioché quello che io debbo dire sia onore e gloria dell'altissimo
- nome di Dio, e consolazione e utilitá degli auditori, intendo, avanti
- che io piú oltre proceda, quanto piú umilmente posso, ricorrere ad
- invocare il suo aiuto; molto piú della sua benignitá fidandomi che
- d'alcuno mio merito. E, impercioché di materia poetica parlar dovemo,
- poeticamente quello invocherò con Anchise troiano, dicendo que' versi
- che nel secondo del suo _Eneida_ scrive Virgilio:
- _Iupiter omnipotens, precibus si flecteris ullis,
- aspice nos: hoc tantum: et, si pietate meremur,
- da deinde auxilium, pater,_ ecc.
- [Invocata adunque la divina clemenzia che alla presente fatica ne
- presti della sua grazia, avanti che alla lettera del testo si venga,
- estimo sieno da vedere tre cose, le quali generalmente si soglion
- cercare ne' princípi di ciascuna cosa che appartenga a dottrina: la
- primiera è di mostrare quante e quali sieno le cause di questo libro;
- la seconda, qual sia il titolo del libro; la terza, a qual parte di
- filosofia sia il presente libro supposto.]
- [Le cause di questo libro son quattro: la materiale, la formale, la
- efficiente e la finale. La materiale è, nella presente opera, doppia,
- cosí come è doppio il suggetto, il quale è colla materia una medesima
- cosa; percioché altro suggetto è quello del senso letterale, e altro
- quello del senso allegorico, li quali nel presente libro amenduni
- sono, sí come manifestamente apparirá nel processo. È adunque il
- suggetto secondo il senso letterale: lo stato dell'anime dopo la morte
- de' corpi semplicemente preso; percioché di quello, e intorno a
- quello, tutto il processo della presente opera intende. Il suggetto
- secondo il senso allegorico è: come l'uomo, per lo libero arbitrio
- meritando e dismeritando, è alla giustizia di guiderdonare e di punire
- obbligato. La causa formale è similmente doppia, percioch'egli è la
- forma del trattato e la forma del trattare. La forma del trattato è
- divisa in tre, secondo la triplice divisione del libro. La prima
- divisione è quella secondo la quale tutta l'opera si divide, cioè in
- tre cantiche; la seconda divisione è quella secondo la quale ciascuna
- delle tre cantiche si divide in canti; la terza divisione è quella
- secondo la quale ciascun canto si divide in rittimi. La forma, o vero
- il modo del trattare, è poetico, fittivo, discrittivo, digressivo e
- transuntivo; e con questo, difinitivo, divisivo, probativo,
- reprobativo e positivo d'esempli. La causa efficiente è esso medesimo
- autore Dante Alighieri, del quale piú distesamente diremo appresso,
- dove del titolo del libro parleremo. La causa finale della presente
- opera è: rimuovere quegli che nella presente vita vivono, dallo stato
- della miseria, allo stato della felicitá.]
- [La seconda cosa principale, che è da vedere, è qual sia il titolo del
- presente libro, il quale secondo alcuni è questo: «Incomincia la
- _Commedia_ di Dante Alighieri fiorentino»; alcun altro, seguendo piú
- la 'ntenzione dell'autore, dice il titolo essere questo: «Incominciano
- le cantiche della _Commedia_ di Dante Alighieri fiorentino». La quale,
- percioché, come detto è, è in tre parti divisa, dice il titolo di
- questa prima parte essere: «Incomincia la prima cantica delle cantiche
- della _Commedia_ di Dante Alighieri»; volendo per questa mostrare
- dovere il titolo di tutta l'opera essere: «Cominciano le cantiche
- della Commedia di Dante» ecc., come detto è.]
- [Ma, perché questo poco resulta, il lasceremo nell'albitrio degli
- scrittori, e verremo a quello per che all'autore dové parere di
- doverlo cosí intitolare, dicendo la cagione del titolo secondo,
- percioché in quello si conterrá la cagione del primo, il quale quasi
- da tutti è usitato. E ad evidenzia di questo, secondo il mio giudicio,
- è da sapere, sí come i musici ogni loro artificio formano sopra certe
- dimensioni di tempi lunghe e brievi, e acute e gravi, e della varietá
- di queste, con debita e misurata proporzione congiunta, e quello poi
- appellano «canto»; cosí i poeti, non solamente quelli che in latino
- scrivono, ma eziandio coloro che, come il nostro autore fa,
- volgarmente dettano: componendo i lor versi, secondo la diversa
- qualitá d'essi, di certo e diterminato numero di piedi, intra se
- medesimi, dopo certa e limitata quantitá di parole, consonanti: sí
- come nel presente trattato veggiamo che, essendo tutti i rittimi
- d'equal numero di sillabe, sempre il terzo piè nella sua fine è
- consonante alla fine del primo, che in quella consonanza finisce. Per
- che pare che a questi cotali versi, o opere composte per versi, quello
- nome si convenga che i musici alle loro invenzioni dánno, come davanti
- dicemmo, cioè «canti», e per conseguente quella opera, che di molti
- canti è composta, doversi «cantica» appellare, cioè cosa in sé
- contenente piú canti.]
- [Appresso si dimostra nel titolo questo libro essere appellato
- «commedia». A notizia della qual cosa è da sapere che le poetiche
- narrazioni sono di piú e varie maniere, sí come è tragedia, satira e
- commedia, buccolica, elegia, lirica ed altre. Ma, volendo di quella
- sola, che al presente titolo appartiene, vedere, vogliono alcuni mal
- convenirsi a questo libro questo titolo, argomentando primieramente
- dal significato del vocabolo, e appresso dal modo del trattare de'
- comici, il quale pare molto essere differente da quello che l'autore
- serva in questo libro. Dicono adunque primieramente mal convenirsi le
- cose cantate in questo libro col significato del vocabolo; percioché
- «commedia» vuol tanto dire quanto canto di villa, composto da
- «_comos,_», che in latino viene a dire «villa», e «_odos_», che viene
- a dire «canto»; e i canti villeschi, come noi sappiamo, sono di basse
- materie, sí come di loro quistioni intorno al cultivar della terra, o
- conservazione di lor bestiame, o di lor bassi e rozzi innamoramenti e
- costumi rurali: a' quali in alcuno atto non sono conformi le cose
- narrate in alcuna parte della presente opera; ma sono di persone
- eccellenti, di singulari e notabili operazioni degli uomini viziosi e
- virtuosi, degli effetti della penitenza, de' costumi degli angeli e
- della divina essenza. Oltre a questo, lo stilo comico è umile e
- rimesso, accioché alla materia sia conforme; quello che della presente
- opera dir non si può; percioché, quantunque in volgare scritto sia,
- nel quale pare che comunichino le femminette, egli è nondimeno ornato
- e leggiadro e sublime; delle quali cose nulla sente il volgar delle
- femmine. Non dico però che, se in versi latini fosse, non mutato il
- peso delle parole volgari, ch'egli non fosse molto piú artificioso e
- piú sublime, percioché molto piú d'arte e di gravitá ha nel parlar
- latino che nel materno.]
- [E appresso, dell'arte spettante al commedo;] mai nella commedia non
- introducere se medesimo in alcun atto a parlare, ma sempre a varie
- persone, che in diversi luoghi e tempi e per diverse cagioni deduce a
- parlare insieme, fa ragionare quello che crede che appartenga al tema
- impreso della commedia: dove in questo libro, lasciato l'artificio del
- commedo, l'autore spessissime volte, e quasi sempre, or di sé or
- d'altrui ragionando favella. Similmente nelle commedie non s'usano
- comparazioni né recitazioni d'altre istorie che di quelle che al tema
- assunto appartengono; dove in questo libro si pongono comparazioni
- infinite, e assai istorie si raccontano, che dirittamente non fanno al
- principale intento. Sono ancora le cose, che nelle commedie si
- raccontano, cose che per avventura mai non furono, quantunque non
- sieno sí strane da' costumi degli uomini che essere state non possano:
- la sustanziale istoria del presente libro, dello essere dannati i
- peccatori, che ne' lor peccati muoiono, a perpetua pena, e quegli, che
- nella grazia di Dio trapassano, essere elevati all'eterna gloria, è,
- secondo la cattolica fede, vera e santa sempre. Chiamano, oltre a
- tutto questo, i commedi le parti intra sé distinte delle lor commedie
- «scene»; percioché, recitando li commedi quelle nel luogo detto
- «scena», nel mezzo del teatro, quante volte introducevano varie
- persone a ragionare, tante della scena uscivano i mimi trasformati da
- quelli che prima avevano parlato e fatto alcun atto, e in forma di
- quegli che parlar doveano, venivano davanti al popolo riguardante e
- ascoltante il commedo che recitava: dove il nostro autore chiama
- «canti» le parti della sua _Commedia_. E cosí, accioché fine pognamo
- agli argomenti, pare, come di sopra è detto, non convenirsi a questo
- libro nome di «commedia». Né si può dire non essere stato della mente
- dell'autore che questo libro non si chiamasse «commedia», come
- talvolta ad alcuno di alcuna sua opera è avvenuto; conciosiacosaché
- esso medesimo nel ventunesimo canto di questa prima cantica il chiami
- commedia, dicendo: «Cosí di ponte in ponte altro parlando, Che la mia
- commedia cantar non cura», ecc. Che adunque diremo alle obiezioni
- fatte? Credo, conciosiacosaché oculatissimo uomo fosse l'autore, lui
- non avere avuto riguardo alle parti che nelle commedie si contengono,
- ma al tutto, e da quello avere il suo libro dinominato,
- figurativamente parlando. Il tutto della commedia è (per quello che
- per Plauto e per Terenzio, che furono poeti comici, si può
- comprendere): che la commedia abbia turbolento principio e pieno di
- romori e di discordie, e poi l'ultima parte di quella finisca in pace
- e in tranquillitá. Al qual tutto è ottimamente conforme il libro
- presente: percioché egli incomincia da' dolori e dalle turbazioni
- infernali, e finisce nel riposo e nella pace e nella gloria, la quale
- hanno i beati in vita eterna. E questo dee poter bastare a fare che
- cosí fatto nome si possa di ragion convenire a questo libro.
- [Resta a vedere chi fosse l'autore di questo libro: la qual cosa non
- pure in questo libro, ma in ciascun altro pare di necessitá di doversi
- sapere; e questo, accioché noi non prestiamo stoltamente fede a chi
- non la merita, conciosiacosaché noi leggiamo: «_Qui misere credit,
- creditur esse miser_». E qual cosa è piú misera che credere al
- patricida dell'umana pietá, al libidinoso della castitá, o all'eretico
- della fede cattolica? Rade volte avviene che l'uomo contro alla sua
- professione favelli. Voglionsi adunque esaminare la vita, e' costumi e
- gli studi degli uomini, accioché noi cognosciamo quanta fede sia da
- prestare alle loro parole.]
- [Fu adunque l'autore del presente libro, sí come il titolo ne
- testimonia, Dante Alighieri, per ischiatta nobile uomo della nostra
- cittá; e la sua vita non fu uniforme, ma, da varie mutazioni
- infestata, spesse volte in nuove qualitá di studi si permutò, della
- qual non si può convenevolmente parlare che con essa non si ragioni
- de' suoi studi. E però egli primieramente dalla sua puerizia nella
- patria si diede agli studi liberali, e in quegli maravigliosamente
- s'avanzò; percioché, oltre alla prima arte, fu, secondo che appresso
- si dirá, maraviglioso loico, e seppe retorica, sí come nelle sue opere
- appare assai bene; e, percioché nella presente opera appare lui essere
- stato astrolago, e quello esser non si può senza arismetrica e
- geometria, estimo lui similemente in queste arti essere stato
- ammaestrato. Ragionasi similmente lui nella sua giovanezza avere udita
- filosofia morale in Firenze, e quella maravigliosamente bene avere
- saputa: la qual cosa egli non volle che nascosa fosse nell'undicesimo
- canto di questo trattato, dove si fa dire a Virgilio: «Non ti rimembra
- di quelle parole, Con le qua' la tua Etica pertratta», ecc., quasi
- voglia per questa s'intenda la filosofia morale in singularitá essere
- stata a lui familiarissima e nota. Similemente udí in quella gli
- autori poetici, e studiò gli storiografi, e ancora vi prese altissimi
- princípi nella filosofia naturale, sí come esso vuole che si senta per
- li ragionamenti suoi in questa opera avuti con ser Brunetto Latino, il
- quale in quella scienza fu reputato solennissimo uomo. Né fu,
- quantunque a questi studi attendesse, senza grandissimi stimoli,
- datigli da quella passione, la qual noi generalmente chiamiamo
- «amore»: e similmente dalla sollecitudine presa degli onori publici,
- a' quali ardentemente attese, infino al tempo che, per paura di
- peggio, andando le cose traverse a lui e a quegli che quella setta
- seguivano, convenne partir di Firenze. Dopo la qual partita, avendo
- alquanti anni circuita Italia, credendosi trovar modo a ritornare
- nella patria, e di ciò avendo la speranza perduta, se n'andò a Parigi,
- e quivi ad udire filosofia naturale e teologia si diede; nelle quali
- in poco tempo s'avanzò tanto, che fatti e una e altra volta certi atti
- scolastici, sí come sermonare, leggere e disputare, meritò grandissime
- laude da' valenti uomini. Poi in Italia tornatosi, e in Ravenna
- riduttosi, avendo giá il cinquantesimosesto anno della sua etá
- compiuto, come cattolico cristiano fece fine alla sua vita e alle sue
- fatiche, dove onorevolmente fu appo la chiesa de' frati minori
- seppellito, senza aver preso alcun titolo o onore di maestrato, sí
- come colui che attendeva di prendere la laurea nella sua cittá,
- com'esso medesimo testimonia nel principio del canto venticinquesimo
- del _Paradiso_. Ma al suo disiderio prevenne la morte, come detto è. I
- suoi costumi furono gravi e pesati assai, e quasi laudevoli tutti; ma,
- percioché giá delle predette cose scrissi in sua laude un trattatello,
- non curo al presente di piú distenderle. Le quali cose se con sana
- mente riguardate saranno, mi pare esser certo che assai dicevole
- testimonio sará reputato e degno di fede, in qualunque materia è stata
- nella sua _Commedia_ da lui recitata.]
- [Ma del suo nome resta alcuna cosa da recitare, e pria del suo
- significato, il quale assai per se medesimo si dimostra; percioché
- ciascuna persona, la quale con liberale animo dona di quelle cose, le
- quali egli ha di grazia ricevute da Dio, puote essere meritamente
- appellato Dante. E che costui ne desse volentieri, l'effetto nol
- nasconde. Esso, a tutti coloro che prender ne vorranno, ha messo
- davanti questo suo singulare e caro tesoro, nel quale parimente onesto
- diletto e salutevole utilitá si trova da ciascuno che non caritevole
- ingegno cercare ne vuole. E, percioché questo gli parve
- eccellentissimo dono, sí per la ragion detta, e sí perché con molta
- sua fatica, con lunghe vigilie e con istudio continuo l'acquistò, non
- parve a lui dovere essere contento che questo nome da' suoi parenti
- gli fosse imposto casualmente, come molti ciascun dí se ne pongono;
- per dimostrar quello essergli per disposizion celeste imposto, a due
- eccellentissime persone in questo suo libro si fa nominare; delle
- quali la prima è Beatrice, la quale apparendogli in sul triunfale
- carro del celestiale esercito in su la suprema altezza del monte di
- purgatorio, intende essere la sacra teologia, dalla quale si dee
- credere ogni divino misterio essere inteso, e con gli altri insieme
- questo, cioè che egli per divina disposizione chiamato sia Dante. A
- confermazione di ciò, si fa a lei Dante appellare in quella parte del
- trentesimo canto del _Purgatorio_, nel quale essa, parlandogli, gli
- dice: «Dante, perché Virgilio se ne vada»: quasi voglia s'intenda, se
- ella di questo nome non lo avesse conosciuto degno, o non l'avrebbe
- nominato, o avrebbelo per altro nome chiamato. Oltre a ciò,
- soggiugnendo, per la ragion giá detta, in quello luogo di necessitá
- registrarsi il nome suo, e questo ancora, accioché paia lui a tal
- termine della teologia esser pervenuto che, essendo Dante, possa senza
- Virgilio, cioè senza la poesia, o vogliam dire senza la ragione delle
- terrene cose, valere alle divine. L'altra persona, alla quale nominar
- si fa, è Adamo nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di
- nominare tutte le cose create; e, perché si crede lui averle
- degnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare
- che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza di
- Adamo. La qual cosa fa nel canto ventiseesimo del _Paradiso_, lá dove
- Adamo gli dice: «Dante, la voglia tua discerno meglio» ecc. E questo
- basti intorno al titolo avere scritto.]
- [La terza cosa principale, la qual dissi essere da investigare, è a
- qual parte di filosofia sia sottoposto il presente libro; il quale,
- secondo il mio giudizio, è sottoposto alla parte morale, ovvero etica:
- percioché, quantunque in alcun passo si tratti per modo speculativo,
- non è perciò per cagione di speculazione ciò posto, ma per cagion
- dell'opera, la quale quivi ha quel modo richiesto di trattare.]
- [Espedite le tre cose sopra dette, è da vedere della rubrica
- particolare che segue, cioè: «Incomincia il primo canto dello
- _'Nferno_». Ma avanti che io piú oltre proceda, considerando la
- varietá e la moltitudine delle materie che nella presente lettura
- sopravverranno, il mio poco ingegno e la debolezza della mia memoria,
- intendo che, se alcuna cosa meno avvedutamente o per ignoranza mi
- venisse detta, la qual fosse meno che conforme alla cattolica veritá,
- che per non detta sia, e da ora la rivoco, e alla emendazione della
- santa Chiesa me ne sommetto.]
- [Dice adunque la nostra rubrica: «Incomincia il primo canto dello
- _'Nferno_»: intorno alla quale è da vedere s'egli è inferno, e s'el
- n'è piú che uno, e in qual parte del mondo sia, onde si vada in esso,
- qual sia la forma di quello, a che serva, e se per altro nome si
- chiama che «inferno». E primieramente dico ch'egli è inferno: il che
- per molte autoritá della Scrittura si pruova, e primieramente per
- Isaia, il quale dice: «_Dilatavit_ _infernus animam suam, et aperuit
- os suum absque ullo termino_»; e Vergilio nel sesto dell'_Eneida_
- dice: «_Inferni ianua regis_»; e Iob: «_In profundissimum infernum
- descendet anima mea_». Per le quali autoritá appare essere inferno.]
- [Appresso si domandava s'egli n'era piú d'uno. Appare per lo senso
- della Scrittura sacra che ne sieno tre, de' quali i santi chiamano
- l'uno superiore, e il secondo mezzano, e il terzo inferiore; vogliendo
- che il superiore sia nella vita presente, piena di pene, di angosce e
- di peccati. E di questo parlando, dice il salmista: «_Circumdederunt
- me dolores mortis, et pericula inferni invenerunt me_»; e in altra
- parte dice: «_Descendant in infernum viventes_»; quasi voglia dire
- «nelle miserie della presente vita».]
- [E di questo inferno sentono i poeti co' santi, fingendo questo
- inferno essere nel cuore de' mortali; e, in ciò dilatando la fizione,
- dicono a questo inferno essere un portinaio, e questo dicono essere
- Cerbero infernal cane, il quale è interpretato divoratore: sentendo
- per lui la insaziabilitá de' nostri disidèri, li quali saziare né
- empiere non si possono. E l'uficio di questo cane non è di vietare
- l'entrata ad alcuno, ma di guardare che alcuno dello 'nferno non esca;
- volendo per questo che lá dove entra la cupiditá delle ricchezze,
- degli stati, de' diletti e dell'altre cose terrene, ella o non n'esce
- mai, o con difficultá se ne trae; sí come essi mostrano, fingendo
- questo cane essere stato tratto da Ercule dello 'nferno, cioè questa
- insaziabilitá de' disidèri terreni esser dal virtuoso uomo tratta
- fuori del cuore di quel cotale virtuoso. Appresso dicono in questo
- inferno essere Carone nocchiero e il fiume d'Acheronte: e per
- Acheronte sentono la labile e flussa condizione delle cose disiderate
- e la miseria di questo mondo; e per Carone intendono il tempo, il
- quale per vari spazi le nostre volontá e le nostre speranze d'un
- termine trasporta in un altro, o voglian dire che, secondo i vari
- tempi, varie cose che muovono gli appetiti essere al cuore
- trasportate. Dicono, oltre a ciò, sedere in questo inferno Minos, Eaco
- e Radamanto, giudici e sentenziatori delle colpe dell'anime che in
- quello inferno vanno; e a costoro questo uficio attribuiscono,
- percioché grandissimi legisti furono e giusti uomini: per loro
- intendendo la coscienza di ciascuno, la quale, sedendo nella nostra
- mente, è prima e avveduta giudicatrice delle nostre operazioni, e di
- quelle col morso suo ci affligge e tormenta. E appresso, a quali pene
- ella condanna i peccatori, in alquanti tormentati disegnano.]
- [Dicono quivi essere Tantalo, re di Frigia, il quale, percioché pose
- il figliuolo per cibo davanti agl'iddii, in un fiume e tra grande
- abbondanza di pomi, di fame e di sete morire; sentendo per costui la
- qualitá dell'avaro, il quale, per non diminuire l'acquistato, non
- ardisce toccarne, e cosí in cose assai patisce disagio, potendosene
- adagiare. E senza fallo sono quello che Tantalo è interpretato secondo
- Fulgezio, cioè «volente visione»; percioché gli avari alcuna cosa non
- vogliono de' loro tesori se non vedergli.]
- [Fingono ancora in quello essere Isione, il quale, percioché essendo,
- secondo che alcuni vogliono, segretario di Giove e di Giunone,
- richiese Giunone di voler giacer con lei; la quale in forma di sè gli
- pose innanzi una nuvola, con la quale giacendo, d'essa ingenerò i
- centauri; e Giove il dannò a questa pena in inferno, che egli fosse
- legato con serpenti a' raggi d'una ruota, la quale mai non ristesse di
- volgersi: volendo per questo che per Isione s'intendano coloro li
- quali sono disiderosi di signoria, e per forza alcuna tirannia
- occupano, la quale ha sembianza di regno, che per Giunone s'intende; e
- di questa tirannia sopravvegnendo i sospetti, nascono i centauri, cioè
- gli uomini dell'arme, co' quali i tiranni tengono le signorie contro
- a' piaceri de' popoli: ed hanno i tiranni questa pena, che sono sempre
- in revoluzioni; e, se non sono, par loro essere, con occulte
- sollicitudini: le quali afflizioni per la ruota volubile e per le
- serpi s'intendono.]
- [Oltre a questi, vi discrivono Tizio: percioché disonestamente
- richiese Latona, dicono lui da Apollo essere stato allo 'nferno
- dannato a dovergli sempre essere il fegato beccato da avvoltoi, e
- quello, come consumato è, rinascere intero; per costui sentendo quegli
- che d'alto e splendido luogo sono gittati in basso stato, li quali
- sempre sono infestati da mordacissimi pensieri, intenti come tornar
- possano lá onde caduti sono; né prima dall'una sollicitudine sono
- lasciati, che essi sono rientrati nell'altra; e cosí senza requie
- s'affliggono.]
- [Pongonvi ancora le figliuole di Danao, e dicono, per l'avere esse
- uccisi i mariti, esser dannate ad empier d'acqua certi vasi senza
- fondo; per la qual cosa, sempre attignendo, si faticano invano:
- volendo per questo dimostrare la stoltizia delle femmine, le quali,
- avendosi la ragion sottomessa (la quale dee essere lor capo e lor
- guida, come è il marito) intendono con loro artifici far quello che
- giudicano non aver fatto la natura, cioè, lisciandosi e dipignendosi,
- farsi belle; di che segue le piú volte il contrario, e perciò è la lor
- fatica perduta. O voglian dire sentirsi per queste la effeminata
- sciocchezza di molti, li quali, mentre stimano con continuato coito
- sodisfare all'altrui libidine, sé vòtano ed altrui non riempiono. Ma,
- accioché io non vada per tutte le pene in quello discritte, che
- sarebbono molte, dico che questo del superiore inferno sentirono i
- poeti gentili.]
- [Il secondo inferno, dissi, chiamavano mezzano, sentendo quello essere
- vicino alla superficie della terra, il qual noi volgarmente chiamiamo
- limbo, e la santa Scrittura talvolta il chiama il seno d'Abraam: e
- questo vogliono esser separato da' luoghi penali, vogliendo in esso
- essere istati i giusti antichi aspettanti la venuta di Cristo. E di
- questo mostra il nostro autore sentire, dove pon quegli o che non
- peccarono o che, bene adoperando, morirono senza battesimo. Ma questo
- è differente da quello de' santi, in quanto quegli che v'erano,
- disideravano e speravano, e venne la loro salute, e quegli, che
- l'autor pone, disiderano, ma non isperano.]
- [Estimarono ancora essere un inferno inferiore, e quello esser luogo
- di pene eterne date a' dannati. E di questo dice il Vangelo: «_Mortuus
- est dives, et sepultus est in inferno_». Ed il salmista: «_In inferno
- autem quis confitebitur tibi?_». E che questo sia, si legge nel
- Vangelio, in quella parte ove il ricco seppellito in inferno, vedendo
- sopra sé Lazzaro nel grembo d'Abraam, il priega che intinga il dito
- minimo nell'acqua, e gittandogliele in bocca, il rifrigeri alquanto. E
- di questo inferno tratta similmente il nostro autore dal quinto canto
- in giú.]
- [Domandavasi appresso, dove sia l'entrata ad andare in questo inferno;
- conciosiacosaché l'autore quella, nel principio del terzo canto,
- scrivendo, dove ella sia in alcuna parte non mostra: della qual cosa
- appo gli antichi non è una medesima oppenione. Omero, il quale pare
- essere de' piú antichi poeti che di ciò menzione faccia, scrive nel
- libro undicesimo della sua _Odissea_, Ulisse per mare essere stato
- mandato da Circe in oceano per dovere in inferno discendere a sapere
- da Tiresia tebano i suoi futuri accidenti; e quivi dice lui essere
- pervenuto appo certi popoli, li quali chiama scizi, dove alcuna luce
- di sole mai non appare, e quivi avere lo 'nferno trovato. Virgilio, il
- quale in molte cose il séguita, in questo discorda da lui, scrivendo
- nel sesto del suo _Eneida_ l'entrata dello 'nferno essere appo il lago
- d'Averno tra la cittá di Pozzuolo e Baia, dicendo:
- _Spelunca alta fuit vastoque immanis hiatu,
- scrupea, tuta lacu nigro nemorumque tenebris;
- quam super haud ullae poterant impune volantes
- tendere iter pennis: talis sese halitus atris
- faucibus effundens supera ad convexa ferebat:
- unde locum Graii dixerunt nomine Avernum,_ ecc.
- E per questa spelunca scrive essere disceso Enea appresso la Sibilla
- in inferno. Stazio, nel primo del suo _Thebaidos_, dice questo luogo
- essere in una isola non guari lontana da quella estremitá d'Acaia, la
- quale è piú propinqua all'isola di Creti, chiamata «_Traenaron_»: e di
- quindi dice essere, a' tempi d'Edipo re di Tebe, d'inferno venuta nel
- mondo Tesifone, pregata da lui a mettere discordia tra Etiocle e
- Pollinice, suoi figliuoli, cosí scrivendo:
- ......._illa per umbras,
- et caligantes animarum examine campos
- Traenareae limen petit irremeabile portae,_ ecc.
- E con costui mostra d'accordarsi Seneca tragedo, _in tragoedia
- Herculis furentis_, dove dice Cerbero infernal cane essere stato
- tratto d'inferno da Ercule e da Teseo per la spelunca di Trenaro,
- dicendo cosí:
- _Postquam est ad oras Traenari ventum, et nitor
- percussit oculos lucis,_ ecc.
- Pomponio Mela, nel primo libro della sua _Cosmografia_, dice questo
- luogo essere appo i popoli, li quali abitano vicini all'entrata nel
- mare maggiore, scrivendo in questa forma: «_In eo primum Mariatidinei
- urbem habitant, ab Argivo, ut ferunt, Hercule datam, Heraclea
- vocitatur. Id famae fidem adiecit: iuxta specus est Acherusia, ad
- manes, ut aiunt, pervius; atque inde extractum Cerberum existimant_»,
- ecc. Altri dicono di Mongibello, e di Vulcano e di simili, quello
- affermando con favole non assai convenienti alle femminelle.]
- [La forma di questo inferno, parlando di lui come di cosa materiale,
- discrive l'autore essere a guisa d'un corno il quale diritto fosse, e
- di questo fermarsi la punta in sul centro della terra, e la bocca di
- sopra venire vicina alla superficie della terra; in quello,
- aggirandosi l'uomo intorno al voto del corno a guisa che l'uomo fa in
- queste scale ravvolte, che vulgarmente si chiamano «chiocciole»,
- discendersi; benché in alcuna parte appaia questo luogo, se non quanto
- allo spazio della via onde si scende, essere in parte cavernoso e in
- parte solido: cavernoso, in quanto vi distingue luoghi, li quali
- appella «cerchi», e ne' quali i miseri son puniti: e alcuna volta vi
- discriva scogli e alcuni valichi e fiumi, li quali non potrebbono per
- lo vacuo, per quello ordine che egli discrive, discendere.]
- [Serve lo 'nferno alla divina giustizia, ricevendo l'anime de'
- peccatori, le quali l'ira di Dio hanno meritata, e in sé gli tormenta
- e affligge, secondo che hanno piú o meno peccato, essendo loro eterna
- prigione.]
- [Ultimamente si domandava se altri nomi avea che «inferno»; il quale
- averne piú appo i poeti manifestamente appare. Virgilio, sí come nel
- sesto dell'_Eneida_ si legge, il chiama Averno, dove dice:
- _Tros Anchisiades, facilis descensus Averni._
- E nominasi questo luogo Averno, _ab «a», quod est «sine», «vernus»,
- quod est «laetitia»_: cioè luogo «senza letizia». E in altra parte nel
- preallegato libro il chiama Tartaro: quivi:
- ......._tum Tartarus ipse
- bis patet in praeceps_, ecc.
- E questo nome è detto da «tortura», cioè da tormentamento, il quale i
- miseri in questo ricevono; ed è, secondo Virgilio, questo la piú
- profonda parte dello 'nferno. Chiamalo ancora Dite nel preallegato
- libro, dove dice:
- _Perque domos Ditis vacuas, et inania regna._
- Ed è cosí chiamato dal suo re, il quale da' poeti è chiamato Dite,
- cioè ricco e abbondante; percioché in questo luogo grandissima
- moltitudine d'anime discendono sempre. Nominalo similmente Orco nel
- libro spesse volte allegato, dove scrive:
- _Vestibulum ante ipsum, primisque in faucibus Orci._
- Ed è chiamato Orco, cioè oscuro, percioché è oscurissimo, come nel
- processo apparirá. Oltre a questo l'appella Erebo nel giá detto libro,
- dicendo:
- _Venimus, et magnos Erebi transnavimus amnes._
- E però è chiamato Erebo, secondo che dice Uguccione, perché egli
- s'accosta molto co' suoi supplici a coloro, li quali miseramente
- riceve e in sé tiene. Ed è ancora chiamato questo luogo Baratro, come
- appresso dice l'autore nel canto ventiduesimo di questa parte, dove
- dice: «Cotal di quel baratro era la scesa». E chiamasi Baratro dalla
- forma di un vaso di giunchi, il quale è ritondo, nella parte superiore
- ampio e nella inferiore angusto. Chiamalo ancora Abisso, sí come
- nell'Apocalisse si legge ove dice: «_Bestia quae ascendet de abysso,
- faciet adversus illos bellum_»; e in altra parte: «_Data est illi
- clavis putei abyssi, et aperuit puteum abyssi_». Il qual nome
- significa «profonditá». Hanne ancora il detto luogo alcuni, ma basti
- al presente aver narrati questi.]
- [Vedute le predette cose, avanti che all'ordine della lettura si
- vegna, pare doversi rimuovere un dubbio, il quale spesse volte giá è
- stato, e massimamente da litterati uomini, mosso, il quale è questo.
- Dicono adunque questi cotali:--Secondo che ciascun ragiona, Dante fu
- litteratissimo uomo, e se egli fu litterato, come si dispuose egli a
- comporre tanta opera e cosí laudevole, come questa è, in volgare?--A'
- quali mi pare si possa cosí rispondere: Certa cosa è che Dante fu
- eruditissimo uomo, e massimamente in poesia, e disideroso di fama,
- come generalmente siam tutti. Cominciò il presente libro in versi
- latini, cosí:
- _Ultima regna canam fluido contermina mundo,
- spiritibus quae lata patent, quae praemia solvunt
- pro meritis cuicumque suis,_ ecc.
- E giá era alquanto proceduto avanti, quando gli parve da mutare stilo:
- e il consiglio, che il mosse, fu manifestamente conoscere i liberali
- studi e' filosofici essere del tutto abbandonati da' prencipi e da'
- signori e dagli altri eccellenti uomini, li quali solevano onorare e
- rendere famosi i poeti e le loro opere: e però, veggendo quasi
- abbandonato Vergilio e gli altri, o essere nelle mani d'uomini plebei
- e di bassa condizione, estimò cosí al suo lavorío dovere addivenire, e
- per conseguente non seguirnegli quello per che alla fatica si
- sommettea. Di che gli parve dovere il suo poema fare conforme, almeno
- nella corteccia di fuori, agl'ingegni de' presenti signori, de' quali
- se alcuno n'è che alcuno libro voglia vedere, e esso sia in latino,
- tantosto il fanno trasformare in volgare: donde prese argomento che,
- se volgare fosse il suo poema, egli piacerebbe, dove in latino sarebbe
- schifato. E perciò, lasciati i versi latini, in rittimi volgari
- scrisse, come veggiamo. Questo soluto, ne resta venire ecc., _ut
- supra_.]
- CANTO PRIMO
- I
- SENSO LETTERALE
- [Lez. II]
- [Resta a venire all'ordine della lettura, e primieramente alle
- divisioni. Dividesi adunque il presente volume in tre parti
- principali, le quali sono li tre libri ne' quali l'autore medesimo
- l'ha diviso: de' quali il primo, il quale per leggere siamo al
- presente, si divide in due parti, in proemio e trattato. La seconda
- comincia nel principio del secondo canto. La prima parte si divide in
- due: nella prima discrive l'autore la sua ruina; nella seconda
- dimostra il soccorso venutogli per sua salute. La seconda comincia
- quivi: «Mentre ch'io rovinava in basso loco». Nella prima fa l'autore
- tre cose: primieramente discrive il luogo dove si ritrovò; appresso
- mostra donde gli nascesse speranza di potersi partire di quel luogo;
- ultimamente pone qual cosa fosse quella che lo 'mpedisse a dover di
- quello luogo uscire: la seconda quivi: «Io non so ben ridir»; la terza
- quivi: «Ed ecco quasi».]
- [Dice adunque cosí: «Nel mezzo del cammin di nostra vita». Ove ad
- evidenzia di questo principio è da sapere, la vita de' mortali è,
- massimamente di quegli li quali a quel termine divengono, il quale
- pare che per convenevole ne sia posto, di settanta anni; quantunque
- alquanti, e pochi, piú ne vivano, e infinita moltitudine meno, sí come
- per lo salmista si comprende nel salmo ottantanovesimo, dove dice:
- «_Anni nostri sicut aranea meditabuntur; dies annorum nostrorum in
- ipsis septuaginta anni. Si autem in potentatibus, octoginta anni; et
- amplius eorum, labor et dolor_»; e perciò colui il quale perviene a
- trentacinque anni, si può dire essere nel mezzo della nostra vita. Ed
- è figurata in forma d'uno arco, dalla prima estremitá del quale infino
- al mezzo si salga, e dal mezzo infino all'altra estremitá si discenda;
- e questo è stimato, percioché infino all'etá di trentacinque anni, o
- in quel torno, pare sempre le forze degli uomini aumentarsi, e quel
- termine passato diminuirsi. E a questo termine d'anni pare che
- l'autore pervenuto fosse, quando prima s'accorse del suo errore. E che
- egli fosse cosí, assai bene si verifica per quello che giá mi
- ragionasse un valente uomo chiamato ser Piero di messer Giardino da
- Ravenna, il quale fu uno de' piú intimi amici e servidori che Dante
- avesse in Ravenna; affermandomi avere avuto da Dante, giacendo egli
- nella infermitá della quale e' morí, lui avere di tanto trapassato il
- cinquantesimosesto anno, quanto dal preterito maggio aveva infino a
- quel dí. E assai ne consta Dante esser morto negli anni di Cristo
- 1321, dí 14 di settembre: per che, sottraendo ventuno di cinquantasei,
- restano trentacinque; e cotanti anni avea nel 1300, quando mostra
- d'avere la presente opera incominciata. Per che appare ottimamente la
- sua etá esser discritta dicendo: «Nel mezzo del cammin», cioè dello
- spazio, «di nostra vita», cioè di noi mortali. «Mi ritrovai», errando,
- «per una selva oscura»; a differenza d'alcune selve, che sono
- dilettevoli e luminose, come è la pineta di Chiassi. «Ché la diritta
- via era smarrita». Vuole mostrare qui che di suo proponimento non era
- entrato in questa selva, ma per ismarrimento.]
- [«E quanto a dir», cioè a discrivere, «qual era», questa selva, «è
- cosa dura», quasi voglia dire impossibile, «esta selva selvaggia e
- aspra e forte». Pon qui tre condizioni di questa selva: dice prima che
- ell'era «selvaggia», quasi voglia dinotare non avere in questa alcuna
- umana abitazione, e per conseguente essere orribile; dice appresso
- ch'ella era «aspra», a dimostrare la qualitá degli alberi e de'
- virgulti di quella, li quali doveano essere antichi, con rami lunghi e
- ravvolti, contessuti e intrecciati intra se stessi, e similemente
- piena di pruni, di tribuli e di stecchi, senza alcuno ordine
- cresciuti, e in qua e in lá distesi: per le quali cose era aspra cosa
- e malagevole ad andare per quella; e in quanto dice «forte», dichiara
- lo 'mpedimento giá premostrato, vogliendo per l'asprezza di quelli,
- essa esser forte, cioè difficile a potere per essa andare e fuori
- uscirne. E questo dice esser tanto, «Che nel pensier», cioè nella
- rammemorazione d'esservi stato dentro, «rinnova la paura». Umano
- costume è, tante volte da capo rimpaurire quante l'uom si ricorda de'
- pericoli ne' quali l'uomo è stato.]
- [«Tanto è amara», non al gusto ma alla sensibilitá umana, «che poco è
- piú morte». Ed è la morte, secondo il filosofo, l'ultima delle cose
- terribili, intanto che ciascuno animale naturalmente ad ogni estremo
- pericolo si mette per fuggirla. Adunque, se la morte è poco piú amara
- che quella selva, assai chiaro appare lei dovere essere molto amara,
- cioè ispaventevole ed intricata: le quali cose prestano amaritudine
- gravissima di mente. «Ma, per trattar del ben ch'io vi trovai».
- Maravigliosa cosa pare quella che l'autore dice qui, e cioè che egli
- alcun bene trovasse in una selva tanto orribile quanto egli ha
- mostrato esser questa; e, percioché egli nella lettera non esprime
- qual bene in quella trovasse, assai si può vedere questo bene trovato
- da lui convenirsi trarre di sotto alla corteccia litterale; e perciò,
- dove di questa parte apriremo l'allegoria, chiariremo quello che qui
- voglia intendere. «Dirò dell'altre cose», cioè che non sono bene,
- «ch'io v'ho scorte», cioè vedute; e questo altresí si conoscerá
- nell'allegoria.]
- [«I' non so ben ridir com'io v'entrai». In questa parte mostra
- l'autore donde gli nascesse speranza di potersi partire di quel luogo,
- e primieramente risponde a una tacita quistione. Potrebbe alcuno
- domandare:--Se questa selva era cosí paurosa e amara cosa, come
- v'entrastú entro?--A che egli risponde sé non saperlo, e assegna la
- ragione, dicendo: «Sí era pien di sonno in su quel punto, Che la
- verace via», la quale mi menava lá dove io dovea e volea andare,
- «abbandonai».]
- «Ma poi ch'i' fui», errando e cercando come di quella uscir potessi,
- «appiè d'un colle giunto», cioè pervenuto, «Lá dove terminava»,
- finiva, «quella valle», nella quale era questa selva oscura, «Che
- m'avea di paura il cor compunto», cioè afflitto, «Guardai in alto e
- vidi le sue spalle», cioè la sommitá quasi, sí come le spalle nostre
- sono quasi la piú alta parte della persona nostra, «Coperte giá de'
- raggi del pianeta», cioè del sole, il quale è l'uno de' sette pianeti.
- E perciò dice del sole, percioché esso solo è di sua natura luminoso,
- e ogni altro corpo che luce, o pianeto o stella o qualunque altro, ha
- da questo la luce, sí come da fonte di quella, sí come per esperienza
- si vede negli eclissi lunari; e questa luce ha solo, non per la sua
- potenza, ma per singular dono del suo Creatore, e hanne in tanta
- abbondanza, che ad ogni parte dintorno a sé manda infinita moltitudine
- di raggi, per li quali, ovunque pervenir possano, si diffonde
- copiosamente la luce sua; e questi raggi, sagliendo il sole dallo
- inferiore emisperio al superiore, le prime parti che toccano del corpo
- della terra, alla quale, sagliendo il sole, pervengono, sono le
- sommitá de' monti. Per la qual cosa appare qui che il giorno
- cominciava ad apparire, quando l'autore cominciò ad avvedersi dove
- era, ed a volere di quel luogo uscire; e di potere ciò fare gli venne
- speranza, rammemorandosi che la luce di questo pianeto «mena diritto
- altrui per ogni calle», cioè per ogni via, in quanto, essendo il sole
- sopra la terra, vede l'uomo dov'e' si va, e ancora con miglior
- giudicio si dirizza lá dove andar vuole, mediante la luce di costui.
- E, per questa speranza presa, dice: «Allor fu la paura un poco queta»,
- cioè meno infesta, «Che nel lago del cuor». È nel cuore una parte
- concava, sempre abbondante di sangue, [nel quale, secondo l'oppinione
- di alcuni, abitano li spiriti vitali], e di quella, sí come di fonte
- perpetuo, si ministra alle vene quel sangue e il calore, il quale per
- tutto il corpo si spande; ed è quella parte ricettacolo di ogni nostra
- passione: e perciò dice che in quella gli era perseverata la passione
- della paura avuta. E perciò dice: «m'era durata, La notte ch'i' passai
- con tanta pièta», cioè con tanta afflizione, sí per la diritta via la
- quale smarrita avea, e sí per lo non vedere, per le tenebre della
- notte, donde né come egli si potesse alla diritta via ritornare.
- «E qual è quei, che con lena», cioè virtú, «affannata», affaticata.
- «Uscito fuor del pelago alla riva»: come colui il quale rompe in mare,
- che, dopo molto notare, faticato e vinto perviene alla riva, e
- «Volgesi all'acqua perigliosa», della quale è uscito, «e guata»; e in
- quel guatare, cognosce molto meglio il pericolo del quale è scampato,
- che esso non cognosceva, mentre che in esso era, percioché allora,
- spronandolo la paura del perire, a null'altra cosa aveva l'animo che
- solo allo scampare; ma, scampato, con piú riposato giudicio vede
- quante cose poteano la sua salute impedire e, quasi in esso fosse,
- molto piú teme, che non facea quando v'era: e però séguita adattando
- sé alla comparazione: «Cosí l'animo mio, ch'ancor fuggiva», cioè che
- ancora scampato esser non gli parea, ma come se nel pericolo fosse
- ancora, di fuggire si sforzava; e, cosí parendogli, «Si volse
- indietro», come fa colui che notando è pervenuto alla riva, «a rimirar
- lo passo», pericoloso della oscura selva, «Che non lasciò giammai»
- uscire di sé «persona viva». Questa parola non si vuole strettamente
- intendere [esser viva], percioché qui usa l'autore una figura che si
- chiama «iperbole», per la quale non solamente alcuna volta si dice il
- vero, ma si trapassa oltre al vero: come fa Vergilio, che, per
- manifestare la leggerezza della Cammilla, dice ch'ella sarebbe corsa
- sopra l'onde del mare turbato, e non s'arebbe immollate le piante de'
- piedi. E perciò si vuole intender qui sanamente l'autore, cioè che di
- quello pericoloso passo pochi ne sieno usciti vivi; percioché, se
- alcuno non avesse vivo lasciato giammai, l'autore, che dice sé esserne
- uscito, come sarebbe vivo?
- «E poi ch'ebbi posato il corpo lasso», per la fatica sostenuta,
- «Ripresi via per la piaggia diserta»; e cosí mostra avere abbandonata
- la valle per dover salire al monte, cioè in sí fatta maniera andando,
- «Sí che 'l piè fermo sempre era il piú basso». [Mostra l'usato costume
- di coloro che salgono, che sempre si ferman piú in su quel piè che piú
- basso rimane.]
- «Ed ecco, quasi al cominciar dell'erta». In questa terza parte
- dimostra l'autore qual cosa fosse quella che lo 'mpedisse a dovere di
- quel luogo uscire, e dice ciò essere stato tre bestie, per la fierezza
- delle quali, non che salir piú avanti, ma egli fu per tornare indietro
- nel pericolo del quale era incominciato ad uscire. Dice adunque: «Ed
- ecco quasi al cominciar dell'erta», cioè della costa, su per la quale
- salir dovea per partirsi della pericolosa valle, «Una lonza leggera e
- presta molto, Che di pel maculato era coperta».
- Poi, discritta la forma della bestia, dice: «E non mi si partía
- dinanzi al volto». Appresso dice che questo stargli sempre davanti,
- che essa «impediva tanto il mio cammino», per lo quale al monte salir
- volea, «Ch'i' fui per ritornar», nella valle, «piú volte vòlto».
- «Temp'era dal principio». Discrive qui l'autore l'ora che era del dí,
- quando egli era da questa bestia impedito, e la qualitá della stagione
- dell'anno; e quanto a l'ora del dí, dice ch'era principio «del
- mattino»: il che assai appare per li raggi del sole, li quali ancora
- non si vedeano se non nella sommitá del monte. «E 'l sol montava 'n
- su», cioè sopra l'orizzonte orientale di quella regione, vegnendo
- dallo emisperio inferiore al superiore; «con quelle stelle», in
- compagnia, «Ch'eran con lui, quando l'Amor divino», cioè lo Spirito
- santo, «Mosse da prima», cioè nel principio del mondo, «quelle cose
- belle», cioè il cielo e le stelle. Dimostra qui l'autore per una bella
- e leggiadra discrizione la qualitá della stagione dell'anno. Ad
- evidenzia della quale è da sapere che gli antichi filosofi caldei, e
- appresso loro gli egizi, furono li primi che per considerazione
- conobbero il movimento dell'ottava sfera e de' pianeti, e similmente
- quello che per gli movimenti de' corpi superiori negl'inferiori ne
- seguiva; e per lunghe esperienzie avvedendosi che, essendo il sole in
- diverse parti del cielo, evidentemente quaggiú si permutavano le
- qualitá dell'anno, e queste qualitá essere quattro, cioè quelle che
- noi primavera, state, autunno e verno chiamiamo; intesa giá qual fosse
- nel cielo la via del sole, quella, secondo il numero di queste,
- divisero in quattro parti eguali. E poi, perché sentirono ciascuna di
- queste parti avere i principi differenti dalle fini, e 'l mezzo
- sentire della natura del principio e della fine; ciascuna di queste
- quattro parti divisero in tre parti equali; e cosí fu da loro la via
- del sole divisa in dodici parti equali, e quelle chiamaron «segni». E,
- accioché l'uno si cognoscesse dall'altro, immaginando figurarono in
- ciascuna parte alcun animale [ornato di certa quantitá di stelle,
- ingegnandosi di figurare, in quelle, animali], la natura del quale
- fosse conforme agli effetti di quella parte, nella quale con la
- immaginazione il figuravano. E, percioché la prima qualitá dell'anno
- estimarono essere la primavera, quella vollero fosse il principio
- dell'anno; e cosí quella parte del cielo, nella quale essendo il sole
- questa primavera veniva, vollero che fosse la prima parte della via
- del sole, e quivi figurarono un segno, il quale noi chiamiamo Ariete;
- nel principio del quale affermano alcuni Nostro Signore aver creato e
- posto il corpo del sole. E perciò, volendo l'autore dimostrare per
- questa discrizione il principio della primavera, dice che il sole
- saliva su dallo emisperio inferiore al superiore, con quelle stelle le
- quali eran con lui, quando il divino Amore lui e l'altre cose belle
- creò, e diede loro il movimento, il qual sempre poi continuato hanno;
- volendo per questo darne ad intendere che, quando da prima pose la
- mano alla presente opera, è circa al principio della primavera; e cosí
- fu, sí come appresso apparirá. [Egli nella presente fantasia entrò a
- dí 25 di marzo.]
- «Sí ch'a bene sperar». Questa lettera si vuole cosí ordinare: «L'ora
- del tempo e la dolce stagione m'era cagione a sperar bene di quella
- fiera alla gaetta pelle»; o vero, se la lettera dice «di quella fiera
- la gaetta pelle», si vuole ordinare cosí: «m'era cagione a sperar bene
- la gaetta pelle di quella fiera». Ciascuna di queste due lettere si
- può sostenere, percioché sentenzia quasi non se ne muta. Reassumendo
- adunque la lettera come giace nel testo, dice: «Sí che a bene sperar
- m'era cagione Di quella fiera», cioè di quella lonza, «alla gaetta
- pelle», cioè leggiadretta, percioché pulita molto è la pelle della
- lonza; o vero, secondo l'altra lettera, «m'era cagione di bene sperar»
- di dovere ottenere la pelle di quella fiera (la quale esso intendea di
- prendere, se potuto avesse, con una corda la quale cinta avea, secondo
- che esso medesimo dice in questo medesimo libro, nel canto sedicesimo,
- dove scrive: «Io aveva una corda intorno cinta, E con essa pensai,
- alcuna volta, Prender la lonza alla pelle dipinta») «L'ora del tempo»,
- cioè il principio del dí, «e la dolce stagione», cioè la primavera.
- Ma puossi qui domandare: che speranza poteva qui porgere di vittoria
- sopra la lonza l'ora del mattino e la stagion della primavera?
- Conciosiacosaché in questi due tempi soglia piú di ferocitá essere
- negli animali, percioché l'ora del mattino gli suole generalmente
- tutti rendere affamati, e per conseguente feroci, e la stagione del
- tempo gli soglia render innamorati piú che alcun altra stagion del
- tempo; e gli animali sogliono per queste due cose, per lo cibo e per
- venere, esser ferocissimi, e massimamente la lonza, la quale è di sua
- natura lussuriosissimo animale: e cosí pare che di quello, di che si
- conforta, si dovesse piú tosto sconfortare. Puossi nondimeno cosí
- rispondere: che, conceduto quello, che detto è, essere negli animali
- bruti, è credibile negli uomini similemente in questo tempo crescere
- il vigore, in quanto essi, che razionali sono, veggendo partire le
- tenebre della notte, le quali sogliono essere e sono piene di paura,
- nel tempo lucido veggono come possano l'arti del loro ingegno usare a
- vincere, e in che guisa possano i pericoli e l'esser vinti fuggire. E
- il tempo della primavera, secondo i fisici, è conforme alla
- compression sanguinea, e però in quella il sangue è piú chiaro, piú
- caldo e piú ardire amministra al cuore e forze al corpo; e quinci per
- avventura si puote nell'autore accendere ottima speranza di vittoria.
- «Ma non sí», gli diede speranza l'ora del tempo ecc., «Che paura non
- mi desse La vista», cioè la veduta, «che m'apparve», appresso la
- lonza, «d'un leone. Questi parea che contr'a me venesse» (e cosí
- appare questo leone essere il secondo ostaculo, il quale il suo
- cammino di salire al monte impedí) «Colla test'alta», nel qual atto si
- mostrava audace, «e con rabbiosa fame» (questo il faceva meritamente
- da temere, come di sopra è detto), «Sí che parea che l'aer ne
- temesse», in quanto l'aere, impulso dall'impeto del venire del leone,
- indietro si traeva, il quale è atto di chi fugge. Con questo mostrava,
- impropriamente parlando, di aver paura di lui.
- «Ed una lupa» (questo è il terzo ostaculo, il quale il suo salire
- impediva) «che di tutte brame Pareva carca nella sua magrezza». Brama
- è propriamente il bestiale appetito di manicare, peroché oltremodo
- pieno di voler si mostra; lo quale essere in questa lupa testimonia la
- magrezza sua, della quale noi prosumiamo quello animale, in cui la
- veggiamo, esser male stato pasciuto, e per conseguente magro e indi
- bramoso. «Che molte genti fe' giá viver grame», cioè dolorose.
- «Questa» lupa «mi porse tanto di gravezza», cioè di noia, «Colla paura
- ch'uscía di sua vista», cioè era sí orribile nello aspetto, che ella
- porgea paura altrui, «Ch'io perdei la speranza dell'altezza», cioè di
- poter pervenire alla sommitá del monte, sopra le cui spalle avea
- veduti i raggi del sole.
- «E quale è que' che volentieri acquista». Per questa comparazione ne
- dimostra l'autore qual divenisse per lo impedimento pórtogli da questa
- bestia, dicendo: «E quale è que'», o mercatante o altro, «che
- volentieri acquista», cioè guadagna, «E giugne 'l tempo che perder lo
- face», qual che sia la cagione, «Che 'n tutti i suoi pensier», ne'
- quali si solea guadagnando rallegrare, perdendo «piange e s'attrista;
- Tal mi fece la bestia senza pace», cioè questa lupa, la qual dice
- esser animale senza pace, percioché la notte e 'l dí sempre sta
- attenta e sollecita a poter predare e divorare: «Che venendomi
- incontro», come soglion fare le bestie che vogliono altrui assalire,
- «a poco a poco», tirandom'io indietro, «Mi ripignea lá ove il sol
- tace», cioè nella oscura selva, della quale io era uscito. Ed è
- questo, cioè «dove 'l sol tace», improprio parlare, e non l'usa
- l'autore pur qui, ma ancora in altre parti in questa opera, sí come
- nel canto quinto quando dice: «I' venni in luogo d'ogni luce muto».
- Assai manifesta cosa è che il sole non parla, né similemente alcuno
- luogo, de' quai dice qui che l'un tace, cioè il sole, e il luogo è
- muto di luce; e sono questi due accidenti, il tacere e l'esser muto,
- propriamente dell'uomo (quantunque il Vangelo dica che uno avea un
- dimonio addosso, e quello era muto): ma questo modo di parlare si
- scusa per una figura, la qual si chiama «acirologia». Vuole adunque
- dir qui l'autore, che la paura, ch'egli avea di questo animale, il
- ripignea lá dove il sol non luce, cioè in quella oscuritá, la quale
- egli disiderava di fuggire.
- «Mentre ch'io rovinava in basso loco». Qui dissi si cominciava la
- seconda parte di questo canto, nella quale l'autor dimostra il
- soccorso venutogli ad aiutarlo uscire di quella valle. E fa in questa
- parte sei cose: egli primieramente chiede misericordia a Virgilio
- quivi apparitogli, quantunque nol conoscesse; appresso, senza
- nominarsi, per piú segni dimostra Virgilio chi egli è; poi l'autore,
- estollendo con piú titoli Virgilio, s'ingegna di accattare la
- benivolenza sua, e mostragli di quello che egli teme; oltre a ciò,
- Virgilio gli dichiara la natura di quella lupa, e il disfacimento di
- lei, consigliandolo della via, la quale dee tenere; appresso, l'autore
- priega Virgilio che gli mostri quello che detto gli ha; ultimamente,
- movendosi Virgilio, l'autore il segue. E segue la seconda quivi: «Ed
- egli a me»; la terza quivi: «Or se' tu quel Virgilio»; la quarta
- quivi: «A te conviene»; la quinta quivi: «Ed io a lui:--Poeta»; la
- sesta quivi: «Allor si mosse».
- Dice adunque nella prima: «Mentre ch'io rovinava», cioè tornava, «in
- basso loco», cioè nella valle della quale era cominciato a partire,
- «Dinanzi agli occhi mi si fu offerto Chi per lungo silenzio parea
- fioco». Il che avviene, o perché da alcuna secchezza intrinsica è sí
- rasciutta la via del polmone, dal quale la prolazione si muove, che le
- parole non ne possono uscire sonore e chiare, come fanno quando in
- quella via è alquanta d'umiditá rivocata; o è talvolta che il lungo
- silenzio, per alcun difetto intrinsico dell'uomo, provoca tanta
- umiditá viscosa in questa via, che similemente rende l'uomo meno
- espeditamente parlante, infino a tanto che o rasciutta o sputata non
- è. [Ma non credo l'autore questo intenda qui, ma piú tosto, per
- difetto delli nostri ingegni, i libri di Virgilio essere intralasciati
- giá e tanto tempo, che la chiara fama di loro è quasi perduta o
- divenuta piú oscura che esser non solea.]
- [«Quando vidi costui», cioè Virgilio apparitogli dinanzi, «pel gran
- diserto», cioè per quella tenebrosa valle, meritamente chiamata
- dall'autore «diserto», sendo sí aspra, come di sopra ha detto, e priva
- di luce; «-Miserere di me--gridai a lui». Sí come molte volte
- gl'impauriti e sbigottiti usano, per essere del loro avvenuto caso
- soccorsi, gridare; tale l'autore, nella paura presa della orribile
- bestia, fece alla veduta di Virgilio, umilmente verso di lui
- gridando:--Abbi misericordia di me,--quasi dicendo:--Aiutami,--come
- piú innanzi si dichiarerá.]
- «--Qual che tu sii, od ombra od uomo certo».--Non conosceva quivi
- l'autore, per lo impedimento della paura, se costui, che apparito gli
- era, era piú tosto spirito che uomo o uomo che spirito; e in questo
- parlare in forse il chiama «ombra», il qual è vocabolo usitatissimo
- de' poeti; e questo muove da ciò, che altrimenti prendere non si
- possono, che l'uomo possa pigliare l'ombra che alcun corpo faccia. E,
- percioché questa materia, cioè che cosa sia l'ombra ovvero anima, e
- come l'ombra prenda quel corpo, il quale agli occhi nostri appare che
- ella abbia, quando talvolta n'appaiono, si tratterá, sí come in luogo
- ciò richiedente, nel venticinquesimo canto del _Purgatorio_, non curo
- qui di farne piú luogo sermone.
- «Risposemi:--Non uom». In questa seconda particella si dimostra chi
- costui fosse che apparito gli era; e questo si dimostra per sei cose
- spettanti al domandato. Dice adunque «non uomo», a dimostrare che
- l'uomo è composto d'anima e di corpo, e però, separato l'uno
- dall'altro, non rimane uomo, né il corpo per se medesimo, né l'anima
- per sé; e in quanto dice «uomo giá fui», mostra sé essere spirito giá
- stato congiunto con corpo.
- «E li parenti miei». È colui che si manifesta qui, Virgilio; e prima
- si manifesta dalla regione nella quale nacque, in quanto dice, «furon
- lombardi». Dove è da sapere che Virgilio fu figliuolo di Virgilio
- lutifigolo, cioè d'uomo il quale faceva quell'arte, cioè di comporre
- diversi vasi di terra; e la madre di lui, secondo che dice Servio
- _Sopra l'«Eneida»_, quasi nel principio, ebbe nome Maia. Dice adunque
- che costoro furono lombardi, cosí dinominati da Lombardia, provincia
- situata tra 'l monte Appennino e gli Alpi e 'l mare Adriano; e avanti
- che Lombardia si chiamasse, fu chiamata Gallia, da' galli che quella
- occuparono e cacciaronne i toscani; e prima che Gallia si chiamasse,
- quella parte dove è Mantova, fu chiamata Venezia, da quegli èneti che
- seguirono Antenore troiano dopo il disfacimento di Troia. La cagione
- perché Lombardia si chiama, è che, partitisi certi popoli dell'isola
- di Scandinavia, la quale è tra ponente e tramontana in Oceano,
- chiamati dalle barbe grandi e da' capegli, li quali s'intorcevano
- davanti al viso, «longobardi», e sotto diversi signori, e dopo
- lunghissimo tempo in varie regioni venendo, dimorati, si fermarono in
- Ungheria, e in quella stettero nel torno di quarantasei anni; poi, a'
- tempi di Giustiniano imperadore, essendo patricio in Italia per lui un
- suo eunuco, chiamato Narsete, e non essendo bene nella grazia di
- Sofia, moglie di Giustiniano, ed essendo da lei minacciato che
- richiamare il farebbe e metterebbelo a filare colle femmine sue,
- sdegnato rispose che, s'ella sapesse filare, al bisogno le sarebbe
- venuto, percioché egli ordirebbe tal tela, ch'ella non la fornirebbe
- di tessere in vita sua; e carichi molti somieri di diversi frutti, con
- una solenne ambasciata gli mandò in Ungheria ad Albuino, il quale
- allora era re de' longobardi, mandandolo pregando che egli co' suoi
- popoli venissero ad abitare quel paese, ove quegli frutti nascevano.
- Albuino, che giá in Gallia era stato, ed era amico di Narsete,
- lasciata Ungheria a certi popoli vicini, li quali si chiamavano ávari,
- in Gallia con tutti i suoi maschi e femmine, piccoli e grandi, ne
- venne, e con la loro forza, e col consiglio e aiuto di Narsete, tutto
- il paese occuparono; e, toltogli il nome antico, da sé lo dinominarono
- Lombardia, il qual nome infino a' nostri dí persevera.
- «Mantovani, per patria, amendui». Mantova fu giá notabil cittá; ma,
- percioché d'essa si tratterá nel ventesimo canto di questo pienamente,
- qui non curo di piú scriverne.
- «Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi». Qui dimostra Virgilio chi
- egli fosse dal tempo della sua nativitá. E' pare che l'autore voglia
- lui esser nato vicino al fine della dettatura di Giulio Cesare, la
- qual cosa non veggo come esser potesse; percioché se al fine della
- dettatura di Giulio nato fosse, ed essendo cinquantadue anni vissuto
- come fece, sarebbe Cristo nato avanti la sua morte: dove Eusebio, in
- libro _De temporibus_, scrive lui essere morto l'anno dello 'mperio
- d'Ottaviano Cesare...[1], che fu avanti la nativitá di Cristo da
- quattordici o quindici anni; e il predetto Eusebio scrive, nel detto
- libro, della sua nativitá cosí: «_Virgilius Maro in vico Andes, haud
- longe a Mantua natus, Crasso et Pompeio consulibus_»; il quale anno fu
- avanti che Giulio Cesare occupasse la dettatura (la qual tenne quattro
- anni e parte del quinto) bene venti anni.
- «E vissi a Roma». Certa cosa è che Vergilio, avendo lo ingegno
- disposto e acuto agli studi, primieramente studiò a Cremona, e di
- quindi n'andò a Milano, lá dov'egli studiò in medicina; e, avendo lo
- 'ngegno pronto alla poesia, e vedendo i poeti esser nel cospetto
- d'Ottaviano accetti, se n'andò a Napoli, e quivi si crede sotto
- Cornuto poeta udisse alquanto tempo. E quivi similmente dimorando, sí
- come egli medesimo testimonia nel fine del libro, avendo prima
- composto la _Buccolica_, e racquistato per opera d'Ottaviano i campi
- paterni, li quali a Mantova erano stati conceduti ad un centurione
- chiamato Arrio, compose la _Georgica_. Poi, sí come Macrobio in libro
- _Saturnaliorum_ scrive, mostra mentre che scrisse l'_Eneida_ si stesse
- in villa: il dove non dice, ma, per quello che delle sue ossa fece
- Ottaviano, si presume che questa villa fosse propinqua a Napoli, e
- prossimana al promontorio di Posillipo, tra Napoli e Pozzuolo. [E
- portò tanto amore a quella cittá che, essendo solennissimo astrolago,
- vi fece certe cose notabili con l'aiuto della strologia; percioché,
- essendo Napoli fieramente infestato da continua moltitudine di mosche,
- di zenzare e di tafani, egli vi fece una mosca di rame, sotto sí fatta
- costellazione che, postala sopra il muro della cittá, verso quella
- parte onde le mosche e' tafani da un padule indi vicino, vi venivano,
- mai, mentre star fu lasciata, in Napoli non entrò né mosca né tafano.
- Fecevi similmente un cavallo di bronzo, il quale avea a far sano ogni
- [Footnote 1: In bianco nei codd. [Ed.].] cavallo che avesse i dolori,
- o altra naturale infermitá, avendo tre volte menatolo d'intorno a
- questo. Fece, oltre a questo, due teste di marmo intagliate, delle
- quali l'una piagnea e l'altra ridea, e posele ad una porta, la quale
- si chiamava porta Nolana, l'una dall'un lato della porta, e l'altra
- dall'altro; ed avevan questa proprietá, che chi veniva per alcuna sua
- vicenda a Napoli, e disavvedutamente entrava per quella porta, se egli
- passava dalla parte della porta dove era posta quella che piagnea, mai
- non potea recare a fine quello per che egli venuto v'era, e se pure il
- recava, penava molto, e con gran noia e fatica il faceva; se passava
- dall'altra parte, dove era quella che rideva, di presente spacciava la
- bisogna sua.] E però credo che egli vivesse poco a Roma, ma che egli
- talvolta vi usasse, questo è credibile.
- «Sotto il buono Augusto», cioè Ottaviano Cesare, il quale, essendo per
- nazione della gente Ottavia, anticamente cittadina di Velletri,
- d'Ottavio padre e di Giulia, sirocchia di Giulio Cesare, nacque; il
- quale poi Giulio Cesare s'adottò in figliuolo e per testamento gli
- lasciò questo nome di Cesare. Poi, avendo egli perseguitati e disfatti
- tutti coloro li quali avevano congiurato contro a Giulio Cesare, e
- finite nella morte d'Antonio e di Cleopatra le guerre cittadine, e
- molte nazioni aggiunte allo 'mperio di Roma; ed essendo a Roma venuti
- ambasciadori indiani e di Scizia, genti ancora appena da' romani
- conosciute, a domandare l'amicizia e la compagnia sua e de' romani; e,
- oltre a ciò, avendo i parti renduti i regni romani tolti a Crasso e ad
- Antonio; parendo a' romani questo essere maravigliosa cosa, il
- vollero, secondo che alcuni dicono, adorare per iddio: la qual cosa
- egli rifiutò del tutto. E nondimeno, avendogli tutto il governo della
- republica commesso, e tenendo ragionamento di doverlo cognominare
- Romolo, per consiglio di Numacio Planco senatore fu cognominato
- Augusto, cioè accrescitore. Ma, percioché in molte parti di questo
- libro si fa di lui menzione, per questa credo assai sia detto.
- Chiamalo il «buon Augusto» l'autore, percioché, quantunque crudel
- giovane fosse, nella etá matura diventò umano e benigno prencipe e
- buono per la republica.
- «Nel tempo degl'iddii falsi e bugiardi». Sono falsi, non veri iddii,
- «_quia dii gentium daemonia_»: «bugiardi» gli chiama, percioché il
- demonio, sí come e' medesimo in altra parte dice, è padre di menzogna.
- [Lez. III]
- «Poeta fui». Apresi ancora qui Virgilio per questo nome di «poeta»
- piú all'autore; [intorno al qual nome, chiamato da molti e conosciuto
- da pochi, estimo sia alquanto da estendersi. È dunque da vedere donde
- avesse la poesia e questo nome origine, qual sia l'uficio del poeta, e
- che onore sia retribuito al buon poeta. Estimaron molti, forse piú da
- invidia che da altro sentimento ammaestrati, questo nome «poeta»
- venire da un verbo detto «_poio pois_», il quale, secondo che li
- grammatici vogliono, vuol tanto dire, quanto «_fingo fingis_»: il qual
- «_fingo_» ha piú significazioni; percioché egli sta per «comporre»,
- per «ornare», per «mentire» e per altri significati. Quegli adunque
- che dall'avvilire altrui credon sé esaltare, dissono e dicono che dal
- detto verbo «_poio_» viene questo nome «poeta»; e percioché quello
- suona «_poio_» che «_fingo_», lasciati stare gli altri significati di
- «_fingo_», e preso quel solo nel quale egli significa «mentire»,
- conchiudendo, vogliono che «poeta» e «mentitore» sieno una medesima
- cosa; e per questo sprezzano e avviliscono e annullano in quanto
- possono i poeti, ingegnandosi, oltre a questo, di scacciargli e di
- sterminargli del mondo, nel cospetto del non intendente vulgo
- gridando: i poeti per autoritá di Platone dover esser cacciati delle
- cittá. E, oltre a ciò, prendendo d'una pistola di Geronimo a Damaso
- papa _De filio prodigo_ questa parola: «_Carmina poëtarum sunt
- cibus daemoniorum_»; quasi armati dell'arme d'Achille, con ardita fronte
- contra i poeti tumultuosamente insultano; aggiugnendo a' loro argomenti
- le parole della Filosofia a Boezio, dove dice:--«_Quis--inquit--has
- scenicas meretriculas ad hunc aegrum permisit accedere, quae dolores
- eius non modo nullis remediis foverent, verum dulcibus insuper alerent
- venenis?_»--E, se piú alcuna cosa truovano, similmente, come contro a
- nemici della repubblica, contro ad essi l'oppongono.]
- [Ma, percioché a questi cotali a tempo sará risposto, vengo alla prima
- parte, cioè donde avesse origine il nome del «poeta». Ad evidenza
- della qual cosa è da sapere, secondo che il mio padre e maestro messer
- Francesco Petrarca scrive a Gherardo suo fratello, monaco di Certosa,
- gli antichi greci, poiché per l'ordinato movimento del cielo e
- mutamento appo noi de' tempi dell'anno, e per altri assai evidenti
- argomenti, ebbero compreso uno dover essere colui il quale con
- perpetua ragione dá ordine a queste cose, e quello essere Iddio, e tra
- loro gli ebbero edificati templi, e ordinati sacerdoti e sacrifici;
- estimando di necessitá essere il dovere nelle oblazioni di questi
- sacrifici dire alcune parole, nelle quali le laudi degne a Dio, e
- ancora i lor prieghi a Dio si contenessero; e conoscendo non esser
- degna cosa a tanta deitá dir parole simili a quelle che noi, l'uno
- amico con l'altro, familiarmente diciamo o il signore al servo suo:
- costituirono che i sacerdoti, li quali eletti e sommi uomini erano,
- queste parole trovassero. Le quali questi sacerdoti trovarono; e, per
- farle ancora piú strane dall'usitato parlare degli uomini,
- artificiosamente le composero in versi. E perché in quelle si
- contenevano gli alti misteri della divinitá, accioché per troppa
- notizia non venissero in poco pregio appo il popolo, nascosero quegli
- sotto fabuloso velame. Il qual modo di parlare appo gli antichi greci
- fu appellato «_poetes_»; il qual vocabolo suona in latino, «esquisito
- parlare»; e da «_poetes_» venne il nome del «poeta», il qual nulla
- altra cosa suona che «esquisito parlatore». E quegli, che prima
- trovarono appo i greci questo, furono Museo, Lino e Orfeo. E, perché
- ne' lor versi parlavano delle cose divine, furono appellati non
- solamente «poeti», ma «teologi»; e per le opere di costoro dice
- Aristotile che i primi che teologizzarono furono i poeti. E, se bene
- si riguarderá alli loro stili, essi non sono dal modo del parlare
- differenti da' profeti, ne' quali leggiamo, sotto velamento di parole
- nella prima apparenza fabulose, l'opere ammirabili della divina
- potenza. È vero che coloro, spirati dallo Spirito santo, quel dissero
- che si legge, il quale credo tutto esser vero, sí come da verace
- dettatore stato dettato; quello, che i poeti finsero, fecero per forza
- d'ingegno, e in assai cose non il vero, ma quello che essi secondo i
- loro errori estimavan vero, sotto il velame delle favole ascosero. Ma
- i poeti cristiani, de' quali sono stati assai, non ascosero sotto il
- loro fabuloso parlare alcuna cosa non vera, e massimamente dove
- fingessero cose spettanti alla divinitá e alla fede cristiana: la qual
- cosa assai bene si può cognoscere per la _Buccolica_ del mio
- eccellente maestro messer Francesco Petrarca, la quale chi prenderá e
- aprirá, non con invidia, ma con caritevole discrezione, troverá sotto
- alle dure cortecce salutevoli e dolcissimi ammaestramenti; e
- similmente nella presente opera, sí come io spero che nel processo
- apparirá. E cosí si cognoscerá i poeti non essere mentitori, come
- gl'invidiosi e ignoranti li fanno.]
- [Appresso l'uficio del poeta è, sí come per le cose sopradette assai
- chiaro si può comprendere, questo nascondere la veritá sotto favoloso
- e ornato parlare: il che avere sempre fatto i valorosi poeti si
- troverá da chi con diligenza ne cercherá. Ma ciò che io ora ho detto,
- è da intendere sanamente. Io dico «la veritá», secondo l'oppenione di
- quegli tali poeti; percioché il poeta gentile, al quale niuna notizia
- fu della cattolica fede, non poté la veritá di quella nascondere nelle
- sue fizioni, nascosevi quelle che la sua erronea religione estimava
- esser vere; percioché, se altro che quello, che vero avesse istimato,
- avesse nascoso, non sarebbe stato buon poeta.]
- [E, percioché i poeti furono estimati non solamente teologi, ma
- eziandio esaltatori dell'opere de' valorosi uomini, per li quali li
- stati de' regni, delle province e delle cittá si servano; e, oltre a
- ciò, quegli ne' lor versi di fare eterni si sforzarono; e similemente
- furono grandissimi commendatori delle virtú e vituperatori de' vizi:
- estimarono lor dovere estollere con quel singulare onore che i
- principi triunfanti per alcuna vittoria erano onorati; cioè che dopo
- la vittoria d'alcuna loro laudevole impresa, in comporre alcun
- singular libro, essi fossero coronati di alloro, a dimostrare che,
- come l'alloro serva sempre la sua verdezza, cosí sempre era da
- conservare la lor fama. Le fatiche de' quali, se molto laudevoli non
- fossero, non è credibile che il senato di Roma, al qual solo
- apparteneva il concedere, a cui degno ne reputava, la laurea, avesse
- quella ad un poeta conceduta, ch'egli concedette ad Affricano, a
- Pompeo, a Ottaviano e agli altri vittoriosi prencipi e solenni uomini:
- la qual cosa per avventura non considerano coloro che meno
- avvedutamente gli biasimano. E se per avventura volesson dire:--Noi
- gli biasimiamo perché furon gentili, le scritture de' quali sono da
- schifare sí come erronee;--direi che da tollerar fosse, se Platone,
- Aristotile, Ipocrate, Galieno, Euclide, Tolomeo e altri simili assai,
- cosí gentili come i poeti furono, fossero similemente schifati; il che
- non avvenendo, non si può forse altro dire se non che singular
- malivolenzia il faccia fare.]
- [Ma da rispondere è alle obbiezioni di questi valenti uomini fatte
- contro a' poeti.]
- [Dicono adunque, aiutati dall'autoritá di Platone, che i poeti sono da
- esser cacciati delle cittá, quasi corrompitori de' buoni costumi. La
- qual cosa negare non si può che Plato nel libro della sua _Republica_
- non lo scriva; ma le sue parole non bene intese da questi cotali fanno
- loro queste cose senza sentimento dire. Fu ne' tempi di Platone, e
- avanti, e poi perseverò lungamente, ed eziandio in Roma, una spezie di
- poeti comici, li quali, per acquistare ricchezze e il favore del
- popolo, componevan lor commedie, nelle quali fingevano certi adultèri
- e altre disoneste cose, state perpetrate dagli uomini, li quali la
- stoltizia di quella etá aveva mescolati nel numero degl'iddii; e
- queste cotal commedie poi recitavano nella scena, cioè in una piccola
- casetta, la quale era constituita nel mezzo del teatro, stando
- dintorno alla detta scena tutto il popolo, e gli uomini e le femmine,
- della cittá ad udire. E non gli traeva tanto il diletto e il disiderio
- di udire, quanto di vedere i giuochi che dalla recitazione del commedo
- procedevano; i quali erano in questa forma: che una spezie di buffoni,
- chiamati «mimi», l'uficio de' quali è sapere contraffare gli atti
- degli uomini, uscivano di quella scena, informati dal commedo in
- quegli abiti ch'erano convenienti a quelle persone, gli atti delle
- quali dovevano contraffare, e questi cotali atti, onesti o disonesti
- che fossero, secondo che il commedo diceva, facevano. E, percioché
- spesso vi si facevano intorno agli adultèri, che i commedi recitavano,
- di disoneste cose, si movevano gli appetiti degli uomini e delle
- femmine, riguardanti, a simili cose disiderare e adoperare; di che i
- buon costumi e le menti sane si corrompevano, e ad ogni disonestá
- discorrevano. Perciò, accioché questo cessasse, Platone, considerando,
- se la republica non fosse onesta, non poter consistere, scrisse, e
- meritamente, questi cotali dovere essere cacciati delle cittá. Non
- adunque disse d'ogni poeta. Chi fia di sí folle sentimento, che creda
- che Platone volesse che Omero fosse cacciato della cittá, il quale è
- dalle leggi chiamato «padre d'ogni virtú»? chi Solone, che nello
- estremo de' suoi dí, ogni altro studio lasciato, ferventissimamente
- studiava in poesia? Le leggi del qual Solone, non solamente lo
- scapestrato vivere degli ateniesi regolarono, ma ancora composero i
- costumi de' romani, giá cominciati a divenire grandi. Chi crederá
- ch'egli avesse cacciato Virgilio, chi Orazio o Giovenale, acerrimi
- riprenditori de' vizi? chi crederá ch'egli avesse cacciato il
- venerabile mio maestro messer Francesco Petrarca, la cui vita e i cui
- costumi sono manifestissimo esemplo d'onestá? chi il nostro autore, la
- cui dottrina si può dire evangelica? E se egli questi cosí fatti poeti
- cacciasse, cui riceverá egli poi per cittadino? Sardanapalo, Tolomeo
- Evergete, Lucio Catellina, Neron cesare? Ma in veritá questa
- obbiezione potevano essi o potrebbono agevolmente tacere. Non è egli
- sí gran calca fatta da' poeti onesti d'abitare nelle cittá: Omero
- abitò il piú per li luoghi solitari d'Arcadia; Virgilio, come detto è,
- in villa; messer Francesco Petrarca a Valchiusa, luogo separato d'ogni
- usanza d'uomini; e, se investigando si verrá, questo medesimo si
- troverá di molti altri.]
- [Dicono oltre a questo, le parole scritte da san Girolamo: «_Daemonum
- cibus sunt carmina poëtarum_». Le quali parole senza alcun dubbio son
- vere. Ma chi avesse in questa medesima pístola letto, avrebbe potuto
- vedere di quali versi san Girolamo avesse inteso; e massimamente nella
- figura, la qual pone, d'una femmina non giudea, ma prigione de'
- giudei, la qual dice che, avendo raso il capo, e posti giú i
- vestimenti suoi, e toltesi l'unghie e i peli, potersi ad uno ismaelita
- per via di matrimonio congiugnere: forse con minor fervore, avendo la
- figura intesa, avrebbero quelle parole contro a' poeti allegate. E,
- accioché questo piú apertamente s'intenda, non vuole altro la figura
- posta da san Girolamo, se non, per quegli atti che la scrittura di Dio
- dice dover fare, se non, una purgazione del paganesimo o d'altra setta
- fatta, potere qualunque femmina nel matrimonio venir de' giudei: e
- cosí, purgate certe inconvenienze del numero de' poeti, restare i
- versi de' poeti non come cibo di dimonio, ma come angelico potersi da'
- fedeli cristiani usare. E questa purgazione per la grazia di Dio si
- può dir fatta, poi che Costantino imperadore, battezzato da san
- Silvestro, diede luogo al lume della veritá; percioché per la santitá
- e sollecitudine dei papi e degli altri ecclesiastici pastori,
- scacciando i sopradetti comici e ogni disonesto libro ardendo, par
- questa poesia antica purgata, e potersi, ne' libri autorevoli e
- laudevoli rimasi, congiugnere con ogni cristiano.]
- [Non dico perciò (che è quello, a che san Girolamo nella predetta
- pistola attende molto) che il prete o il monaco, o qual altro
- religioso voglian dire, al divino oficio obbligato, debba il breviario
- posporre a Virgilio; ma, avendo con divozione e con lagrime il divino
- oficio detto, non è peccare in Spirito santo il vedere gli onesti
- versi di qualunque poeta. E, se questi cotali non fossero piú
- religiosi o piú dilicati, che stati sieno i santi dottori, essi
- ritroverebbero questo cibo, il quale dicono de' demòni, non solamente
- non essere stato gittato via o messo nel fuoco, come alcuni per
- avventura vorrebbono, ma essere stato con diligenzia servato, trattato
- e gustato da Fulgenzio, dottore e pontefice cattolico, sí come appare
- in quello libro, il quale esso appella delle _Mitologiae_, da lui con
- elegantissimo stilo scritto, esponendo le favole de' poeti. E
- similmente troverebbono sant'Agostino, nobilissimo dottore, non avere
- avuto in odio la poesia, né i versi de' poeti, ma con solerte
- vigilanza quegli avere studiati e intesi: il che se negare alcun
- volesse, non puote; conciosiacosaché spessissime volte questo santo
- uomo ne' suoi volumi induca Virgilio e gli altri poeti; né quasi mai
- nomina Virgilio senza alcun titolo di laude.]
- [Similmente e Geronimo, dottore esimio e santissimo uomo,
- maravigliosamente ammaestrato in tre linguaggi, il quale gli ignoranti
- si sforzano di tirare in testimonio di ciò che essi non intendono, con
- tanta diligenzia i versi de' poeti studiò e servò nella memoria, che
- quasi paia nulla nelle sue opere non avere senza la testimonianza loro
- fermata. E, se essi non credono questo, veggano, tra gli altri suoi
- libri, il prologo del libro il quale egli chiama _Hebraicarum
- quaestionum_, e considerino se quello è tutto terenziano. Veggano se
- esso spessissime volte, quasi suoi assertori, induce Virgilio e
- Orazio; e non solamente questi, ma Persio e gli altri minori poeti.
- Leggano, oltre a questo, quella facundissima epistola da lui scritta a
- sant'Agostino, e cerchino se in essa l'ammaestrato uomo pone i poeti
- nel numero de' chiarissimi uomini, li quali essi si sforzano di
- confondere.]
- [Appresso, se essi nol sanno, leggano negli _Atti degli apostoli_ e
- troveranno se Paolo, vaso d'elezione, studiò i versi poetici, e quegli
- conobbe e seppe. Essi troveranno lui non avere avuto in fastidio,
- disputando nello areopago contro la ostinazione degli ateniesi,
- d'usare la testimonianza de' poeti; e in altra parte avere usato il
- testimonio di Menandro comico poeta, quando disse: «_Corrumpunt mores
- bonos colloquia mala_». E similmente, se io bene mi ricordo, egli
- allega un verso di Epimenide poeta, il quale attissimamente si
- potrebbe dire contro a questi sprezzatori de' poeti, quando dice:
- «_Cretenses semper mendaces, malae bestiae, ventres pigri_». E cosí
- colui, il quale fu rapito insino al terzo cielo, non estimò quello,
- che questi piú santi di lui vogliono, cioè esser peccato o
- abbominevole cosa aver letti e apparati i versi de' poeti. Oltre a
- tutto questo, cerchino quello che scrisse Dionisio areopagita,
- discepolo di Paolo e glorioso martire di Gesú Cristo, nel libro il
- quale compose _Della celeste gerarchia_. Esso dice e proseguita e
- pruova la divina teologia usare le poetiche fizioni, dicendo intra
- l'altre cose cosí: «_Etenim valde artificialiter theologia poëticis
- sacris formationibus, in non figuratis intellectibus usa est, nostram,
- ut dictum est, animam relevans, et ipsi propria et coniecturali
- reductione providens, et ad ipsum reformans anagogicas sanctas
- Scripturas_»; ed altre cose ancora assai, le quali a questa somma
- seguitano. E ultimamente, accioché io lasci star gli altri, li quali
- io potrei inducere incontro a questi nemici del poetico nome, non esso
- medesimo Gesú Cristo, nostro salvadore e signore, nella evangelica
- dottrina parlò molte cose in parabole, le quali son conformi in parte
- allo stilo comico? Non esso medesimo incontro a Paolo, abbattuto dalla
- sua potenza in terra, usò il verso di Terenzio, cioè: «_Durum est tibi
- contra stimulum calcitrare_»? Ma sia di lungi da me che io creda
- Cristo queste parole, quantunque molto davanti fosse, da Terenzio
- prendesse. Assai mi basta a confermare la mia intenzione, il nostro
- Signore aver voluto alcuna volta usare la parola e la sentenzia
- prolata giá per la bocca di Terenzio, accioché egli appaia che del
- tutto i versi de' poeti non sono cibo del diavolo. Che adunque diranno
- questi li quali cosí presuntuosamente s'ingegnano di scalpitare il
- nome poetico? Certo, al giudicio mio, e' non gli possono giustamente
- dannare, se non che co' versi poetici non si guadagnan danari, che
- credo sia quello che in tanta abbominazione gli ha loro messi nel
- petto, perché a' loro desidèri non sono conformi.]
- [Resta a spezzare l'ultima parte delle loro armi, le quali in gran
- parte deono esser rotte, se a quel si riguarda che alla sentenza di
- Platone fu risposto di sopra. Essi vogliono che la filosofia abbia
- cacciate le muse poetiche da Boezio, sí come femmine meretrici e
- disoneste, e i conforti delle quali conducono chi l'ascolta, non a
- sanitá di mente, ma a morte. Ma quel testo, male inteso, fa errare chi
- reca quel testo in argomento contro a' poeti. Egli è senza alcun
- dubbio vero la filosofia esser venerabile maestra di tutte le scienze
- e di ciascuna onesta cosa; e in quello luogo, dove Boezio giaceva
- della mente infermo, turbato e commosso dello esilio a gran torto
- ricevuto, egli, sí come impaziente, avendo per quello cacciata da sé
- ogni conoscenza del vero, non attendeva colla considerazione a trovare
- i rimedi opportuni a dover cacciar via le noie che danno gl'infortuni
- della presente vita; anzi cercava di comporre cose, le quali non
- liberasson lui, ma il mostrassero afflitto molto, e per conseguente
- mettessero compassion di lui in altrui. E questa gli pareva sí soave
- operazione che (senza guardare che egli in ciò faceva ingiuria alla
- filosofica veritá, la cui opera è di sanare, non di lusingare il
- passionato), che esso, con la dolcezza delle lusinghe del potersi
- dolere, insino alla sua estrema confusione avrebbe in tale impresa
- proceduto; e, peroché questo è esercizio de' comici di sopra detti (a
- fine di guadagnare), di lusingare e di compiacere alle inferme menti,
- chiama la Filosofia queste muse «_meretriculae scenicae_», non perché
- ella creda le muse esser meretrici, ma per vituperare con questo
- vocabolo l'ingegno dell'artefice che nelle disoneste cose le induce.
- Assai è manifesto non esser difetto del martello fabbrile, se il
- fabbro fa piú tosto con esso un coltello, col quale s'uccidono gli
- uomini, che un bómere, col quale si fende la terra, e rendesi abile a
- ricevere il seme del frutto, del quale noi poscia ci nutrichiamo. E
- che le Muse sieno qui istrumento adoperante secondo il giudicio
- dell'artefice, e non secondo il loro, ottimamente il dimostra la
- Filosofia, dicendo in quel medesimo luogo che è disopra mostrato,
- quando dice:--Partitevi di qui, Serene dolci infino alla morte, e
- lasciate questo infermo curare alle mie muse, cioè alla onestá e alla
- integritá del mio stilo, nel quale mediante le mie muse io gli
- mostrerò la veritá, la quale egli al presente non conosce, sí come
- uomo passionato e afflitto.--Nelle quali parole si può comprendere non
- essere altre muse, quelle della filosofia, che quelle de' comici
- disonesti e degli elegiaci passionati, ma essere d'altra qualitá
- l'artefice, il quale questo istrumento dee adoperare. Non adunque nel
- disonesto appetito di queste muse, le quali chiama la Filosofia
- «meretricule», sono vituperate le muse, ma coloro che in disonesto
- esercizio l'adoperano.]
- [Restavano sopra la presente materia a dir cose assai, ma percioché in
- altra parte piú distesamente di questo abbiamo scritto, basti questo
- averne detto al presente, e alla nostra impresa ne ritorniamo. Fu
- adunque Virgilio, poeta, e non fu popolar poeta, ma solennissimo, e le
- sue opere e la sua fama chiaro il dimostrano agl'intendenti.]
- [Lez. IV]
- «E cantai». Usa Virgilio questo vocabolo in luogo di «composi [versi»;
- e la ragione in parte si dimostrò, dove di sopra si disse perché
- «cantiche» si chiamano l'opere de' poeti; alla quale si puote
- aggiugnere una usanza antica de' greci, dalla qual credo non meno
- esser mossa la ragione perché «cantare» si dicono i versi poetici, che
- da quella che giá è detta. E l'usanza era questa: ch'e' nobili giovani
- greci si reputavano quasi vergogna il non saper cantare e sonare, e
- questi loro canti e suoni usavano molto ne' lor conviti. E non erano
- li lor canti di cose vane, come il piú delle canzoni odierne sono,
- anzi erano versi poetici, ne' quali d'altissime materie o di laudevoli
- operazioni da valenti uomini adoperate, sí come noi possiam vedere
- nella fine del primo dell'_Eneida_ di Virgilio, dove, dopo la notabile
- cena di Didone fatta ad Enea, Iopa, sonando la cetera, canta gli
- errori del sole e della luna, e la prima generazione degli uomini e
- degli altri animali, e donde fosse l'origine delle piove e del fuoco,
- e altre simili cose: dal quale atto poté nascere il dirsi che i
- poetici versi si cantino. E per conseguente Virgilio, dell'opere da sé
- composte dice «cantai». Il qual non solamente compuose l'_Eneida_, ma
- molti altri libri, si come, secondoché Servio scrive, l'_Ostirina_,
- l'_Ethna_, il _Culice_, la _Priapea_, il _Cathalecthon_, le _Dire_,
- gli _Epigrammati_, la _Copa_, il _Moreto_ e altri; ma sopra tutti fu
- l'_Eneida_, la quale in laude d'Ottaviano compuose. Poi, partendosi da
- Napoli, e andandone ad Atene ad udir filosofia, non avendo corretto il
- detto _Eneida_, quello lasciò a due suoi amici valenti poeti, cioè a
- Tucca e a Varrone, con questo patto che, se avvenisse che egli avanti
- la tornata sua morisse, che essi il dovessero ardere; per che, essendo
- a Brandizio morto, senza potere esser pervenuto ad Atene, e Tucca e
- Varrone sappiendo questo libro in laude di Ottaviano essere stato
- composto, e che esso il sapeva, temettero d'arderlo senza coscienza
- d'Ottaviano; e perciò, raccontata a lui la intenzion di Virgilio,
- ebbero in comandamento di non doverlo ardere per alcuna cagione, ma il
- correggessero, con questo patto, che essi alcuna cosa non
- v'aggiugnessero, e, se vi trovasser cosa da doverne sottrarre,
- potessero. Il che essi con fede fecero. Poi Ottaviano, fatte recare le
- sue ossa da Brandizio a Napoli, vicino al luogo dove gli era dilettato
- di vivere, il fece seppellire, cioè infra 'l secondo miglio da Napoli,
- lungo la via che si chiamava Puteolana, accioché esso quivi giacesse
- morto, dove gli era dilettato di vivere.]
- «Di quel giusto Figliuol d'Anchise», cioè d'Enea, del quale Virgilio
- nel primo dell'_Eneida_ fa ad Ilioneo dire alla reina Dido queste
- parole:
- _Rex erat Aeneas nobis, quo iustior alter
- nec pietate fuit, nec bello maior et armis,_
- nelle quali testimonia Enea essere stato giustissimo. Anchise fu della
- schiatta de' re di Troia, figliuolo di Capis, figliuolo di Assaraco,
- figliuolo di Troio, e fu padre d'Enea, come qui si dice, «che venne da
- Troia». Troia è una provincia nella minore Asia, vicina d'Ellesponto,
- alla quale è di ver' ponente il mare Egeo, dal mezzodí Meonia, da
- levante Frigia maggiore, da tramontana Bitinia, cosí dinominata da
- Troio, re di quella. «Poi che il superbo Ilión fu combusto». Ilione fu
- una cittá di Troia, cosí nominata da Ilio, re di Troia, e fu la cittá
- reale, e quella, secondo che Pomponio Mela scrive nel primo della sua
- _Cosmografia_, che fu da' greci assediata, e ultimamente presa e arsa
- e disfatta. Chiamalo «superbo» dall'altezza dello stato del re Priamo
- e de' suoi predecessori.
- E poi che manifestato s'è, egli fa una breve domanda all'autore,
- dicendo:--«Ma tu perché ritorni a tanta noia?» quanta è a essere nella
- selva, della quale partito ti se';--e quinci segue e fanne
- un'altra:--«Perché non sali al dilettoso monte, Ch'è principio e
- cagion di tutta gioia?».--
- Espedite queste parole di Virgilio, segue la terza parte di questa
- seconda, nella qual dissi che con ammirazion l'autore rispondeva, e,
- col commendar Virgilio, s'ingegnava d'accattare la sua benivolenza. E,
- rispondendo alla dimanda di lui, gli mostra quello per che al monte
- non sale, e il suo aiuto addimanda, e dice:--«Or se' tu quel Virgilio
- e quella fonte, Che spande di parlar sí largo fiume?».--Commendalo qui
- l'autore dell'amplitudine della sua facundia, quella facendo
- simigliante ad un fiume. «Rispos'io lui con vergognosa fronte».
- Vergognossi l'autore d'essere da tanto uomo veduto in sí miserabile
- luogo, e dice «con vergognosa fronte», percioché in quella parte del
- viso prima appariscano i segni del nostro vergognarci; comeché qui si
- può prendere il tutto per la parte, cioè tutto il viso per la
- fronte.--«O degli altri poeti» latini «onore», percioché per Virgilio
- è tutto il nome poetico onorato, «e lume». Sono state l'opere di
- Virgilio a' poeti, che appresso di lui sono stati, un esempio, il
- quale ha dirizzate le loro invenzioni a laudevole fine, come la luce
- dirizza i passi nostri in quella parte dove d'andare intendiamo.
- «Vagliami il lungo studio e il grande amore». Poi che l'autore ha
- poste le laude di Virgilio, accioché per quelle il muova al suo
- bisogno, ora il priega per li meriti di se medesimo, per li quali
- estima Virgilio sí come obbligatogli il debba aiutare, e dice:
- «Vagliami», a questo bisogno, «il lungo studio». Vuol mostrare d'avere
- l'opera di Virgilio studiata, non discorrendo, ma con diligenza. «E 'l
- grande amore». E per questo intende mostrare un atto caritativo, che
- fatto gli ha studiare il libro di Virgilio, e non, come molti fanno,
- averlo studiato per trovarvi che potere mordere e biasimare. «Che m'ha
- fatto cercare il tuo volume», l'_Eneida_.
- «Tu se' lo mio maestro». Qui con reverirlo vuol muover Virgilio
- chiamandolo «maestro», «e 'l mio autore». In altra parte si legge
- «signore», e credo che stia altresí bene; percioché qui, umiliandosi,
- vuol pretendere il signore dovere ne' bisogni il suo servidore
- aiutare. «Tu se' solo colui da cui io tolsi», cioè presi, «il bello
- stilo», del trattato, e massimamente dello _'Nferno_, «che m'ha fatto
- onore», cioè fará. E pon qui il preterito per lo futuro, facendo
- solecismo.
- «Vedi la bestia», e mostragli la lupa, della quale di sopra è detto,
- «per cui io mi volsi», dal salire al dilettoso monte. E qui gli
- risponde all'interrogazion fatta; appresso il priega dicendo: «Aiutami
- da lei, famoso saggio»; nelle quali parole vuol mostrare colui
- veramente esser saggio, il quale non solamente è saggio nel suo
- segreto, ma eziandio nel giudicio degli altri per lo quale esso
- diventa famoso. «Ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi». Triemano le
- vene e' polsi quando dal sangue abbandonate sono, il che avviene
- quando il cuore ha paura; percioché allora tutto il sangue si ritrae a
- lui ad aiutarlo e riscaldarlo, e il rimanente di tutto l'altro corpo
- rimane vacuo di sangue, e freddo e palido.
- --«A te convien tenere altro viaggio». In questa quarta particella fa
- l'autore due cose: prima dichiara ciò che Virgilio dice della natura
- di quella lupa, e il suo futuro disfacimento; appresso gli dimostra
- Virgilio quel cammino che gli par da tenere, accioché egli possa di
- quello luogo pericoloso uscire. La seconda quivi: «Ond'io per lo tuo
- me'». Dice dunque:--«A te convien tenere altro viaggio», che quello il
- quale di tenere ti sforzi,--«rispose» Virgilio, «poi che lagrimar mi
- vide,--Se vuoi campar», senza morte uscire, «d'esto loco selvaggio»,
- come di sopra è dimostrato. E, seguendo, Virgilio gli dice la cagione
- perché a lui convien tenere altro cammino, dicendo: «Ché quella
- bestia», cioè quella lupa, «per la qual tu gride», domandando
- misericordia, «Non lascia altrui passar per la sua via», non della
- lupa, ma di colui che andar vuole; «Ma tanto lo 'mpedisce», ora in una
- maniera e ora in un'altra, «che l'uccide. Ed ha», questa lupa, «natura
- sí malvagia e ria, Che mai non empie la bramosa voglia» del divorare,
- «Ma dopo il pasto ha piú fame che pria». Vuole Virgilio per queste
- parole rimuovere un pensier vano, il quale potrebbe cadere
- nell'autore, dicendo:--Quantunque questa bestia sia bramosa e abbia la
- fame grande, egli potrá avvenire che ella prenderá alcuno animale e
- pascerassi, e, pasciuta, mi lascerá andare dove io disidero;--il qual
- avviso si rimuove per quelle parole: «E dopo il pasto ha piú fame che
- pria».
- «Molti son gli animali a cui s'ammoglia», cioè co' quali si congiugne.
- Questo è fuori dell'uso della natura di qualunque animale,
- congiugnersi con molti animali di diverse spezie; ma con alcuno assai
- bestie il fanno, sí come il cavallo coll'asino, la leonessa col
- leopardo e la lupa col cane. E questo non è da dubitare che l'autore
- non sapesse; per che, avendol posto, assai bene possiam comprendere
- l'autore volere altro sentire che quello che semplicemente suona la
- lettera, e cosí in ciò che sèguita del rimettimento di questa lupa in
- inferno: la sposizione delle quali cose a suo tempo riserberemo. «E
- piú saranno ancora», che stati non sono, «infin che 'l veltro Verrá».
- È il veltro una spezie di cani, maravigliosamente nimica de' lupi, de'
- quali veltri dice, come appare, doverne venire uno, «che la fará morir
- con doglia».
- «Questi», cioè questo veltro, «non ciberá», cioè mangerá, «terra né
- peltro». Peltro è una spezie vile di metallo composta d'altri. «Ma
- sapienza, amore e virtute». Questi non sogliono essere cibi de' cani;
- e perciò assai chiaro appare lui intendere altro che non par che dica
- la lettera. «E sua nazion sará tra feltro e feltro». È il feltro
- vilissima spezie di panno, come ciascun sa manifestamente.
- «Di quella umile». Usa qui l'autore un tropo, il quale si chiama
- «ironia», per vocabolo contrario mostrando quello che egli intende di
- dimostrare; cioè per «umile», «superba», sí come noi tutto 'l dí
- usiamo, dicendo d'un pessimo uomo:--Or questi è il buono uomo;--d'un
- traditore:--Questi è il leale uomo;--e simili cose. Dice adunque: «Di
- quella umile», cioè superba, «Italia fia salute». È Italia una gran
- provincia, nominata da Italo, figliuolo di Corito re e fratello di
- Dardano (del quale piú distesamente diremo appresso nel quarto canto),
- terminata dall'Alpi e dal mare Tirreno e dall'Adriano, contenente in
- sé molte province; e perciò, a voler dimostrare di qual parte di
- questa Italia dice, soggiugne: «Per cui morí», cioè fu uccisa, «la
- vergine Camilla».
- Fu questa Camilla, secondo che Virgilio scrive nell'undicesimo
- dell'_Eneida_, figliuola di Metabo, re di Priverno, e di Casmilla, sua
- moglie. E, percioché nel partorire questa fanciulla morí la madre,
- piacque al padre di levare una lettera sola, cioè quella «s», che era
- nel nome di Casmilla, sua moglie, e nominare la figliuola Camilla. La
- quale essendo ancora piccolissima, avvenne, per certe divisioni de'
- privernati, Metabo re a furore fu cacciato di Priverno. Il quale, non
- avendo spazio di potere alcun altra cosa prendere, prese questa
- piccola sua figliuola e una lancia, e con essa, essendo dai privernati
- seguito, si mise in fuga; e, pervegnendo a un fiume, il quale si
- chiamava Amaseno, e trovandol per una grandissima piova cresciuto
- molto, e sé veggendo convenirgli lasciar la fanciulla, se notando il
- volea trapassare, subitamente prese consiglio d'involgere questa
- fanciulla in un suvero e legarla alla sua lancia, e quella lanciare di
- lá dal fiume e poi esso notando passarlo. Per che, legatola e
- dovendola gittare oltre, umilemente la raccomandò a Diana, a lei
- botandola, se ella salva gliela facesse dall'altra parte del fiume
- ritrovare; e lanciatola e poi notando seguitola, e dall'altra parte
- trovata senza alcuna lesione la figliuola, andatosene con essa in
- certe selve vicine, allevò questa sua figliuola alle poppe d'una
- cavalla. Alla quale, come crescendo venne, appiccò una faretra alle
- spalle, e posele un arco in mano, e insegnolle non filare, ma saettare
- e gittar le pietre con la rombola, e correr dietro agli animali [e i
- suoi vestimenti erano di pelli d'animali] salvatichi. Ne' quali
- esercizi costei giá divenuta grande fu maravigliosa femmina; e fu in
- correre di tanta velocitá, che, correndo, ella pareva si lasciasse
- dietro i venti; e fu sí leggiera, che Virgilio, iperbolicamente
- parlando, dice che ella sarebbe corsa sopra l'onde del mare senza
- immollarsi le piante de' piedi. Costei da molti nobili uomini
- addomandata in matrimonio, mai alcuna cosa non ne volle udire, ma,
- virginitá servando, si dilettava d'abitar le selve nelle quali era
- stata allevata e di cacciare. Poi pare che richiamata fosse nel regno
- paterno; e, ritornatavi, e sentendo la guerra di Turno con Enea, da
- Turno richiesta, con molti de' suoi volsci andò in aiuto di lui; dove
- un dí, fieramente contro a' troiani combattendo, fu fedita d'una
- saetta nella poppa da uno che avea nome Arruns; della qual fedita essa
- morí incontanente.
- «Eurialo, Turno e Niso di ferute». Eurialo e Niso furono due giovani
- troiani, li quali in Italia aveano seguito Enea. Ed essendo insieme
- con Ascanio, figliuolo d'Enea, rimasi a guardia del campo d'Enea, il
- quale era andato a cercare aiuto contro a Turno a certi popoli
- circunvicini, avvenne che, premendo Turno molto Ascanio, si dispose
- Ascanio, per téma di non poter sofferire la forza di Turno, di far
- sentire ad Enea come da assedio era gravemente stretto, accioché di
- tornare in soccorso di lui il padre s'affrettasse. Alla qual cosa fare
- Niso si profferse, e ingegnavasi di farlo occultamente da Eurialo;
- percioché conosceva il pericolo esser grande, ed Eurialo ancora un
- garzone, ed egli nol voleva mettere a quel pericolo. Ma non seppe sí
- fare che Eurialo nol sentisse; per la qual cosa convenne che Eurialo
- andasse con lui. E, usciti una notte del campo d'Ascanio, convenendo
- loro passar per lo mezzo de' nemici, e tacitamente andando e
- trovandogli tutti dormire, n'uccison molti. Ed Eurialo, vago come i
- garzon sono, di certe armadure belle, tratte a coloro li quali uccisi
- aveano, carico, seguitando Niso, avvenne che si scontrarono in una
- grande quantitá di nemici, li quali come Niso vide, tantosto si
- ricolse in un bosco, credendo avere appresso di sé Eurialo; ma egli
- era rimaso, e giá intorniato da' nimici, quando Niso lui non esser
- seco si avvide. Per che voltosi, e vedendol nel mezzo de' nemici, e
- loro correntigli addosso per ucciderlo, tornando addietro, cominciò a
- gridare che perdonassero ad Eurialo, sí come a non colpevole, e
- uccidesson lui, il quale aveva tutto quello male fatto. Ma poco valse:
- essi uccisono Eurialo e poi ucciser lui; e cosí amenduni quivi morti
- rimasero.
- «Turno». Costui fu figliuolo di Dauno, re d'Ardea, e nepote carnale
- d'Amata, moglie di Latino, re de' laurenti, giovane ardentissimo e di
- gran cuore; il quale, vedendo Latino re avere data Lavina sua
- figliuola per moglie ad Enea, la qual prima avea promessa a lui,
- sdegnato, avea mosso guerra ad Enea, e per questo molte battaglie
- aveano fatte; ultimamente, secondo che Virgilio scrive nel fine del
- dodicesimo dell'_Eneida_, soprastandogli Enea in una singular
- battaglia stata fra loro, e veggendogli cinto il balteo, il quale era
- stato di Pallante, cui ucciso avea, lui addomandante perdono, uccise.
- E cosí dalle morti di costoro ha l'autore discritta di qual parte
- d'Italia intenda, cioè di quella lá dove è Roma, con alcune piccole
- circustanze: la quale in tanta superbia crebbe, che le parve poco il
- voler soprastare a tutto il mondo; né per la ruina del romano imperio
- cessò però la romana superbia, perseverando in essa la sede
- apostolica. Nella quale, al tempo che l'autore di prima pose mano alla
- presente opera, sedeva Bonifazio papa ottavo, il quale, quantunque
- altiero signor fosse molto, parve per avventura ancor molto piú
- all'autore, in quanto piegare non fu potuto a' piaceri né alle domande
- fatte da quegli della setta della quale fu l'autore.
- «Questi», cioè questo veltro, «la caccerá per ogni villa», cioè
- estermineralla del mondo, «Finché l'avrá rimessa nell'inferno, Lá onde
- invidia prima dipartilla». In queste parole chiaramente si può
- intendere, l'autore dire una cosa e sentire un'altra; conciosiacosaché
- manifesto sia in inferno non generarsi lupi, e perciò di quello non
- poterne essere stato tratto alcuno, per doverlo in questa vita menare.
- «Ond'io per lo tuo me'». In questa particella seconda della quarta,
- dice l'autore il consiglio preso da Virgilio per sua salute, e,
- secondo l'usanza poetica, mostra in poche parole ciò che dee trattare
- in tutto questo suo volume; e dice cosí: «Ond'io», considerata la
- natura di questa lupa che t'impedisce, «per lo tuo me', penso e
- discerno», giudico, «Che tu mi segua, ed io sarò tua guida, E
- trarrotti di qui», cioè di questo luogo pericoloso, «per luogo
- eterno», cioè per lo 'nferno e per lo purgatorio, i quali son luoghi
- eterni; «Dove», cioè in quel luogo, «udirai le dispietate strida», in
- quanto paiono d'uomini crudeli e senza alcuna umanitá; «E vederai gli
- spiriti dolenti, Che la seconda morte ciascun grida»; cioè la morte
- dell'anima, percioché quella del corpo, la quale è la prima, essi
- l'hanno avuta. Addomandano adunque la seconda, credendo per quella le
- pene, che sentono, non dover poscia sentire. [Ma i nostri teologi
- tengono che, quantunque essi la spiritual morte domandino, non perciò,
- potendola avere, la vorrebbono, percioché per alcuna cagione non
- vorrebbon perdere l'essere. Deesi adunque intendere li dannati chiamar
- la seconda morte, sí come noi mortali spesse volte chiamiamo la prima;
- la quale se venir la vedessimo, senza alcun dubbio a nostro potere la
- fuggiremmo. O puossi sporre cosí: tiensi per li teologi esser piú
- spezie di morte, delle quali è la prima quella della quale tutti
- corporalmente moiamo; la seconda dicono che è morte di miseria, la
- qual veramente io credo essere infissa ne' dannati, in tanta
- tribulazione e angoscia sono: e questo è quello che ciascun dannato
- grida, non dimandandola, ma dolendosi.]
- «E vederai color che son contenti Nel fuoco», della penitenza; e dice
- «contenti», percioché quella penitenza, che non si facesse con
- contentamento d'animo di colui che la facesse, non varrebbe alcuna
- cosa a salute; «perché speran di venire, Quando che sia», finito il
- tempo della penitenzia, «alle beate genti. Alle quali» beate genti,
- «se tu vorrai salire», però che sono in cielo, «Anima fia a ciò di me
- piú degna: [Con lei ti lascerò nel mio partire». E questa fia quella
- di Stazio poeta, con la quale egli poscia il lasciò in su la sommitá
- del monte di purgatorio, sopra la riva del fiume di Lete, come nel
- trentesimo canto del _Purgatorio_ si legge.] «Ché quello imperador»,
- cioè Iddio, «che lassú», cioè in cielo, «regna, Perch'io fui
- ribellante», non seguendola, «alla sua legge», a' suoi comandamenti,
- «Non vuol che in sua cittá», in paradiso, «per me si vegna. In tutte
- parti impera», comandando, «e quivi», nel cielo empireo, «regge: Quivi
- è la sua cittá», nel cielo, «e l'alto seggio», reale. «O felice colui,
- cui quivi elegge!», per abitatore di quello, come i beati sono.--
- «Io cominciai:--Poeta». In questa quinta particella l'autore, udito il
- consiglio di Virgilio, e approvandolo, lo scongiura che quivi il meni,
- dicendo: «io ti richieggio, Per quello Iddio», cioè Gesú Cristo, «che
- tu non conoscesti, Accioch'io fugga questo male», cioè il pericolo nel
- quale al presente sono, «e peggio», cioè la morte, «Che tu mi meni lá
- ove or dicesti», cioè in inferno e in purgatorio, «Sí ch'i' vegga la
- porta di san Pietro», cioè la porta del purgatorio, dove sta il
- vicario di san Piero: «Con quelli i quai tu fai», cioè di' essere,
- «cotanto mesti», cioè dolorosi, dannati alle pene eterne.--
- «Allor si mosse», entrando nel cammino dimostrato; ed è atto d'uomo
- disposto a quello di che è richiesto, che senza eccezione il mette ad
- esecuzione. Ed è questa l'ultima particella delle sei, che dissi esser
- partita la seconda parte principale del primo canto. «Ed io gli tenni
- dietro», cioè il seguitai.
- II
- SENSO ALLEGORICO
- [Lez. V]
- «Nel mezzo del cammin di nostra vita», ecc. Poi che, per la grazia di
- Dio, è quello, che secondo il senso litterale si può, dimostrato, è da
- tornarsi al principio di questo canto, e quello che sotto la rozza
- corteccia delle parole è nascoso, cioè il senso allegorico, aprire e
- dichiarare. Intorno alla qual cosa credo udirete cose per le quali vi
- si potrebbe forse meritamente dire le parole che l'autore medesimo
- dice nel secondo canto del _Paradiso_, cioè: «Que' gloriosi che
- passâro a Colco, Non s'ammiraron, come voi farete, Quando vider Giason
- fatto bifolco». Percioché allora per effetto potrete vedere quanto
- d'arte e quanto di sentimento sia stato e sia nello stilo poetico,
- oltre alla stima che molti fanno. E peroché gustando con lo 'ntelletto
- il mellifluo e celestial sapore, nascoso sotto il velo del favoloso
- discrivere, forse vi dorrete il nostro poeta e gli altri avere tanta
- soavitá riposta, in guisa che senza difficultá aver non si puote; e
- direte:--Perché non diedono i poeti la loro dottrina libera e aperta
- ed espedita, come molti altri fanno la loro, sí che, chi volesse, ne
- potesse prendere frutto piú tosto?--In risponsione della qual cosa si
- possono due ragioni dimostrare: e la prima può esser questa.
- Costume generale è, di tutte le cose meritamente da aver care, il
- discreto uomo non tenerle in piazza, ma sotto il piú forte serrame
- c'ha nella sua casa, e con grandissima diligenza guardarle, e ad
- alquanti suoi amici, ma a pochi e rade volte, mostrarle; e questo fa,
- accioché il troppo farne copia non faccia quelle divenire piú vili. Il
- che per atto possiam tutto il dí vedere avvenire; e, se in ogni altra
- cosa nascosa ci fosse questa veritá, guardiamo al sole, del quale
- alcuna cosa sí bella, non che piú, veggiamo, né alcuna sí chiara
- muoversi, non tirato né sospinto, se non dal divino ordine impostogli;
- pieno di tanta luce, che ogni altro lucido corpo illumina, ogni
- terrena cosa vivifica, accresce e nutrica e al suo fine conduce: il
- quale, per troppo mostrarsi, è non solamente poco prezzato, ma son di
- quegli che di vederlo ischifano. Per la qual cosa, accioché questo non
- seguiti, non so qual altra cosa noi possiamo con piú certa ragion dire
- che sia piú cara, piú da gradire e meglio da riporre e da guardare,
- che sono gli alti effetti della natura e i secreti misteri e i sublimi
- della divinitá. Questi, se negl'intelletti universalmente del vulgo
- divenissero, in poco tempo ne seguirebbe che sarebbon pregiati meno
- che non è il sole, o che i ragionamenti meccanici e le favole delle
- femminelle. E per questo lo Spirito santo, d'ogni cosa dottissimo, gli
- alti segreti della divina mente nascose, come noi possiam vedere,
- nelle figure del _Vecchio Testamento_, nelle _Visioni_ di certi
- profeti, e ancora nell'_Apocalissi_ di Giovanni evangelista, sotto
- parole tanto nella prima faccia differenti dal vero e meno conformi
- nell'apparenza a' sensi nascosi, che per poco piú esser non
- potrebbono. Le vestigie del quale, con quelle forze che possono gli
- umani ingegni seguir la divinitá, con ogni arte s'ingegnarono di
- seguitare i poeti, quelle cose che essi estimavano piú degne sotto
- favoloso parlare nascondendo, accioché dove carissime sono, non
- divenissero vili ad ogni uomo, aperte lasciandole. Il che assai bene
- pare ne dimostri Macrobio, nel primo libro _De somnio Scipionis_, cosí
- dicendo: «_De diis autem, ut dixi, caeteris et de anima, non frustra
- se, nec ut oblectent, ad fabulosa convertunt, sed quia sciunt inimicam
- esse naturae apertam nudamque expositionem sui: quae, sicut vulgaribus
- hominum sensibus intellectum sui vario rerum tegmine operimentoque
- subtraxit, ita a prudentibus arcana sua voluit per fabulosa tractari.
- Sic ipsa mysteria figurarum cuniculis operiuntur, ne vel hoc adeptis
- nudam rerum talium natura se praebeat, sed summatibus tantum viris,
- sapientia interprete, veri arcani consciis. Contenti sint reliqui ad
- venerationem, figuris defendentibus a vilitate secretum_», ecc.
- La seconda ragione può essere questa. Suole quello, che con difficultá
- s'acquista, piacer piú e guardarsi meglio che quello che senza alcuna
- fatica o poca si truova; e questo le grandi ereditá rimase a' nostri
- giovani cittadini hanno mostrato. Non essendo adunque alcun dubbio
- esser molta malagevolezza il trarre la nascosa veritá di sotto al
- fabuloso parlare, dee seguire essere incomparabile diletto, a colui
- che, per suo studio, vede averla saputa trovare; laonde non solamente
- ogni affanno avutone se ne dimentica, ma ne rimane una dolcezza
- nell'animo, la quale quasi con legame indissolubile ferma, nella
- memoria di colui che ritrovata l'ha, la veritá: dove quella che senza
- alcuna difficultá s'acquista, come leggiermente venne, cosí
- leggiermente si parte. Di che séguita che dell'avere faticato
- s'acquista, dove del non avere studiato l'uomo si ritruova di scienza
- vòto.
- [La terza ragione mi pare dovere esser questa. E' non pare che alcun
- dubbio sia li cieli, i pianeti e le stelle esser ministri della divina
- potenza, e, secondo la virtú loro attribuita, i corpi inferiori
- generare, mediante quelle cagioni che dalla natura sono ordinate, e
- quegli nutrire e nel lor fine menargli. E, percioché essi corpi
- superiori sono in continuo moto e in diversi modi si congiungono e si
- separano l'uno dall'altro, par di necessitá che gli effetti da lor
- prodotti in diversi tempi e in materie diverse, debbano esser diversi
- e a diverse cose disposti; e quinci par che séguiti la diversitá degli
- aspetti degli uomini, de' quali non pare che alcuno alcun altro
- somigli; e similmente degli ofici, li quali veggiam manifestamente
- essere, eziandio naturalmente, diversi negli uomini. Dalla qual cosa
- mosso, dice il nostro autore nel _Paradiso_:
- Un ci nasce Solone, ed altro Serse,
- altri Melchisedech, ed altri quello
- che, volando per l'aere, il figlio perse.
- E questo si dee cognoscere muovere dal divino intelletto, il quale
- cognosce una universitá, come è quella dell'umana generazione, non
- poter consistere in sé, se non avesse diversitá d'ufici. E perciò,
- accioché dell'altre cose lasciamo al presente stare, alcun ci nasce
- atto a filosofia, alcuno ad astrologia, alcuno a poesia e alcuni altri
- ad altre scienze. Colui, che nasce atto a poesia, séguita, quanto può
- e sa, d'esercitarsi nel poetico oficio; e, quantunque da Dio sia alle
- nostre anime, le quali esso _immediate_ crea, data la ragione e il
- libero arbitrio, per lo quale, non ostante la forza de' cieli, ciascun
- può far quello che piú gli aggrada, pare che il piú seguitin gli
- uomini quello a che essi sono atti nati. Laonde quegli che al poetico
- oficio è nato, eziandio volendo, non pare che possa fare altro che
- quello che a tale oficio s'appartiene; e, percioché a quello oficio
- s'appartiene quello che di sopra è detto, se egli in quello
- laudevolmente s'esercita, non è per avventura da maravigliarsene]. E
- perciò non si rammarichi alcuno, se dai poeti è sotto favole nascosa
- la veritá, ma piú tosto si dolga della sua negligenza, per la quale e'
- perde o ha perduto quello che il farebbe lieto, faticandosi d'avere
- ritrovata la cara gemma nella spazzatura nascosa. E questo basti avere
- a questa parte risposto.
- Fu adunque il nostro poeta, sí come gli altri poeti sono,
- nasconditore, come si vede, di cosí cara gioia, come è la cattolica
- veritá, sotto la volgare corteccia del suo poema. [Per la qual cosa si
- può meritamente dire questo libro essere poliseno, cioè di piú sensi.
- De' quali è il primo senso quello il quale egli ha nelle cose
- significate per la lettera, sí come voi potete aver di sopra, nella
- esposizion litterale, udito; e chiamasi questo senso «litterale», e
- cosí è. Il secondo senso è allegorico o vero morale, il quale,
- accioché voi comprendiate meglio, esemplificando vel dichiarerò in
- questi versi: «_In exitu Israël de Aegypto, domus Iacob de populo
- barbaro: facta est Iudea sanctificatio eius, Israël potestas eius_».
- Da' quali, se noi guarderemo a quello che la lettera suona solamente,
- vedremo esserci significato l'uscimento de' figliuoli di Israel
- d'Egitto al tempo di Moisé; e se noi guarderemo alla alligoria,
- vedremo esserci mostrata la nostra redenzione fatta per Cristo; e se
- noi guarderemo al senso morale, vedremo esserci mostrata la
- conversione dell'anima nostra dal pianto e dalla miseria del peccato
- allo stato della grazia; e se noi guarderemo al senso anagogico,
- vedremo esserci dimostrato l'uscimento dell'anima santa dalla
- corruzione della presente servitudine alla libertá della gloria
- eternale. E cosí come questi sensi mistici sono generalmente per vari
- nomi appellati, tutti nondimeno si possono appellare «allegorici»,
- conciosiacosaché essi sieno diversi dal senso litterale o vero
- istoriale: e questo è, percioché «allegoria» è detta da un vocabolo
- greco, detto «_aileon_», il quale in latino suona «alieno», ovvero
- diverso; e perciò dissi questo libro esser poliseno, percioché tutti
- questi sensi, da chi tritamente volesse guardare, gli si potrebbono in
- assai parti dare]. E per questo, agutamente pensando, forse potremmo
- del presente libro dir quello che san Gregorio dice, nel proemio de'
- suoi _Morali_, della Santa Scrittura, cosí scrivendo: «_Sacra
- Scriptura locutionis suae morem transcendit, quia in uno eodemque
- sermone dum narrat textum prodit mysterium, et sic mysterio sapientes
- exercet, sic superficie simplices refovet. Habet in publico unde
- parvulos nutriat, servat in secreto unde mentes sublimium in
- admiratione suspendat. Quasi quidem quippe est fluvius, ut ita
- dixerim, planus et allus, in quo et agnus ambulet, et elephans
- natet_», ecc.; percioché, recitando della presente opera la corteccia
- litterale, con quella insieme narriamo il misterio delle cose divine e
- umane, sotto quella artificiosamente nascose, e in questa maniera
- intorno al senso allegorico si possono i savi esercitare, e intorno
- alla dolcezza testuale nudrire i semplici, cioè quelli li quali ancora
- tanto non sentono, che essi possano al senso allegorico trapassare:
- cosí possiam vedere questo libro avere in publico donde nutrir possa
- gl'ingegni di quegli che meno sentimento hanno, e donde egli sospenda
- con ammirazione le menti de' piú provetti. E ancora, quantunque alla
- Sacra Scrittura del tutto agguagliar non si possa, se non in quanto di
- quella favelli, come in assai parti fa, nondimeno, largamente
- parlando, dir si può di questo, quello esserne che san Gregorio
- afferma di quello: cioè questo libro essere un fiume piano e profondo,
- nel quale l'agnello puote andare e il leofante notare, cioè in esso si
- possono i rozzi dilettare e i gran valenti uomini esercitare.
- Ma, avendo giá l'una delle due parti in questo primo canto mostrata,
- cioè come quegli, che di minor sentimento sono, si possano intorno al
- senso litterale non solamente dilettare, ma ancora e nudrire e le lor
- forze crescere in maggiori; è da dimostrare la seconda, intorno alla
- quale si possano gl'ingegni piú sublimi esercitare: la qual cosa si
- fará aprendo quello che sotto la crosta della lettera sta nascoso.
- Intorno alla qual cosa sono da considerare, quanto è alla prima parte
- del presente canto, dieci cose: delle quali la prima será il veder
- quello che il nostro autore voglia sentire per lo sonno, il quale dice
- che ricordar nol lascia come nella selva oscura s'entrasse; la
- seconda, come noi in questo sonno ci leghiamo; la terza, qual fosse la
- diritta via la quale per questo sonno dice d'avere smarrita; la
- quarta, qual cosa potesse essere quella che il movesse a ravvedersi
- che esso avesse la diritta via smarrita; la quinta, perché piú nel
- mezzo del cammino di nostra vita che in altra etá; la sesta, quello
- che egli intenda per quella selva tanto oscura e malagevole, quanto
- dimostra esser quella nella quale dice si ritrovò; la settima, perché
- piú nel principio del dí che ad altra ora scriva d'essersi ravveduto;
- la ottava, quello che vuole s'intenda per li raggi del sole
- apparitigli e per lo monte nella sommitá del quale gli apparvero; la
- nona, quello che esso senta per la considerazione avuta, poi che
- alquanto la paura gli cessò; la decima, quello che noi dobbiam sentire
- per le tre bestie le quali lo impedivano a salire al monte. E, queste
- vedute, procederemo alla seconda parte del presente canto.
- La prima cosa, la qual dissi si voleva investigare, accioché il senso
- allegorico, nascoso sotto la lettera della prima parte di questo
- canto, si manifesti, è quello che il nostro autore voglia sentire per
- lo sonno, il qual dice che ricordar nol lascia come egli entrasse
- nell'oscura selva. Ad evidenzia della quale è da sapere che 'l sonno,
- che alla presente materia appartiene, è di due maniere: l'una è sonno
- corporale, l'altra è sonno mentale. Il sonno corporale si può in due
- maniere distinguere. Delle quali l'una è naturale, e puossi dire esser
- quella la quale naturalmente in noi si richiede in nudrimento e
- conservazione della nostra sanitá: il quale, occupandoci, lega e quasi
- oziose rende tutte le nostre forze (ovvero potenze) sensitive e le
- intellettive, percioché, perseverante esso, né sentiamo né intendiamo
- alcuna cosa; di che a' morti simili divegnamo. Ma, poi che la natura
- ha preso per la sua indigenza quello che l'è opportuno a restaurazione
- delle virtú faticate nella vigilia e in conforto della vegetativa
- virtú, eziandio senza essere da alcuno escitati, da questo per noi
- medesimi ci sciogliamo. E di questo alcuna cosa piú distesamente
- diremo nel principio del quarto canto del presente libro. L'altra
- maniera del corporal sonno è quella, dalla quale vinta ogni corporal
- potenza, si separa l'anima dal corpo, e senza alcuna cosa sentire o
- potere o sapere, immobili giacciamo, e giaceremo infino al dí
- novissimo, senza poterci levare. E di questo intende il salmista,
- quando dice: «_Cum dederit dilectis suis somnum_».
- Il sonno mentale, allegoricamente parlando, è quello quando l'anima,
- sottoposta la ragione a' carnali appetiti, vinta dalle concupiscenze
- temporali, s'addormenta in esse, e oziosa e negligente diventa, e del
- tutto dalle nostre colpe legata diviene, quanto è in potere alcuna
- cosa a nostra salute operare. E questo è quel sonno, dal quale ne
- richiama san Paolo, dicendo: «_Hora est iam nos de somno surgere_». E
- questo sonno può essere temporale e può esser perpetuo. Temporale è
- quando ne' peccati e nelle colpe nostre inviluppati dormiamo; e il
- salmista dice: «_Surgite postquam sederitis, qui manducatis panem
- doloris_»; e in altra parte san Paolo, dicendo: «_Surge, qui dormis,
- et exurge a mortuis, et illuminabit te Christus_». E talvolta avviene
- per sola benignitá di Dio che noi ci risvegliamo, e, riconosciuti i
- nostri errori e le nostre colpe, per la penitenzia levandoci, ci
- riconciliamo a Dio, il quale non vuole la morte dei peccatori; e, a
- lui riconciliati, ripognamo, mediante la sua grazia, la ragione, sí
- come donna e maestra della nostra vita, nella suprema sedia
- dell'anima, ogni scellerata operazione per lo suo imperio scalpitando
- e discacciando da noi. Perpetuo è quel sonno mentale, il quale, mentre
- che ostinatamente ne' nostri peccati perseveriamo, ne sopraggiugne
- l'ora ultima della presente vita, e in esso addormentati, nell'altra
- passiamo, lá dove, non meritata la misericordia di Dio, in sempiterno
- coi miseri in tal guisa passati, dimoriamo. Li quali si dicon «dormire
- nel sonno della miseria», in quanto hanno perduto il poter vedere,
- conoscere e gustare il bene dello 'ntelletto, nel qual consiste la
- gloria de' beati. È adunque questo sonno mentale quello del quale il
- nostro autor vuole che qui allegoricamente s'intenda; nel qual,
- ciascuno che si diletta piú di seguir l'appetito che la ragione, è
- veramente legato, e ismarrisce, anzi perde la via della veritá, alla
- quale in eterno non può ritornare.
- La seconda cosa che era da vedere dissi che era come noi in questo
- sonno mentale ci leghiamo. E, percioché i lacciuoli sono infiniti, li
- quali la carne, il mondo e 'l dimonio tendono alla nostra sensualitá,
- pienamente dire non se ne potrebbe per lingua d'uomo; ma ad un de'
- modi, il quale è quasi universale, riducendoci, dico che, dalla nostra
- puerizia, noi il piú dirizziamo i piedi, cioè le nostre affezioni, in
- questi lacci, e, quasi non accorgendocene (percioché piú i sensi che
- la ragione abbiamo allora per guida), sí c'inveschiamo, che poi o non
- ci sciogliamo da quegli, o non senza grande difficultá, volendo, ce ne
- sviluppiamo. A questa etá i nostri tre predetti nemici con ogni
- sollecitudine stendono le reti loro. E la ragione è questa: l'etá,
- come detto è, è tenera e nuova e vaga, e la sensualitá è in essa
- fortissima, percioché la ragione non v'è ancora assai perfetta; e,
- secondo che pare che la esperienza ne dimostri, dalla gola, alla quale
- quella etá è inchinevole, par che prenda inizio la nostra ruina. E la
- ragione pare assai manifesta: sono generalmente i fanciulli vaghi del
- cibo, sospignendogli a ciò la natura che il suo aumento disidera; e
- gustando, come spesso avviene, le saporite e dilicate vivande e i vini
- esquisiti, a pian passo procedendo ed ausando il gusto a quello che
- non gli bisognerebbe, cominciano, quantunque piccoli e fanciulli
- sieno, ad aver men cari quegli cibi, che, quantunque rozzi, soleano
- satisfare alla fame e alla sete loro, e i piú preziosi desiderano e
- domandano, e dal disiderio ad ottenergli si sforzano; e con questo
- nella etá piú piena procedendo, quasí come da naturale ordine tirati,
- nel vizio della lussuria discorrono. Questa, la quale non solamente i
- giovani, ma i vecchi fa se medesimi sovente dimenticare, loro con
- tante e tali lusinghe diletica, che, potendo all'appetito la vigorosa
- etá dell'adolescenza sodisfare, con ogni pensiero e con ardentissima
- affezione quello vituperevole diletto seguendo, tutti si mettono. E
- quinci, per compiacere, negli ornamenti del corpo discorrono, non
- altrimenti assai sovente ornandosi, che se vender si volessono al
- mercato de' poco savi. Le quali cose, percioché senza denari esercitar
- pienamente non si possono, gli sospingono nel disiderio d'aver denari,
- e, per quegli ogni coscienza posposta, senza alcuna difficultá ad ogni
- disonesto guadagno si dispongono, e quinci giucatori, ladri,
- barattieri, simoniaci, ruffiani e disleali divengono. E giá ad etá piú
- piena d'anni venuti, veggendo gli onori, la pompa, la potenza e la
- grandigia de' re, de' signori, de' gran cittadini, di quegli
- s'accendono, e quinci invidiosi, superbi, crudeli e ambiziosi
- divengono. Le quali cose, e altre molte, cosí successivamente, e
- talora con altro ordine cresciute, e multiplicate e abituate in noi,
- nel sonno della oblivione dei comandamenti di Dio ci legano e tengon
- sí stretti, che, quasi convertite in natura, per romore che fatto ci
- sia in capo, destare non ci lasciano. Le quali cose accioché a'
- lacedemoni avvenir non potessero, per legge comandò Licurgo che i lor
- figliuoli, ecc. (vedi Giustino, nel terzo libro, poco dopo il
- principio). [Né è mia intenzione il modo da addormentare i miseri nel
- sonno de' peccati lasciare.] Percioché molti aguati hanno gli
- avversari nostri, con li quali, se creduti sono, ogni matura e robusta
- etá adoppiano: ma perciò mi piacque far singular menzione di questa,
- perché, in questo modo presi, ci abituiamo ne' peccati; e por giú
- l'abito preso è difficilissimo; e, se pur si rimuove l'uomo talvolta
- dal peccare, con molta meno difficultá v'è rivocato colui che abituato
- vi fu, che colui che non vi fu abituato, e alcuna volta da essa
- memoria delle colpe giá commesse v'è ritirato.
- La terza cosa, la qual dissi era da cercare, è di veder qual sia la
- via la quale l'autore dice d'avere per questo sonno smarrita. Egli è
- il vero che le vie son molte, ma tra tutte non è che una che a porto
- di salute ne meni, e quella è esso Iddio, il quale di sé dice
- nell'Evangelio: «_Ego sum via, veritas et vita_»; e questa via tante
- volte si smarrisce (dico «smarrisce», perché poi chi vuole la può
- ritrovare, mentre nella presente vita stiamo), quante le nostre
- iniquitá dai piaceri di Dio ne trasviano, mostrandoci nelle cose
- labili e caduche esser somma e vera beatitudine. E questa via, per la
- quale i nostri avversari ci ritorcono, danna il salmista, dicendo:
- «_Beatus vir qui non abiit in consilio impiorum, et in via peccatorum
- non stetit_», ecc.; ed in altra parte dice pregando: «_Viam
- iniquitatis amove a me, et in lege tua miserere mei_». Chiamasi ancora
- la vita presente «via»; e di questa dice il salmista: «_Beati
- immaculati in via_»; e in altra parte: «_De torrente in via bibit_».
- Ma, come detto è, accioché di molt'altre lasciamo istare il ragionare,
- la prima è quella per la quale, se la gloria eterna vogliamo, ci
- conviene andare: e da questa si smarrisce ciascuno il quale nel sonno
- de' peccati si lega. E, percioché, come di sopra è mostrato,
- lusinghevolmente sottentrano i vizi, e cominciano in etá nella quale
- pienamente conosciuti non sono, dice l'autore non ricordarsí come
- questa via diritta abbandonasse. E credibile è. Chi sará colui che
- pienamente della origine delle sue colpe si possa ricordare?
- Conciosiacosaché esse vengano con diletto della sensualitá, e, quel
- passato, quasi state non fossero, leggiermente in dimenticanza si
- mettono.
- La quarta cosa, la qual propuosi da essere da investigare, fu qual
- cosa potesse esser quella che l'autor movesse a ravvedersi che esso
- avesse la diritta via smarrita. E questa, senza alcun dubbio, si dee
- credere che fosse la grazia di Dio, il quale ci ama assai piú che non
- ci amiamo noi medesimi, e sempre è alla nostra salute sollecito; il
- che assai bene ne mostra Giovenale, dicendo:
- _Nam pro iocundis aptissima quaeque dabunt dii:
- carior est homo illis, quam sibi_, ecc.
- Ma, accioché noi cognosciamo qual fosse la grazia di Dio, dalla quale
- l'autore tócco si movesse a destarsi del sonno mortale, nel quale la
- mente sua era legata, e a ravvedersi in qual pericolo fosse l'anima
- sua è da sapere, sí come il «maestro delle sentenze» afferma, esser
- quattro grazie quelle che la divina bontá ci presta alla nostra
- salute: delle quali la prima è chiamata grazia «operante», della quale
- dice san Paolo: «Per la grazia di Dio io sono quello che io sono»; la
- seconda grazia si chiama grazia «cooperante», e di questa dice san
- Paolo medesimo: «La grazia di Dio non fu in me vacua»; la terza grazia
- si chiama «perseverante», della qual dice il salmista: «_Et
- misericordia eius subsequatur me omnibus diebus vitae meae_»; la
- quarta grazia si chiama «salvante», della quale si legge
- nell'Evangelio: «_De plenitudine eius omnes accepimus gratiam per
- gratiam_». Fa adunque la prima grazia, del malvagio uomo, buono, sí
- come nel _Libro della sapienza_ si scrive: «_Verte ipsum, et non
- erit_»; e san Paolo dice: «_Fuistis aliquando tenebrae, nunc autem lux
- in Domino_». La seconda, cioè la cooperante, fa del buono, migliore; e
- di ciò dice il salmo: «_Ibunt de virtute in virtutem_». La terza, cioè
- la perseverante, ne trasporta della via nella patria, della quale dice
- l'Evangelio: «_Qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit_»;
- nell'_Apocalissi_ si legge: «_Quicumque vicerit, dabo ei edere de
- ligno vitae, quod est in paradiso Dei mei_»; e in altra parte
- nell'_Apocalissi_ medesimo: «_Quicumque vicerit, faciam illum columnam
- in templo Dei mei_». La quarta, cioè la salvante, secondo i meriti
- guiderdona i faticanti; di che l'Evangelio dice: «_Quid hic statis
- quotidie ociosi? ite et vos in vineam meam, et quod iustum fuerit dabo
- vobis_»; e san Paolo: «_ut recipiat unusquisque secundum ea quae
- fecit_». Di queste quattro grazie, delle quali ho alquanto parlato,
- percioché piú volte nel processo di questo libro se n'ará a ragionare,
- piú diffusamente se ne vorrebbe esser detto; nondimeno questo basti al
- presente. E dico che la prima grazia senza alcun merito di colui che
- la riceve si dona; di che dice san Paolo: «_Non secundum opera quae
- fecimus nos, sed secundum suam misericordiam salvos nos fecit_». Le
- qualitá delle quali grazie considerate, assai manifestamente appare la
- prima delle quattro essere stata quella che al nostro autore (e
- similemente a ciascun altro che in simile caso si truova), fu
- conceduta da Dio, per la quale esso il suo misero stato conobbe.
- Ma potrebbe alcun domandare: in che maniera tocca Domeneddio i
- peccatori con questa sua grazia? Le maniere son molte, percioché a
- tanto artefice, quanto Iddio è, non mancò mai modo a quello che egli
- volesse adoperare. Dice il salmista: «_Dixit et facta sunt: mandavit
- et creata sunt_». Esso primieramente alcuna volta con visioni tocca le
- menti di coloro che di questa grazia hanno bisogno, sí come noi
- leggiamo di Costantino imperadore, il quale, dormendo, vide san Pietro
- e san Paolo, e il loro ammaestramento udí, e poi si destò dal corporal
- sonno e dal mentale, quello seguí, e gli errori del paganesimo tutti
- da sé cacciò. Tocca alcuna volta con aperta visione, come fece san
- Paolo quando andava a Damasco; e fu di sí fatta forza questo
- toccamento, che esso divenne subitamente, di lupo, agnello e vaso di
- elezione pieno di Spirito santo. Tocca ancora co' suoi messaggeri, sí
- come fece David, il quale per l'omicidio d'Uria e per l'adulterio
- commesso in Bersabé, essendosi dal suo piacer partito, mandatogli
- Nathan profeta, il fece riconoscere; il quale, piangendo, e in quel
- salmo allora da lui composto, cioè «_Miserere mei, Deus_», la sua
- misericordia addomandando, impetrò del commesso perdonanza; e
- similemente Ezechia re, nunziatagli per comandamento di Dio da Isaia
- profeta la sua morte, pianse e pregò, e impetrò quindici anni di vita.
- Tocca ancora con tribulazioni intorno alle cose mondane; perché gli
- uomini, sentendosi affliggere nella perdita de' figliuoli e delle
- possessioni, delle mercatanzie, degli stati e di simili cose, quasi
- desti dal mortal sonno si ritornano verso Iddio, e ingegnansi d'uscire
- della via delle tenebre e tornare alla luce. E quantunque saper non
- possiamo qual si fosse, di queste o forse d'alcuna altra, la maniera
- con la quale la grazia di Dio toccò l'autore addormentato dal sonno
- mentale, credesi nondimeno per molti che da tribulazioni fosse tócco;
- giá aveggendosi in questo tempo, nel quale la presente opera
- incominciò, di quello che poi quasi a mano a mano gli avvenne, cioè di
- dover perdere lo stato suo, e di dovere andar in esilio, e di dovere
- nelle proprie cose ricever danno. Per la qual cosa, da questa grazia
- operante tócco, cominciò a pensare, e pensando a conoscere le cose
- presenti non avere alcuna stabilitá, esser piene d'invidia e di
- pericoli, e nulla altra cosa in sé aver fermezza se non il servire e
- amare Iddio. Dal quale pensiero fu cominciata a rompere la nuvola
- della ignoranza, la quale infino a quella ora l'avea occupato, e
- cominciò a conoscere la miseria dello stato de' peccati, e ad
- avvedersi in quanti e quali fosse inviluppato, e in quanto pericolo
- esso fosse lungamente dimorato d'andare ad eterna perdizione.
- La quinta cosa, che dissi era da vedere, è perché piú nel mezzo della
- nostra vita che in altra etá questo avvenisse. Intorno alla qual cosa
- è da sapere questo vocabol «mezzo» potersi prendere in due modi. L'un
- modo è quello che nella esposizione litterale dicemmo, cioè puntale;
- il quale mezzo è dirittamente quel punto che igualmente è distante a
- due estremitá. Verbigrazia: egli è una verga lunga due braccia, cioè
- dall'una estremitá della verga all'altra sono due braccia; per che il
- mezzo puntale di questa verga sara lá dove, dall'una estremitá
- cominciandosi e andando verso l'altra la lunghezza d'un braccio, lá
- dove egli finirá, sia puntalmente il mezzo di questa verga. E possiamo
- ancor dire il mezzo puntale esser quel punto il quale la sesta fa,
- quando alcun cerchio discriviamo; percioché questo in ogni parte del
- cerchio è igualmente distante dalla circunferenza. La seconda maniera
- del mezzo s'intende assai sovente ciò che si contiene intra due
- estremi, o infra la circunferenza del cerchio; sí come Niccolaio di
- Tamech sopra il Tito Livio dice che Arno è un fiume posto nel mezzo
- tra Fiesole e Arezzo; e in alcun luogo dice la Scrittura, Ierusalem
- essere nel mezzo del mondo: per lo qual mezzo molti intendono il mezzo
- puntale, e ciò, come i geometri sanno, non è vero. E perciò in questa
- parte è da prendere la parola dell'autore, quanto alla persona sua,
- per lo mezzo puntale; percioché, come di sopra mostrammo, egli era di
- etá di trentacinque anni, ch'è il mezzo puntale della vita nostra,
- quando, tócco dalla grazia di Dio, si ravvide dove l'aveva la
- ignoranza menato. Ma, percioché a ciascuno uomo, in che etá egli si
- sia, può avvenire, anzi avviene tutto il dí, che, abbandonata la via
- della veritá, s'entra ne' vizi, e similemente, per la grazia di Dio,
- il ravvedersi; si può per gli altri, i quali in altra etá che l'autore
- si ravveggono, intender questo mezzo quello spazio che è posto in fra
- il dí della nostra nativitá e il dí della morte. E puossi quel mezzo
- il quale per l'autore s'intende, che è intorno all'etá de'
- trentacinque anni, moralmente prendere, secondo che in quella etá ogni
- corporale virtú è a sua perfezion venuta; e cosí, in qualunque tempo
- l'uomo si ravvede del suo mal vivere e al ben vivere si converte, si
- può dire ogni potenzia animale esser venuta in perfetta virtú; e cosí
- nella buona disposizione, aiutato dalla grazia cooperante,
- perseverando, va di questa virtú in altra maggiore, e di quell'altra
- in un'altra, tanto che egli perviene dove ciascun discreto disidera al
- suo fine di venire.
- La sesta cosa, la qual dissi che era da investigare, era quello
- ch'egli intendesse per quella selva oscura e malagevole nella quale
- dice si ritrovò. È adunque questa selva, per quello che io posso
- comprendere, lo 'nferno, il quale è casa e prigione del diavolo, nella
- quale ciascun peccatore cade ed entra, sí tosto come cade in peccato
- mortale. E che ella sia lo 'nferno, la discrizion di quella il
- dimostra assai chiaro, in quanto dice che ella era «oscura», cioè
- piena d'ignoranza (il che assai chiaro ne mostra Isaia quando dice:
- «_Erravimus a via veritatis, et sol iustitiae non illuxit nobis_»),
- considerata la qualitá di coloro che in essa dimorano: peroché, se in
- loro fosse alcuna luce di sapienza, non è alcun dubbio che non
- cercasson tantosto d'uscirne. E chi è piú ignorante che colui il
- quale, potendo schifare il fare contro a' comandamenti del suo
- Creatore (ché può ciascun che vuole), si lascia tirare alle lusinghe
- della carne e del mondo e alle fallacie del dimonio? o che pure,
- veggendosi per la nostra fragilitá tirato, non si sforza, avendo la
- via, d'uscirne, ma, aggiugnendo l'una colpa sopra l'altra, piú se
- medesimo inviluppa, e fa col continuo peccare piú tenebroso il suo
- intelletto e piú forti le catene del suo avversario? Dice, oltre a
- ciò, questa selva essere «selvaggia», sí come del tutto strana da ogni
- abitazione umana: percioché nella prigion del diavolo, nella quale noi
- medesimi peccando ci mettiamo, non è alcuna umanitá, né pietá, né
- clemenzia, anzi è piena di crudelitá, di bestialitá e di iniquitá. Né
- osta il dire: egli v'abitano gli uomini peccatori; percioché questo
- non è vero; ché, come l'uomo ha commesso il peccato, egli diventa
- quella bestia, li cui costumi son simili a quel peccato. Verbigrazia:
- colui che nel vizio della lussuria si lascia cadere, percioché la
- lussuria per la sua bruttezza è simigliata al porco, esso diventa
- porco, quantunque effigie umana gli rimanga; e il rapace diventa lupo,
- perché il lupo è rapacissimo animale: e cosí quello luogo è salvatico,
- sí come privato d'ogni umana stanza. È, oltre a questo, «aspra» per le
- spine, per li triboli e per gli stecchi, cioè per le punture de'
- peccati, li quali, continuamente dai morsi della coscienza infestati,
- dolorosamente pungono il peccatore. Ed è «forte», in quanto
- tenacissimi sono i legami del diavolo, e massimamente negli ostinati,
- li quali, poi che nel profondo delle colpe caduti sono, della divina
- misericordia disperandosi, disprezzano Iddio e turano gli orecchi alli
- ammonimenti de' giusti uomini e alla evangelica dottrina. E, per
- queste qualitá, a colui il qual è tócco dalla divina grazia, ella pare
- (e cosí è), piena di tanta amaritudine, che poco piú è la morte
- eternale, nella quale alcuna dolcezza non s'aspetta giammai.
- Nondimeno dice l'autore alcun bene aver trovato in essa. Per lo qual
- bene niun'altra cosa credo che sia da intendere, altro che la
- misericordia di Dio, la quale non ha luogo che ne' giusti s'adoperi; e
- cosí ne' peccatori è tanto necessaria, che, se essa non fosse, alcun
- nostro merito né lagrima mai potrebbe sodisfare alla divinitá, del
- peccato commesso. Ella adunque è quella, che, nella oscuritá della
- nostra ignoranza e delle nostre colpe, colle braccia aperte si trova
- presta a non guardare a' difetti commessi, ma solamente alla buona
- affezione di chi a lei rivolger si vuole per doverla ricevere; questa
- è quella, la cui benignitá riguardata, a sé dalla disperazion ci
- ritira. Della quale, sí come di bene trovato lá ove ella è opportuna,
- l'autore dice di voler trattare, sí come fa nel libro secondo della
- presente _Commedia_, nel quale pienamente si posson comprendere e la
- sua santissima liberalitá e pietosi effetti verso i peccatori,
- quantunque essi abbiano incontro ad essa operato.
- La settima cosa dissi era da vedere perché piú nel principio del dí
- scriva l'autore d'essersi ravveduto che ad altra ora. Puossi intorno a
- questa parte dire, quanto gli uomini involti ne' peccati dimorano,
- tanto dimorare nelle tenebre della notte, cioè della ignoranzia; la
- quale, come la notte toglie il poter conoscere o vedere le cose,
- quantunque nel cospetto ci sieno, cosí toglie il cognoscere il vero
- dal falso e le cose utili dalle dannose. E perciò, qualora avviene che
- la grazia di Dio operante tocca il peccatore ed è da lui ricevuta,
- cosí comincia a tornar la luce della conoscenza di Dio e di se
- medesimo e del suo stato; e ognora che la luce apparisce, è di
- necessitá che le tenebre della notte cessino; ed in quella ora che le
- tenebre cessano, sí come manifestamente appare, è principio del dí, e
- massimamente a colui il quale abbandona la notte della ignoranza,
- sollecitato e sospinto dalla divina grazia. E di questo dice Osea
- profeta in persona di Cristo: «_In tribulatione sua mane consurgent ad
- me_». Ed il peccatore d'altra parte, come agli occhi dell'intelletto
- gli apparisce la divina luce, giá le sue malvage operazioni
- cominciando a cognoscere, può dire quelle parole del salmista: «_Mane
- adstabo tibi et videbo: quoniam non Deus volens iniquitatem tu es_».
- Dunque congruamente finge l'autore di mattina essere stato questo
- ravvedimento, per lo quale si conobbe essere nella oscura selva dei
- peccati e della ignoranza.
- L'ottava cosa dissi era da vedere quello che l'autor vuol intendere
- per lo sole che sopra il monte vide e per lo monte. Per li monti
- intende la Scrittura di Dio spesse fiate gli apostoli; e questo,
- percioché, come i monti son quegli che prima ricevono i raggi del sole
- materiale surgente, cosí gli apostoli furono i primi che ricevettero i
- raggi, cioè la dottrina del vero sole, cioè di Gesú Cristo, il quale è
- veramente sole di giustizia e luce, la quale illumina ciascuno che
- viene in questo mondo. E che esso sia vero sole, per molte ragioni si
- dimostrerebbe, le quali al presente per brevitá ometto. E, secondo che
- io estimo, nell'autore, sentita la grazia di Dio, venne quel
- desiderio, il quale si dee credere che vegna in ciascuno il quale
- quella grazia in sé riceve: cioè di conoscere pienamente le colpe sue,
- e qual via dovesse tenere per poter venire a salute; ed occorsegli
- nella mente alcuna dottrina non potergli in questo suo disiderio
- satisfare, come l'apostolica; rammemorandosi delle parole del
- salmista, dove, parlando di loro, dice: «_Non sunt loquelae, neque
- sermones, quorum non audiantur voces eorum. In omnem terram exivit
- sonus eorum, et in fines orbis terrae verba eorum_». E però, fuggendo
- la confusione delle tenebre del peccato, si può dire dicesse, come
- talvolta disse il salmista: «_Levavi oculos meos in montes, unde
- veniet auxilium mihi_»; volendo in questo dire che egli levasse gli
- occhi della mente alle Scritture e alla dottrina apostolica, dalla
- quale sperava dovere avere aiuto al suo bisogno. Ed accioché questa
- speranza gli si fermasse nel cuore, dice che vide la sommitá di questo
- monte coperta de' raggi del pianeta, cioè del sole, a dimostrare che
- essa dottrina apostolica sia illuminata del lume dello Spirito santo,
- il quale veramente mena altrui diritto per ogni calle; cioè, da che
- che colpa l'uom si parte, egli è da lui menato in porto di salute. E
- che la dottrina degli apostoli sia santa e veramente piena de' doni
- dello Spirito santo, appare per le parole d'Isaia, dove dice:
- «_Requiescet super eum spiritus timoris Domini, spiritus sapientiae et
- intellectus, spiritus consilii et fortitudinis, spiritus scientiae et
- pietatis, et replebit cum spiritus timoris Domini_». Per che l'autore,
- e qualunque altro, veggendosi cosí fatto rifugio apparecchiato
- davanti, dove prender lo voglia, puote meritamente sperare, e,
- sperando, minuire la paura della morte eterna, nella quale il fanno
- dimorare le catene del diavolo, mentre in esse dimora legato. E, oltre
- a ciò, veggendo sopra questo monte il sole scacciatore delle tenebre
- eterne, e il quale è toglitore de' peccati, sí come noi di lui
- leggiamo: «_Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi_»; puote
- ancora maggiormente sperar salute, sospinto dalle parole d'Isaia, il
- quale dice: «_Vobis, qui timetis Deum, orietur sol iustitiae_». E
- perciò meritamente l'autore, conosciuto, lá dove era, esser valle di
- miseria, sí si sforza di partir di quella e di voler salire al monte,
- cioè alla dottrina della veritá, e a Colui il quale puote liberare
- ciascuno, che con affetto vuole, delle mani dello 'nferno.
- [Lez. VI]
- La nona cosa, la qual dissi considerar si volea, era quello che
- l'autor sentisse per la considerazione avuta, poi che alquanto la
- paura gli cessò; e appare per le sue parole essere stata del pericolo,
- nel quale si vedeva essere stato la passata notte: per la quale
- dobbiamo intendere il primiero atto dell'animo di colui che la passata
- miseria della sua vita comincia a cognoscere. Il quale veramente non è
- altro che paura, e spezialmente avendo egli spazio e alcuna luce di
- sentimento, per la qual possa discernere quante e quali possano essere
- state quelle cose che in quelle miserie l'avrebbono, ciascuna per se
- medesima, potuto far morire di perpetua morte: e massimamente
- cognoscendo la ingratitudine sua verso Iddio, dal quale infiniti
- benefici ha ricevuti, cognoscendo la sua giustizia, la quale, passato
- il tempo della misericordia, è irrevocabile, né si può, come quella
- de' mortali giudici, con prieghi né con lagrime piegare, né corromper
- con doni o con eccezioni prolungare. Dalla quale considerazione si
- levan presti coloro, li quali invano non ricevono la divina grazia, e
- per la diserta piaggia a salire al monte muovono i passi loro. E dice
- «diserta», percioché ancora è sterile e senza alcun virtuoso frutto
- l'anima di colui che pure ora ora comincia a partirsi della via del
- peccato.
- La decima cosa, la quale da essere cercata dissi, è quello che noi
- dobbiamo sentire per le tre bestie, le quali l'autor mostra che
- impedivano il suo cammino. [Ed intorno a questo è da considerare
- queste bestie altrimenti doversi intendere avendo riguardo solamente
- all'autore, e altrimenti avendo riguardo generalmente a ciascun
- peccatore, che vuole alla via della veritá ritornare, percioché non
- ogni uomo igualmente è da una medesima passione impedito: e perciò
- avviso l'autor ponesse quello che a lui sentiva s'appartenesse e di
- che piú si conosceva passionato. E però primieramente quello dirò
- ch'io sentirò per queste tre bestie appartenere all'autore; poi, se
- niuna cosa v'avrò da mutare per riducerle al senso spettante
- all'universitá dei peccatori, come saprò, il farò e dimostrerò].
- Dice adunque che, essendo nella predetta meditazione, diliberato di
- lasciare la valle oscura e di salire al monte luminoso e chiaro, cioè
- alla dottrina apostolica ed evangelica, essere state tre bestie quelle
- che il suo salire impedivano: una leonza, o lonza che si dica, e un
- leone e una lupa. Le quali, quantunque a molti e diversi vizi adattare
- si potessono, nondimeno qui, secondo la sentenzia di tutti, par che si
- debbano intendere per questi: cioè per la lonza il vizio della
- lussuria, e per lo leone il vizio della superbia, e per la lupa il
- vizio dell'avarizia. E, percioché io non intendo di partirmi dal
- parere generale di tutti gli altri, verrò a dimostrare come questi
- animali a' detti vizi si possono appropriare; e poi, se all'autore
- parrá di dovergli attribuire, rimangasi nello arbitrio di ciascuno.
- Sono adunque nella lonza, tra l'altre molte, quattro singolari
- proprietá: ella primieramente è leggierissima del corpo, tanto, o piú,
- quanto alcun altro quadrupede sia; appresso, la sua pelle è leccata,
- piana e di molte macchie dipinta; oltre a questo, ella è
- maravigliosamente vaga del sangue del becco; ultimamente, ella è di
- sua natura crudelissimo animale.
- Le quali quattro proprietá, secondo il mio giudicio, sono mirabilmente
- conformi al vizio della carne: percioché la sua leggerezza è a
- dimostrare la levitá degli animi di quelle persone o che con
- l'appetito o che attualmente con esso vizio s'inviscano; imperoché
- essi alcuna volta ardon tutti, da fervente disiderio della cosa amata
- accesi, e alcun'altra son piú freddi che la neve, cessando punto la
- speranza della cosa amata; e quasi in un momento ridono e cantano, e
- lamentansi e piangono, e cosí insuperbiscono subito, e subitamente
- diventano umili; ora turbati garrono e gridano, e di presente mitigati
- lusingano. Le quali levitá ottimamente discrive Plauto in una sua
- commedia chiamata _Cistellaria_, dove un giovane, piú che uopo non gli
- era, invescato in questa pania, dice cosí:
- _Credo ego amorem primum apud homines carnificinam commentum, hanc ego
- de me coniecturam domi facio, ne foras quaeram, qui omnes homines
- supero, atque antideo cruciabilitatibus animi. Iactor, crucior,
- agitor, stimulor, vexor vi amoris totus, miser._ _Exanimor, feror,
- differor, distrahor, diripior: ita nullam mentem animi habeo: ubi sum,
- ibi non sum: ubi non sum, ibi est animus: ita mihi omnia ingenia sunt.
- Quod lubet, non lubet iam id continuo. Ita me amor lassum animi
- ludificat, fugat, agit, appetit, raptat, retinet, iactat, largitur:
- quod dat, non dat: deludit: modo quod suasit, dissuadet: quod
- dissuasit, itidem ostentat. Maritimis moribus mecum expelitur: ita
- meum frangit amantem animum neque, nisi quia miser ne eo pessum, mihi
- ulla abest perdito pernities,_ ecc.
- Oltre a ciò, questo disonesto appetito è velocissimo in permutarsi, e
- salta tosto d'una cosa in un'altra: un muover d'occhi, un atto
- vezzoso, un riso, una guatatura soave, una paroletta accesa, una
- lusinga, d'uno amore in un altro, come vento foglia, gli trasporta; e
- ora avendo a schifo questa che piacque, e ora desiderando quella che
- ancora non era piaciuta, dimostrano il lieve movimento della lor
- mente. La infelice Didone, secondo Virgilio, per un forestiero
- affabile, mai piú non veduto, subitamente dimenticò il lungamente e
- molto amato Sicheo; assai bene verificando quello che l'autore, nel
- _Purgatorio_, delle femmine dice:
- Per lei, assai di lieve si comprende
- quanto in femmina fuoco d'amor dura,
- se l'occhio o 'l tatto spesso nol raccende.
- Giasone dell'amor d'Isifile in brieve tempo saltò in quel di Medea, e,
- lei abbandonata, poi si rivolse a Creusa. Le quali inconvenienze e
- disordinati appetiti, assai bene convenirsi la leggerezza di questa
- bestia co' miseri libidinosi dimostrano.
- Appresso, la pelle sua leccata e di macchie dipinta, non meno che la
- predetta, si confá co' costumi de' lascivi; percioché quegli, gli quali
- da tal passione son faticati, quanto possono, o per pigliare o per
- tenere, si studiano di piacere; per la qual cosa s'adornano di
- vestimenti vari, pettinansi, lavansi e dipingonsi, specchiansi,
- tondonsi, vanno e tornano, cantano, suonano, spendono, gittano, e, dove
- di parer piú begli e piú accettevoli si sforzano, vituperevolmente di
- disoneste ed enormi brutture si macchiano. Con queste armi e' prese e fu
- preso Paris da Elena; con queste armi mise Dalila nelle mani de' suoi
- nemici Sansone; con queste armi prese e irretí Cleopatra Cesare.
- E, oltre a questo, questa bestia è maravigliosamente vaga del sangue
- del becco. Intorno alla qual cosa si dee intendere in questo
- dimostrarsi l'appetito corrotto di coloro li quali in questa bruttura
- si mescolano: percioché, sí come il becco è lussuriosissimo animale,
- cosí, per l'usare questo vizio, piú lussurioso si diviene. Per la qual
- cosa alcuni miseramente, credendosi in cotal guisa sviluppare, non
- accorgendosene, s'inviluppano; percioché non questo, come gli altri
- vizi, per continuo combattimento si vince, ma per fuggire: il che
- ottimamente dimostrarono i poeti nella scrizione della battaglia
- d'Ercule e d'Anteo. E, oltre a ciò, il becco è fiatoso animale e
- olido, del quale questa bestia si diletta: in che si dimostra la
- vaghezza dei libidinosi intorno al fiatoso e abbominevole atto
- venereo, il quale è intanto al naso e agli occhi noioso e allo
- 'ntelletto umano, che se non fosse che la natura ha in quello posto
- maraviglioso diletto, accioché l'umana specie per non generare non
- venga meno, io sono d'opinione che ciascuno come fastidiosissima cosa
- il fuggirebbe. E la dilettazione, la quale questa bestia ha del sangue
- del becco, assai chiaro dimostra l'appetito che ciascuna delle parti
- di quegli, che a questa turpitudine si congiungono, hanno del fine di
- quello disonesto atto; nel quale il sangue de' miseri dannosamente
- tante volte, quante per altro che per generare si versa, non meno
- biasimevolmente, che se in una fetida sentina si gittasse, si perde.
- Senza che, per questo i nervi indeboliscono, il veder ne raccorcia, i
- membri ne diventan tremuli, e la nodosa podagra, con gravissima noia
- di chi l'ha, tiene tutto il corpo quasi immobile e contratto; e cosí
- non solamente se n'offende Iddio, ma ancora se ne guastano i miseri la
- persona. Per questo convenne a Gaio Antonio, poste giú l'armi,
- militare con l'animo dietro a Catellina; e, come che piú non me ne
- ridica or la memoria, non è da dubitare che i passati secoli non ne
- sieno stati cosí copiosí come veggiamo l'odierno.
- Ultimamente dissi questo animale essere crudele, per la qual crudeltá
- è da intendere la crudeltá di questo peccato, il quale quegli, che piú
- con lui si dimesticano e congiungono, le piú delle volte conduce a
- crudelissime spezie di morte. Quanti robusti giovani, quante vaghe
- donne, mentre senz'alcun freno questo disonesto diletto hanno seguito,
- hanno giá la lor morte, dopo faticosa infermitá, avacciata? Quanti
- ancora, non potendo sofferire né por modo al loro fervente disiderio
- di pervenire a quello, hanno se medesimi disonestamente disfatti? Il
- non potere aspettare Demofonte, suo amico, condusse Fillide ad
- impiccarsi. La miseria di questo vizio diede ad Artabano medo vittoria
- sopra Sardanapalo. E qual porco crederem noi che uccidesse Adone altro
- che il soperchio coito con Venere, reina di Cipri, sua moglie?
- Bene adunque si può questa bestia dire essere la concupiscenza
- carnale, la quale, lusinghevole insino alla morte, con tutte quelle
- mortali dolcezze ch'ella porge, facendosi incontro alla sensualitá
- umana, qualora l'animo, riconosciuta la tristizia di quella, da essa
- partir si vuole e alle divine cose tornarsi, con non piccola forza
- s'ingegna di ritenerlo, non partendoglisi dinanzi dal volto; quasi
- voglia dire: rammemorando tutte quelle persone che giá sono state
- amate, tutti quegli atti, tutte le parole che giá sono state piaciute;
- le lagrime, la promessa fede, i rotti sacramenti con pietoso aspetto
- ricordandogli; con false dimostrazioni suadendogli che questa castitá,
- questo proponimento riserbi agli anni vecchi, e non voglia ora perdere
- quello che mai non dee potere recuperare. Con li quali conforti, e
- altri molti a questi simiglianti, nel quarto dell'_Eneida_ mostra
- Virgilio essersi Didone ingegnata di ritenere Enea e dalla gloriosa
- impresa rivolgerlo, come giá assai dal buon principio hanno rivolti al
- doloroso fine d'eterna perdizione.
- Questa adunque si parò davanti al nostro autore, per doverlo fare
- nelle abbandonate tenebre ritornare; il quale dall'ora del tempo e
- dalla dolce stagione prese speranza di vincere questo vizio oppostosi
- alla sua salute. Per la quale ora del principio del dí credo sia da
- prendere l'ora o 'l tempo nel quale Cristo prese carne umana; il quale
- prender di carne, fu senza alcun dubbio il principio della nostra
- salute il principio della riconciliazione del nostro signore Iddio con
- la nostra umanitá, il principio del tempo accettevole, il quale per
- tante migliaia d'anni fu aspettato. E questo, percioché in quel
- proprio dí fu, cioè di venticinque di marzo, nel quale, sí come
- apparirá appresso, il nostro autore dice sé essere risentito dal sonno
- mortale. E cosí vuole adunque l'autore darne a vedere che, di ciò
- ricordandosi, prendesse buona speranza della misericordia di Colui,
- senza la quale non si puote avere d'alcun vizio vittoria. La stagione
- del tempo similmente gli die' buona speranza, conoscendo che in quella
- stagione era cominciato il tempo della grazia, e aperta la via alla
- nostra salute, lungamente stata serrata, ed il nemico della umana
- generazione abbattuto: per che sperar si dovea di poter similmente
- abbattere i suoi ministri.
- La seconda bestia, la qual si fece incontro al nostro autore, fu un
- leone, il quale dissi essere inteso per la superbia, alla quale, come
- egli si confaccia, ne mostreranno alcune delle sue proprietá, a quelle
- del vizio poi equiparate. È il lione non solamente audace ma
- temerario; e appresso è rapace e soprastante; ed è ancora altisono nel
- ruggir suo, intanto che egli spaventa le bestie circunvicine che
- l'odono: e, come che assai piú ce n'abbia, queste tre bastino a
- mostrare per lui ottimamente potersi intendere il vizio della
- superbia.
- Dissi adunque il lione essere non solamente audace ma temerario;
- percioché, senza misurare le forze sue, non è alcuno animale sí forte
- (che ne sono assai piú forti di lui), il quale egli non presuma
- d'assalire; di che egli talvolta con gran suo danno è ributtato
- indietro. Ed Aristotile nel terzo dell'_Etica_, lá dove parla della
- fortezza, dice che l'esser temerario è vizio, in quanto il temerario
- presume, oltre alle sue forze, quello che a lui non s'appartiene. E
- questo vizio è il presumere alcuno di combattere con due o con tre o
- con piú; conciosiacosaché ciascuno debba credere uno poter quanto un
- altro, e con quell'uno mettersi a combattere è ardire e segno di
- fortezza; dove l'andar contro a piú, potendogli schifare, è temeritá.
- In questo l'uomo superbo è simigliante al leone, percioché il
- disiderio del superbo è tanto di parer quello che egli non è, che cosa
- non è alcuna sí grave, che egli non presuma di fare, quantunque a lui
- non si convenga, sol che egli creda per quello essere reputato
- magnanimo. E questa cechitá ha giá messo in distruzione molti regni,
- molte province e molte genti; questa fu cagione al primo agnolo
- d'esser cacciato di paradiso con tutti i suoi seguaci; questa fu
- cagione a Capaneo d'esser fulminato e gittato dalle mura di Tebe in
- terra; questa fu cagione a Golia d'essere ucciso da David, come la
- Scrittura ne dice.
- Dissi ancora che il lione era rapace e soprastante: la qual cosa è
- quanto piú può propria del superbo, al quale, quantunque ricco sia,
- non soffera l'animo d'esser contento al suo, ma continuamente prieme e
- oppressa i minori, ruba l'avere, occupa le possessioni, batte e
- ferisce i resistenti, e in ciascun suo atto è violento e pieno d'ogni
- nequizia, e in ogni cosa vuol soprastare agli altri, estimando per
- questo lo stato suo divenir maggiore, esser piú temuto e di piú
- eccellente animo reputato. La qual cosa condusse Giugurta, re di
- Numidia, ad essere del sasso Tarpeio gittato nel Tevero; e Iezzabel ad
- essere della torre sospinta, e da' cavalli e da' carri e dagli uomini
- scalpitata, e divenir loto e sterco della vigna di Nabaoth: e Antioco
- re d'Asia e di Siria essere oltre al monte Tauro da' romani rilegato.
- Similemente dissi che il leone era altisono nel ruggir suo e ch'egli
- spaventa le bestie circunstanti; il che Amos profeta dice: «_Leo
- rugiet, quis non timebit?_». Al qual romore il vizio della superbia è
- evidentissimamente simigliante, in quanto l'uomo superbo sempre usa
- parole altiere, spaventevoli e oltraggiose in ogni suo fatto; sempre
- parla di sé e de' suoi gran fatti, e dilettasi e vuole che altri ne
- parli; quello estimando d'essere che i paurosi ragionano per
- piacergli. Per la qual bestialitá, Nabucdonosor, di se medesimo per
- divina operazione ingannato, lasciato il solio reale, n'andò a pascer
- l'erbe ne' boschi; Simon mago cadde d'aria e fiaccossi la coscia;
- Roboam, re de' giudei, de' dodici tribi d'Israel ne perdé nove.
- Le quali cose sanamente considerate, assai aperto dimostrano noi dover
- potere per lo leone, al nostro autore apparito, intendere il vizio
- della superbia, la quale all'uomo, che da lei e dall'altre nequizie si
- vuol partire e tornare nel cammino delle virtú, si para dinanzi agli
- occhi della mente, non lusingandolo, ma spaventandolo, col mostrargli
- che, dove egli la sua maggioranza, il suo altiero stato abbandoni,
- egli diverrá un menomo plebeio; né sará mai ad alcuna gran cosa
- chiamato, e intra' suoi di niuna reputazione avuto, sará dispettato, e
- da coloro, li quali esso ha giá premuti, offeso e scalpitato, rubato e
- spogliato; e, se egli ancora del suo stato scende, non vi potrá,
- quando vorrá, risalire. [Para ancora la gloria della preminenza, la
- potenza del levare in alto e d'abbassare secondo il suo volere, la
- pompa degli onori, e simili cose assai.] Le quali cose senza alcun
- dubbio hanno molto a muovere le tenere menti e a renderle timide di
- cadere, e per conseguente a farle ritirare indietro dalla laudevole
- impresa. Ma a queste due, dice l'autore essere ancora ad impedire il
- suo cammino sopravvenuta una lupa, e quella, piú che l'altre due,
- averlo spaventato e ripintolo indietro.
- La terza bestia, che davanti all'autore si parò, fu una lupa, fiero
- animale e orribile, il quale, come davanti dissi, è inteso per
- l'avarizia, con la quale come costei si convenga, come nell'altre due
- abbiam fatto, alcune delle sue proprietá prese, e con quelle del vizio
- conformatole, il mostreranno. Manifesta cosa è la lupa essere animale
- famelico e bramoso sempre; appresso, quando quel tempo viene, nel
- quale ella è atta a dovere concépere, avendo molti lupi dietro
- continuamente, a quello il quale piú misero di tutti le pare, gli
- altri schifati, si concede; e, oltre a ciò, il lupo è animale
- sospettissimo, continuo si guarda d'intorno, e quasi in parte alcuna
- non si rende sicuro, credo dalla coscienza sua medesima accusato.
- Dico adunque la lupa essere famelico e bramoso animale, e quel
- medesimo essere l'uomo avaro; percioché, quantunque l'uomo avaro abbia
- quello che gli bisogna, onestamente e in qualunque guisa ragunato,
- forse con molta sollecitudine e gran suo pericolo, non sta a quel
- contento; ma, da maggior cupiditá acceso e da nuova sete stimolato, in
- ciascun suo esercizio piú che mai si mostra affamato; e, per sodisfare
- a questa insaziabile fame, niun pericolo è, niuna disonestá, niuna
- falsitá o altra nequizia, nella qual'e' non si mettesse. Per la qual
- cosa Virgilio, nel terzo dell'_Eneida_, fieramente la sgrida, dicendo:
- _... Quid non mortalia pectora cogis,
- auri sacra fames?_
- Secondariamente il vizio dell'avarizia si mette in uomini cattivi e
- pusillanimi; il che appare, in quanto in alcun valente uomo o
- magnanimo non si vede giammai; e che essi sieno cosí, le loro
- operazioni il dimostrano. Metterassi l'avaro in una piccola casetta, e
- in quella, in continua dieta per non spendere, dimorando senza
- muoversi, dieci e venti anni presterá ad usura, vestirá male e calzerá
- peggio, rifiuterá gli onori per non onorare, e, dove egli dovrebbe de'
- suoi acquisti esser signore, esso diventa de' suoi tesori vilissimo
- servo; e, quanto maggiore strettezza fa del suo, tanto tien gli occhi
- piú diritti all'altrui. Sempre è pieno di rammarichii, sempre dice sé
- esser povero, e mostrasi; e, brievemente, facendosi dei beni della
- fortuna tristissima parte, quanto l'animo suo sia piccolo e misero
- manifestamente dimostra. Nelle quali cose si può comprendere
- l'avarizia accompagnarsi con la piú misera condizione d'uomini che si
- trovi, come la lupa col piú tristo de' lupi si congiugne.
- Appresso questo, dissi il lupo essere sospettoso animale: la qual cosa
- esser l'avaro, i suoi costumi il dimostrano. Esso con alcun suo amico
- non comunica la quantitá de' suoi beni, sospicando non la gran
- quantitá palesata gli generi agguati o invidia. E, oltre a ciò, niuna
- fede presta all'altrui parole; sempre suspica che viziatamente gli sia
- parlato per sottrargli alcuna cosa; in niuna parte estima essere assai
- sicuro, e di ciascuno, che guarda la porta della sua casa, teme non
- per doverlo rubare la riguardi. Alcun sonno non puote avere intero, né
- riposata alcuna notte; ogni piccol movimento di qualunque menomo
- animale suspica non andamento sia di ladroni; e, non fidandosi delle
- casse ferrate, i suoi danari fida alle cave e fosse sotterranee. Chi
- potrebbe assai pienamente narrare i sospetti de' miseri avari, li
- quali tutti in sé convertono i lacciuoli, li quali giá hanno tesi ad
- altrui?
- E perciò, dovendo bastare quello che detto n'è, credo assai
- convenientemente l'avarizia o l'avaro convenirsi alla lupa, la quale
- piena di spavento si para davanti a colui, il quale i disonesti
- guadagni e l'altre men che buone opere vuole lasciare, per dovere in
- miglior via ritornare. E nel cuore gli mette cotali pensieri:--Che fai
- tu, misero? ove vuo' tu andare? da qual parte comincerai tu a rendere
- i furti, le ruberie e le baratterie e i denari in mille modi male
- acquistati? vuo' tu lasciare quello che tu hai, per quello che tu non
- sai se tu l'avrai? vuo' tu avere tanta fatica, tanto tempo perduto,
- quanto tu hai messo in ragunare? vuo' tu venire alla mercé degli
- uomini? come faranno i figliuoli tuoi? vuogli tu vedere morir di fame?
- come fará la tua bella donna, e tu, misero, come farai? Tu diventerai
- favola del vulgo, tu sarai schernito, e non sará chi ti voglia vedere
- né udire. Tu puoi ancora indugiare; ogni volta, eziandio morendo, puo'
- tu lasciare il tuo a coloro da' quali tu l'hai avuto. Egli sará il
- meglio che tu attenda a guadagnare.--
- E con questa e con simili dimostrazioni, che il misero fa per
- sudducimento e opera del dimonio, il quale alla nostra salute sempre
- s'oppone quanto può, spesse volte siamo frastornati; e, avuta poco a
- prezzo la grazia di Dio, nella nostra miseria ricaggiamo, e per
- conseguente in eterna perdizione ruiniamo. Né a guardarcene mai
- c'induce l'etá piena d'anni; percioché, quantunque gli altri vizi
- invecchino con gli uomini, solo l'avarizia inringiovenisce. E di ciò
- furono verissimi testimoni Tantalo, Mida e Crasso, li quali, morendo,
- prima lei abbandonarono che essa da loro, vivendo, fosse abbandonata.
- [Poterono adunque questi vizi essere all'autore in singularitá cagione
- di resistenza e di paura. Ma che direm noi, in generalitá, che questi
- tre animali significhino in altri assai, che, dal vizio partendosi,
- vogliono alla virtú ritornare? Nulla altra cosa m'occorre, alla quale
- queste tre bestie si possano meglio adattare, che sia quello il che è
- a tutti comune, che alli tre nostri principali nemici, cioè la carne,
- il mondo, il diavolo; e per la carne intender la lonza, per lo mondo
- il leone, e 'l diavolo per la lupa. Questi tre continuamente vegghiano
- e stanno intenti alla nostra dannazione. La carne ne lusinga con la
- dolcezza de' diletti temporali, sotto a' quali è nascoso il veleno
- infernale, il qual noi, come il pesce con l'ésca piglia l'amo, cosí
- quasi sempre co' diletti prendiamo, e, di ciò velenati, miseramente
- moiamo. Per la qual cosa il nostro Salvador n'ammaestra e sollecita di
- stare attenti a non lasciarci ingannare, quando dice: «_Vigilate, et
- orate: spiritus quidem promptus, caro autem infirma_». E san Paolo
- similemente ne rende avveduti e cauti, quando dice: «_Spiritus
- concupiscit adversus carnem, et caro adversus spiritum_»; vogliendone
- per questo ammaestrare che noi siamo e avveduti e forti a resistere
- alle tentazioni carnali. Il simigliante fa il mondo: questi ne para
- dinanzi gli splendor suoi, gl'imperi, i regni, le province, gli stati
- e la pompa secolare, gli onori e la peritura gloria; nascondendo sotto
- la sua falsa luce i tradimenti, le violenze, gl'inganni, le guerre,
- l'uccisioni, l'invidie e i furori e i cadimenti e altre cose assai,
- senza le quali né pigliare né tenere si possono queste preeminenze,
- questi fulgori, queste grandezze temporali: le quali tutte, e
- ciascuna, n'ha a privare di pace e di riposo e della eterna
- beatitudine. Susseguentemente il dimonio, rapacissimo ed insaziabile
- divoratore, pieno d'ingegno e d'avvedimento nel male adoperare, ne
- minaccia e spaventa di ruine, di tempeste, di tribulazioni, se della
- sua via usciremo; attorniandoci sempre con agguati, non forse da
- quelle volessimo deviare. E in tanta ansietá con le sue dimostrazioni
- assai volte ci reca, che, toltoci lo sperare della divina
- misericordia, a volontaria morte c'induce: e cosí impedisce tanto chi
- vuole alla via della veritá ritornare, che egli nelle tenebre eterne
- il conduce. E queste sono le paure, questi sono gl'impedimenti e le
- noie che preparate e date da' nostri nemici ne sono, e il nostro ben
- volere adoperare impedito e frastornato, come nella corteccia della
- lettera l'autore ne dimostra.]
- «Mentre ch'io ruinava in basso loco». Nella precedente parte di questo
- canto è stato dimostrato, per opera della divina grazia il peccatore
- aver conosciuto il suo stato, e disiderar d'uscir di quello, e tornare
- alla via della veritá, da lui per lo mentale sonno smarrita; e, oltre
- a ciò, quali sieno le cose le quali il suo tornare alla diritta via
- impediscono: in questa parte dimostra il divino aiuto al suo scampo
- mandatogli, accioché, schifato lo 'mpedimento delli detti vizi, esso
- possa quel cammin prendere e seguire che opportuno è alla sua salute.
- E come questo mandato gli fosse, piú distintamente si mostrerá nel
- canto seguente. E, percioché, come noi per esperienza veggiamo, coloro
- i quali delle infermitá si lievano, esser deboli e male atanti della
- persona; cosí creder dobbiamo esser l'anima, la quale dalla infermitá
- del peccato levandosi, s'ingegna di tornare alla sua sanitá. E, come
- il nostro corpo infermo, senza l'aiuto d'alcun bastone sostener non si
- puote, né muoversi ad alcuno atto utile; cosí l'anima nostra, dal
- peccato vinta e stanca, senza alcuno aiuto della divina clemenza non
- può cosa alcuna aoperare in sua salute. E perciò intende qui l'autore
- di mostrarci come Iddio, il quale ha sempre gli occhi della sua pietá
- diritti a' nostri bisogni, ne mandi la sua seconda grazia, cioè la
- cooperante, con l'aiuto e colla dimostrazione della quale noi prendiam
- forza e noi medesimi ordiniamo; e, riconosciute con piú avvedimento le
- nostre colpe, nel timor di Dio torniamo, e della terza grazia,
- perseverando, ci facciam degni, e quindi della quarta.
- Le quali cose in questa parte l'autore sotto il velame de' suoi versi
- intende, sentendo per Virgilio questa seconda grazia cooperante; e lui
- prende come sofficiente, sí per discrezione, e sí per iscienza, e sí
- ancora per laudevoli costumi atto a tanto uficio; e, oltre a ciò,
- percioché Virgilio, quantunque con altro senso, in parte trattò quella
- medesima materia, la quale egli intende di trattare; e ancora,
- percioché il trattato dee essere poetico, era piú conveniente un poeta
- che alcuno altro sublime uomo; e però prese lui, piú tosto che alcun
- altro, percioché egli tra' latini ottiene il principato.
- E costui, dice, gli apparve «nel gran diserto», cioè in quella parte
- dove l'anima sua, timida di non essere dalle lusinghe e dagli
- spaventamenti de' suoi viziosi pensieri ritirata nel profondo delle
- miserie, del quale del tutto era disposto d'uscire, si ritrovava senza
- consiglio alcuno e senza conforto.
- Ed è in questa parte da intendere in questa forma: che Virgilio, lá
- dove bisogno será, nella presente opera s'intenda per la ragione a noi
- conceduta da Dio, e per la quale noi siamo chiamati «animali
- razionali»; percioché la ragione è quella parte dell'uomo, nella quale
- si dee credere questa seconda grazia ricevere e abitare,
- conciosiacosaché essa ne sia da Dio data non solamente a cooperare con
- l'altre nostre potenze animali e intellettive, ma a dirizzare e a
- guidare ogni nostra operazione in bene. La qual cosa ella fa, mossa e
- ammaestrata dalla divina grazia, quante volte è da noi lasciata esser
- donna e imperadrice de' nostri sensi; ma, quando la sensualitá, per le
- nostre colpe, la caccia del luogo suo e signoreggia ella, la ragion
- tace e diventa mutola, non comanda, non dispon piú secondo il suo
- consiglio le nostre operazioni. E, percioché sotto i piedi della
- sensualitá era nell'autore lungo tempo giaciuta, si può dire che nel
- primo muover delle sue parole paresse «fioca».
- Questa adunque, come il disiderio della virtú torna, abbattuta la
- sensualitá, risurge e torna nella sua sedia e manifestasi alla
- destituta anima, constituta «nel diserto», cioè nel luogo d'ogni
- virtú, d'ogni buona operazione, vacuo, pronta e apparecchiata ad ogni
- sua opportunitá: [e, avanti ad ogni altra cosa, fa in se medesima
- maravigliar l'anima riconosciuta; per che, lasciando di salire a
- Cristo, il quale è principio e cagione d'intera beatitudine, si lascia
- dallo spaventamento dei vizi sospignere allo 'nferno. Della qual cosa
- segue che la ragione, mostrandole apertamente che cosa sia l'avarizia,
- e qual sia il fine suo, cioè che dalla liberalitá, la quale è morale e
- laudevole virtú, ella fia scacciata, superata e vinta, e in inferno
- rimessa lá onde il diavolo, per invidia della gloriosa vita promessa
- all'umana generazione, la trasse e menolla nel mondo, accioché per la
- sua opera, l'anime, create ad essere beate, fossero laggiú traboccate,
- onde ella era stata menata]. E di questo séguita che, poiché, per lo
- impedimento dei vizi, quella via piú propinqua di salire a Dio gli era
- tolta, che a lui conveniva, e a ciascun convenirsi che vuole uscir
- della via del peccato e a Dio ritornarsi, seguire la ragione,
- dimostratrice della veritá, a vedere que' luoghi che nel testo si
- leggono.
- Intorno alla qual cosa è da sapere non essere senza misterio, volendo
- uscire dello stato della miseria e ritornar nella grazia, tenere il
- cammino che la ragion dimostra all'autore convenirsi tenere. E la
- ragione può esser questa: opportuno è a ciascuno, il quale vuol fare
- quello che detto è, primieramente conoscere le colpe sue; alle quali,
- conosciute, e veduto come dalla giustizia di Dio siano quelle colpe
- punite, non è dubbio seguire nell'anima ben disposta il timor di Dio,
- il quale è principio della sapienza, come il salmista ne dice. Questo
- timore di Dio incontanente fa seguire nelle nostre menti contrizione e
- pentimento delle cose non ben fatte; dalla quale, secondo che la
- censura ecclesiastica ne dimostra, si viene [alla confessione, e da
- quella] alla satisfazione, dopo la quale si sale alla gloria, come
- possiamo ordinatamente comprendere, nel cammino che il nostro autore
- tiene, seguire. E tutte queste cose, insino al salire alla gloria, ne
- può la nostra ragion dimostrare; percioché tutti sono atti civili e
- morali e reduttibili agli spirituali.
- [Nasce adunque da questo il consiglio, il quale la ragione, che tien
- qui luogo della grazia cooperante, gli dá, cioè che egli per lo
- 'nferno, cioè per gli atti degli uomini terreni (li quali, a rispetto
- de' corpi celestiali, ci possiam reputare di essere in inferno); e,
- tra quegli, considerati quegli che la nostra ragione, le leggi
- positive e la divina dannino: conoscerá quello da che astener si dee
- ciascuno che secondo virtú vuol vivere, e quello che, seguendol,
- merita pena, e qual pena secondo le leggi temporali e secondo
- l'eterne; conoscerá la giustizia di Dio, e meritamente avrá timore
- dell'ira sua. E da questo luogo, giá delle cose men che ben fatte
- pentendosi, venga a vedere coloro che son contenti nel fuoco, cioè
- nell'afflizione della penitenzia; accioché quindi, dietro alla guida
- della teologia, le cui ragioni e dimostrazioni la nostra ragion non
- può comprendere, salga purgato delle offese all'eterna beatitudine.]
- Ed in questo mi pare consista la sentenza dell'allegoria di questo
- primo canto.
- Restaci nondimeno a vedere una parte, alla quale pare che dirizzi
- l'animo ciascuno che il presente libro legge, e quella disidera di
- sapere; cioè quello che l'autore abbia voluto sentire per quello
- veltro, la cui nazione dice dovere esser «tra feltro e feltro». E, per
- quello che io abbia potuto comprendere, sí per le parole dell'autore,
- sí per li ragionamenti intorno a questo di ciascuno il quale ha alcun
- sentimento, l'autore intende qui dovere essere alcuna costellazion
- celeste, la quale dee negli uomini generalmente impriemere la vertú
- della liberalitá, come giá è lungo tempo, e ancora persevera quella
- del vizio dell'avarizia. Il che l'autore assai chiaro dimostra nel
- _Purgatorio_, dove dice:
- O ciel, nel cui girar par che si creda
- le condizion di quaggiú trasmutarsi,
- quando verrá, per cui questa disceda?
- cioè questa lupa, per la quale, come detto è, s'intende il vizio
- dell'avarizia. [Or non so io, se questo dovere avvenire, l'autore ne'
- moti futuri de' superiori corpi si vide, o se per alcuna altra
- coniettura ciò dovere avvenire s'è avvisato: è nondimeno assai chiaro
- i costumi degli uomini mutarsi e d'una parte in altra trasportarsi.
- Percioché, sí come ne mostrano le istorie de' gentili e ancora
- dell'altre, lo 'mperio delle cose temporali cominciando sotto Nino re,
- fu molte centinaia d'anni sotto gli assiri, sotto i medi e sotto i
- persi; e lungamente avanti v'era stata la religione e la scienza, le
- quali, come prima lá erano state, cosí primieramente se ne partirono,
- e vennerne in Egitto, e d'Egitto in Grecia; e poi da Alessandro re di
- Macedonia fu d'Asia lo 'mperio trasportato in Grecia, donde la
- scienza, la religione e l'armi poi partendosi ne vennero appo i
- latini, e qui per lungo spazio furono; poi di qui paiono andate inver'
- ponente, essendo appo i tedeschi e appo i galli, e par giá che il
- cielo ne minacci di portarle in Inghilterra: il che per avventura
- potrá, se piacer fia di Dio, di questa costellazione che l'autor dice,
- avvenire, ecc.] E, percioché queste impressioni del cielo conviene che
- quaggiú s'inizino, e comincino ad apparere i loro effetti o per alcuno
- uomo, o per piú; par l'autore qui sentire che per uno si debbano gli
- alti effetti di questa impression dimostrare: il quale _metaforice_
- chiama «veltro», percioché i suoi effetti saranno del tutto cosí
- contrari all'avarizia, come il veltro di sua natura è contrario al
- lupo.
- E costui mostra dovere essere virtuosissimo uomo, e che la nazion sua
- debba essere tra feltro e feltro. E questa è quella parte dalla quale
- muove tutto il dubbio che nella presente discrizion si contiene. La
- qual parte io manifestamente confesso ch'io non intendo: e perciò in
- questa sarò piú recitatore de' sentimenti altrui che esponitore de'
- miei.
- Vogliono adunque alcuni intendere questo veltro doversi intendere
- Cristo, e la sua venuta dovere esser nell'estremo giudicio, ed egli
- dovere allora esser salute di quella umile Italia, della quale nella
- esposizion litterale dicemmo, e questo vizio rimettere in inferno. Ma
- questa opinione a niun partito mi piace; percioché Cristo, il quale è
- signore e creatore de' cieli e d'ogni altra cosa, non prende i suoi
- movimenti dalle loro operazioni, anzi essi, sí come ogni altra
- creatura, seguitano il suo piacere e fanno i suoi comandamenti; e,
- quando quel tempo verrá, sará il cielo nuovo e la terra nuova, e non
- saranno piú uomini, ne' quali questo vizio o alcun altro abbia ad aver
- luogo; e la venuta di Cristo non sará allora salute né d'Italia né
- d'altra parte, percioché solo la giustizia avrá luogo, e alla
- misericordia sará posto silenzio, e il diavolo co' suoi seguaci tutti
- saranno in perpetuo rilegati in inferno. E, oltre a ciò, Cristo non
- dee mai piú nascere, dove l'autor dice che questo veltro dee nascere.
- Né si può dire l'autore aver qui usato il futuro per lo preterito,
- quasi e' nacque tra feltro e feltro, cioè della Vergine Maria, che era
- povera donna, e nacque in povero luogo: ma questa ragione non
- procederebbe, percioché sono MCCCLXXIII anni che egli nacque, e, nei
- tempi che nacque, era la potenza di questo vizio nelle menti umane
- grandissima; né poi si vede, non che essere scacciata, ma né mancata.
- Né si può dire che nascesse tra feltro e feltro, cioè di vile nazione:
- egli fu figliuolo del Re del cielo e della terra, e della Vergine, che
- era di reale progenie. E se dire volessono: ella era povera; la
- povertá non è vizio, e perciò non ha a imporre viltá nel suggetto;
- percioché noi leggiamo di molti essere stati delle sustanze temporali
- poverissimi, e ricchissimi di virtú e di santitá. Perché dich'io tante
- parole? Questa ragione non procede in alcuno atto.
- Altri dicono, e al parer mio con piú sentimento, dover potere
- avvenire, secondo la potenza conceduta alle stelle, che alcuno,
- poveramente e di parenti di bassa e d'infima condizione nato (il che
- paiono voler quelle parole «tra feltro e feltro», in quanto questa
- spezie di panno è, oltre ad ogni altra, vilissima), potrebbe per virtú
- e laudevoli operazioni in tanta preeminenza venire e in tanta
- eccellenza di principato, che, dirizzandosi tutte le sue operazioni a
- magnificenza, senza avere in alcuno atto animo o appetito ad alcuno
- acquisto di reame o di tesoro, ed avendo in singulare abbominazione il
- vizio dell'avarizia, e dando di sé ottimo esempio a tutti nelle cose
- appartenenti alla magnificenzia, e la costellazione del cielo
- essendogli a ciò favorevole; che egli potrebbe, o potrá, muovere gli
- animi de' sudditi a seguire, facendo il simigliante, le sue vestigie,
- e per conseguente cacciar questo vizio universalmente del mondo. Ed,
- essendo salute di quella umile Italia, la qual giá fu capo del mondo,
- e dove questo vizio, piú che in alcuna altra parte, pare aver potenza,
- sarebbe salute di tutto il rimanente del mondo; e cosí, d'ogni parte
- discacciatala, la rimetterebbe in inferno, cioè in dimenticanza e in
- abusione, o vogliam dire in quella parte dove gli altri vizi son
- tutti, e donde ella primieramente surse intra' mortali. E, a roborare
- questa loro oppenione, inducono questi cotali i tempi giá stati, cioè
- quegli ne' quali regnò Saturno, li quali per li poeti si truovano
- essere stati d'oro, cioè pieni di buona e di pura semplicitá, e ne'
- quali questi beni temporali dicon che eran tutti comuni; e per
- conseguente, se questo fu, anche dover essere che questi sotto il
- governo d'alcuno altro uomo sarebbono.
- Alcuni altri, accostandosi in ogni cosa alla predetta oppenione, danno
- del «tra feltro e feltro» una esposizione assai pellegrina, dicendo sé
- estimare la dimostrazione di questa mutazione, cioè del permutarsi i
- costumi degli uomini, e gli appetiti da avarizia in liberalitá,
- doversi cominciare in Tartaria, ovvero nello 'mperio di mezzo, lá dove
- estimano essere adunate le maggiori [ricchezze e] moltitudini di
- tesori, che oggi in alcuna altra parte sopra la terra si sappiano. E
- la ragione, con la quale la loro oppenione fortificano, è che dicono
- essere antico costume degli imperadori dei tartari (le magnificenze
- de' quali e le ricchezze appo noi sono incredibili), morendo, essere
- da alcuno de' loro servidori portata sopra un'asta, per la contrada
- dov'e' muore, una pezza di feltro, e colui che la porta andar
- gridando:--Ecco ciò che il cotale imperadore, che morto è, ne porta di
- tutti i suoi tesori;--e, poi che questa grida è andata, in questo
- feltro inviluppano il morto corpo di quello imperadore; e cosí senza
- alcun altro ornamento il sepelliscono. E per questo dicon cosí: questo
- veltro, cioè colui che prima dee dimostrare gli effetti di questa
- costellazione, nascerá in Tartaria, tra feltro e feltro, cioè regnante
- alcuno di questi imperadori, il quale regna tra 'l feltro adoperato
- nella morte del suo predecessore e quello che si dee in lui nella sua
- morte adoperare. Questa oppinione sarebbero di quegli che direbbono
- avere alcuna similitudine di vero; la quale non è mia intenzione di
- volere fuori che in uno atto riprovare, e questo è, in quanto dicono
- quegli imperadori aver grandissimi tesori, e però quivi mostran che
- istimino, dall'abbondanza dei tesori riservati, essendo sparti,
- doversi la gola dell'avarizia riempiere e gli effetti magnifichi
- cominciare. Il che mi pare piú tosto da ridere che da credere:
- percioché quanto tesoro fu mai sotto la luna, o sará, non avrebbe
- forza di saziare la fame di un solo avaro, non che d'infiniti, che
- sempre sopra la terra ne sono. Che dunque piú? Tenga di questo
- ciascuno quello che piú credibile gli pare, ché io per me credo,
- quando piacer di Dio sará, o con opera del cielo o senza, si
- trasmuteranno in meglio i nostri costumi. E questo, quanto sopra il
- primo canto, basti d'avere scritto [sempre a correzione di coloro che
- piú sentono che io non faccio].
- Possono per avventura essere alcuni, li quali forse stimano, non
- solamente in questo libro, ma eziandio in ogni altro [e ne' divini],
- ne' quali figuratamente si parli, ogni parola aver sotto sé alcun
- sentimento diverso da quello che la lettera suona; e però, non essendo
- nel precedente canto ad ogni parola altro sentimento dato che il
- litterale, diranno, nell'aprire l'allegoria, essere difettuosamente da
- me proceduto. Ma in questa parte, salva sempre la reverenzia di chi 'l
- dicesse, questi cotali sono della loro oppenione ingannati; percioché
- in ciascuna figurata scrittura si pongono parole che hanno a
- nascondere la cosa figurata, e alcune che alcuna cosa figurata non
- ascondono, ma però vi si pongono, perché quelle che figurano possan
- consistere: sí come per esemplo si può dimostrare in assai parti nella
- presente opera. Che ha a fare al senso allegorico: «La sesta compagnia
- in duo si scema»? che n'ha a fare: «Cosí discesi del cerchio primaio»?
- che molte altre a queste simili? E, se queste se ne tolgono, come
- potrá seguire l'ordine della dimostrazione che l'autore intende di
- fare? come acconciarsi quelle che per significare altro si scrivono?
- Se ogni parola avesse alcun altro senso che il litterale a nascondere,
- di soperchio avrebbe san Girolamo detto nel proemio dell'_Apocalissi_,
- e non in altra parte della Scrittura, tanti essere i misteri quante
- son le parole; conciosiacosaché nell'_Apocalissi_ per eccellenzia
- quello si creda avvenire, che in alcun altro libro della Sacra
- Scrittura non avviene. Tuttavia, accioché piú pienamente si creda non
- ogni parola avere allegorico senso, leggasi quello che ne scrive santo
- Agostino nel libro _Dell'eterna Ierusalem_, dicendo: «_Non omnia, quae
- gesta narrantur, aliquid etiam significare putanda sunt; sed propter
- illa, quae aliquid significant, attexuntur; solo enim vomere terra
- proscinditur; sed, ut hoc fieri possit, etiam caetera aratri membra
- sunt necessaria. Et soli nervi in citharis atque huiusmodi vasis
- musicis aptantur ad cantum; sed, ut aptari possint, insunt et caetera
- in compagibus organorum, quae non percutiuntur a canentibus, sed ea,
- quae percussa resonant, his connectuntur_», ecc. E perciò estimo che
- molto piú onesto sia a credere ad Agostino che stoltamente opinare
- quello che manifestamente si può riprovare; e quinci prendere
- certezza, se alcuna cosa allegorizzando è omessa, quella non per
- negligenza, ma per non conoscere che opportuna vi sia l'allegoria,
- essere stata intralasciata.
- CANTO SECONDO
- I
- SENSO LETTERALE
- [Lez. VII]
- «Lo giorno se n'andava, e l'aer bruno», ecc. Comincia qui la parte
- seconda di questa prima cantica chiamata _Inferno_, nella qual dissi
- l'autore cominciare il suo trattato. E, come che questa si potesse in
- diverse maniere dividere, questa sola intendo che basti per
- universale, cioè dividersi in tante parti, quanti canti seguitano;
- percioché pare che ciascun canto tratti di materia differente dagli
- altri. E questo canto dividerò in sei parti: nella prima si continua
- l'autore al precedente; nella seconda, secondo il costume poetico, fa
- la sua invocazione; nella terza muove l'autore a Virgilio un dubbio;
- nella quarta Virgilio solve il dubbio mossogli; nella quinta l'autore,
- rassicurato, dice di volere seguir Virgilio; nella sesta ed ultima
- l'autor mostra come appresso a Virgilio entrò in cammino. La seconda
- comincia quivi: «O mese, o alto ingegno»; la terza quivi: «Io
- cominciai:--Poeta»; la quarta quivi: «Se io ho ben la tua parola»; la
- quinta quivi: «Quale i fioretti»; la sesta quivi: «E poi che mosso
- fue».
- Dico adunque che l'autore si continua alle cose precedenti; percioché,
- avendo detto nella fine del precedente canto sé esser mosso dietro a
- Virgilio, nel principio di questo discrive l'ora nella quale si
- mossero, dicendo: «Lo giorno se n'andava», e questo per lo chinare del
- sole all'occidente; «e l'aer bruno», cioè la notte sopravvegnente, la
- qual sempre all'occultar del sole séguita. [Di che appare null'altra
- cosa essere il dí, se non la stanza del sole sopra la terra; e questo
- è quello che è cosí chiamato, cioè «dí» dalla luce. (E percioché, al
- levarsi di quello, sempre la notte fugge, Pronapide, greco poeta e
- maestro di Omero, racconta una cotale favola.) E vogliono gli
- astrologi questo chiamarsi «dí artificiale», cioè quello spazio il
- quale si contiene tra il levare del sole e l'occultare; e la ragione
- è, perché essi, usandolo nelle loro elevazioni, d'ogni tempo il
- dividono in dodici parti equali, e cosí fanno la notte. Il dí naturale
- è di ventiquattro ore equali, e in questo è notte congiunta col dí; ma
- dinominasi tutto dí dalla parte piú degna, cioè dalla parte splendida.
- E chiamasi dí da «_Dios_» _graece_, il quale in latino viene a dire
- «Iddio»; percioché, come Iddio sempre in ogni cosa buona ne giova e
- aiuta, cosí nelle nostre operazioni ne aiuta il dí con la sua luce. E
- potrebbesi dire che egli n'aiuta nelle buone, percioché chi fa male ha
- in odio la luce.] E mostra, per questa discrizione del farsi notte,
- che l'autore fosse stato, dal farsi dí infino al farsi notte di quel
- dí, in quella valle, occupato da quelle tre bestie ed a ragionar con
- Virgilio.
- «Toglieva gli animai che sono in terra, Dalle fatiche loro».
- Dimostrane qui l'autore una delle operazioni della notte, la quale
- l'ordine della natura attribuisce al riposo e alla quiete degli
- animali, degli affanni avuti il dí passato; percioché, se alcun tempo
- al riposo non si prestasse, non sarebbe alcuno animale che nelle sue
- operazioni potesse perseverare; e però dice l'autore che l'aer bruno
- «toglieva», cioè levava, «Dalle fatiche loro». E séguita: «ed io sol
- uno». Par che qui sia un vizio, il qual si chiama «_inculcatio_», cioè
- porre parole sopra parole che una medesima cosa significhino, come qui
- sono; percioché «solo» non può essere se non uno, e «uno» non può
- essere se non solo; ma questo si scusa per lo lungo e continuo uso del
- parlare, il quale pare aver prescritto questo modo di parlare, contro
- al vizio della inculcazione. O potrebbesi dire questo nome «solo»
- fosse nome adiettivo, e «uno» fosse nome proprio di quel numero, e
- cosí cesserebbe il vizio. «M'apparecchiava a sostener la guerra», cioè
- la fatica, nemica e infesta al mio riposo, «sí del cammino», che far
- dovea (in che mostra dovere il corpo esser gravato), «e sí della
- pietate», cioè della compassione, la quale aspetta d'avere vedendo
- l'afflizione e le pene de' dannati e di quegli che nel fuoco si
- purgano. Ed in questo dimostra l'anima dovere esser faticata,
- percioché essa è dalle passioni, che dalle cose esteriori vengono,
- gravata e noiata essa, e non il corpo; quantunque ella sia ancor
- gravata dalle passioni corporali. «Che tratterá», cioè racconterá, «la
- mente», cioè la potenza memorativa, «che non erra»; e questo dice,
- percioché si conosceva aver tenace memoria, per la qual cosa non
- temeva dovere errare né nella quantitá né nella qualitá.
- «O muse, o alto ingegno». In questa seconda parte l'autore fa la sua
- invocazione, secondo il costume poetico. Usano i poeti in pochi versi
- dire la intenzion sommaria di ciò che poi intendono di trattare in
- tutto il processo del libro, e, questo detto, fare la loro
- invocazione. E cosí fa Virgilio nel principio del suo _Eneida_:
- _... at nunc horrentia Martis
- arma, virumque cano, Troiae qui primus ab oris,_ ecc.;
- e, questi pochi versi detti, incontanente invoca, dicendo:
- _Musa, mihi causas memora; quo numine laeso,_ ecc.
- E Ovidio, nel principio del suo maggior volume, dice:
- _In nova fert animus mutatas dicere formas
- corpora;_
- ed incontanente invoca, dicendo:
- _...dii coeptis, nam vos mutastis et illas,
- aspirate meis,_ ecc.
- E talvolta i poeti, insieme con la invocazione, mescolano la sommaria
- intenzion loro; e cosí, nel principio della sua _Odissea_, fece Omero,
- li versi del quale ottimamente traslatò in latino Orazio, dicendo:
- _Dic mihi, musa, virum, captae post tempora Troiae,
- qui mores hominum multorum vidit, et urbes._
- Cosí similmente il venerabile mio precettore messer Francesco Petrarca
- fece nel principio della sua _Africa_, dicendo:
- _Et mihi cospicuum meritis, belloque tremendum,
- musa, virum referas._
- Ma il nostro autore s'accostò piú allo stilo di Virgilio, come in
- ciascuna cosa fa, che a quello d'alcun altro; percioché, avendo sotto
- brevitá nel precedente canto mostrato quello che intende in tutto il
- libro suo di dire, lá dove dice: «E trarrotti di qui per luogo
- eterno», ecc.; qui fa la sua invocazione, dicendo: «O muse, o alto
- ingegno, or m'aiutate. O mente, che scrivesti», ecc. [Invoca adunque
- in questo suo principio, sí come appare, le muse, come di sopra è
- mostrato far gli altri poeti: per che pare di dover dichiarare che
- cosa sieno queste muse e quante, e qual sia il loro uficio; e questo,
- sí per piú pienamente dar lo intelletto del presente testo, e sí
- ancora perché in piú parti del presente libro se ne fará menzione.]
- [È adunque da sapere, secondo che i poeti fingono, che le muse son
- nove, e furono figliuole di Giove e della Memoria: e la ragione perché
- questo sia da' poeti, fingendo, detto, è questa. Piace ad Isodoro,
- cristiano e santissimo uomo e pontefice, nel libro _Delle etimologie_,
- che, percioché il suono delle predette muse è cosa sensibile, e che
- nel preterito passa, e impriemesi nella memoria, però essere da' poeti
- dette figliuole di Giove e della Memoria. Ma io, a maggior
- dichiarazione di questo sentimento, estimo che sia cosí da dire: che,
- conciosiacosaché da Dio sia ogni scienzia, come nel principio del
- libro _Della sapienza_ si legge, e non basti a ricever quella
- solamente l'avere inteso, ma che, a farla in noi essere scienza, sia
- di necessitá le cose intese commendare alla memoria, e cosí divenire
- in noi scienza (il che l'autore appresso assai bene ne dimostra, lá
- dove dice:
- Apri la mente a quel ch'io ti paleso,
- e fermal dentro, ché non fa scienza,
- senza lo ritenere, avere inteso);
- dobbiamo, e possiam dire, queste muse, cioè scienza, in noi giá
- abituata per lo intelletto e per la memoria, potersi dire figliuole di
- Giove, cioè di Dio Padre e della Memoria. E dico Giove doversi
- intendere qui Iddio Padre, percioché alcuno altro nome non so piú
- conveniente a Dio Padre che questo. E la ragione è che Giove si chiama
- in latino _Iupiter_, il qual noi intendiamo «_iuvans pater_»: il qual
- nome, se ben vorremo riguardare, ad alcun altro che a Dio Padre
- dirittamente non s'appartiene, percioché esso solo dirittamente si può
- dir padre; percioché, essendo senza avere avuto padre, è delle cose
- eterne, ed eziando dell'altre, unico e vero creatore e padre; e, oltre
- a ciò, ad ogni onesta operazione è veramente aiutatore, né si può
- senza il suo aiuto alcuna cosa perfettamente ad effetto recare: e
- cosí, quante volte in alcuno onesto atto Giove si nomina, possiamo e
- dobbiamo di Dio onnipotente intendere. Cosí adunque, ritornando al
- proposito, meritamente di Giove e della Memoria possiam dire le muse
- essere state figliuole, in quanto egli è vero dimostratore della
- ragione di qualunque cosa; le quali sue dimostrazioni, servate nella
- memoria, fanno scienza ne' mortali, per la quale qui, largamente
- prendendo, s'intendono le muse: e cosí sará la memoria, ricevitrice e
- ritenitrice di questo santo seme, e poi riducitrice, quasi
- partoritrice, madre delle muse. Le quali dice il predetto Isidoro, nel
- libro preallegato, esser nominate «_a quaerendo_», cioè da «cercare»;
- percioché per esse, sí come gli antichi vogliono, si cerca la ragione
- de' versi e la modulazione della voce; e per questo, per derivazione,
- viene dal nome loro questo nome di «musica», la quale è scienza di
- sapere moderare le voci. E da questa ragione si può prendere la
- cagione perché piú se l'hanno i poeti appropriate e fatte familiari
- che alcun'altra maniera di scientifici.]
- [Son queste muse in numero nove. E perché elle sieno nove, si sforza
- di mostrare Macrobio nel secondo libro _Super somnio Scipionis_,
- equiparando quelle a' canti delle otto spere del cielo, vogliendo poi
- la nona essere il concento che nasce della modulazione di tutti e otto
- i cieli; aggiugnendo poi le muse essere il canto del mondo, e questo,
- non che dall'altre genti; ma eziandio dagli uomini di villa sapersi,
- percioché da loro sono le muse chiamate «camene», quasi «canene», dal
- «cantare» cosí nominate.]
- [E, accioché voi intendiate che vuol dire questo canto del mondo,
- dovete sapere che fu oppinione di Pitagora e di altri filosofi, che
- ciascun cielo, di questi otto, cioè l'ottava spera e i sette de' sette
- pianeti, volgendosi in su li loro cardini, facessero alcuno ruggire,
- qual piú aguto e qual piú grave, sí, per divino artificio, di debiti
- tempi misurati, che, insieme concordando, facevano una soavissima
- melodia, la quale qui intende Macrobio per lo concento; della qual
- noi, per l'udirla continuo, non ci curiamo, né vi riguardiamo. Ma
- questa oppinione di Pitagora con manifeste ragioni è riprovata da
- Aristotile.]
- [Ma di questo rende Fulgenzio nel libro delle sue _Mitologie_ altra
- ragione, dicendo per queste nove muse doversi intendere la formazione
- perfetta della nostra voce: la qual voce, dice, si forma da quattro
- denti, li quali la lingua percuote quando l'uomo parla; de' quali, se
- alcun mancasse, parrebbe che piú tosto si mandasse fuori un sufolo che
- voce. Appresso questo, dice formarsi la voce dalle due nostre labbra,
- le quali non altrimenti sono che due cembali modulanti la comoditá
- delle nostre parole; e cosí la lingua, col suo piegamento e
- circunflessione, essere a modo che un plettro, il quale formi lo
- spirito vocale; e quindi essere opportuno il palato, per la concavitá
- del quale si proffera il suono. E ultimamente, accioché nove cose
- sieno, s'aggiugne la canna della gola, la qual presta il corso
- spirituale per la sua ritonda via. Ed oltre a questo, percioché da
- molti si dice Apollo cantare con queste nove muse, non altrimenti che
- servatore del concento al canto delle predette cose, è dal detto
- Fulgenzio aggiunto il polmone, il quale, a guisa d'un mantaco, le cose
- concette manda fuori e rivoca dentro. E, non volendo che in cosí
- riposto segreto della natura a lui solamente paia di dovere esser
- prestata fede di cosí esquisita ragione, induce per testimoni
- Anassimandro lampsaceno e Zenofane eracleopolita, li quali conferma
- queste cose avere scritte ne' libri loro; aggiugnendo ancora queste
- medesime cose da molti chiarissimi filosofi essere affermate, sí come
- da Pisandro fisico, e da Eussimene in quel libro il quale egli chiama
- _Thelugumenon_.]
- [Appresso, il detto Fulgenzio ad altro intelletto e piú divulgato
- disegna gli effetti di queste muse, i loro nomi ponendo e quello per
- ciascuno in particularitá si debba intendere. E cosí la prima nomina
- Clio, e per questa vuole s'intenda il primo pensiero d'apparare;
- percioché «_Clios_» in greco viene a dire «_fama_» in latino; e nullo
- è che cerchi scienza se non quella nella quale crede potere prolungare
- la dignitá della fama sua: e per questa cagione è chiamata la prima
- Clio, cioè «pensiero di cercare scienza». La seconda è in greco
- chiamata Euterpe, la quale in latino vuol dire «bene dilettante»,
- accioché primieramente sia il cercare scienza, e appresso sia il
- dilettarsi in quello che tu cerchi. La terza è appellata Melpomene
- quasi «_melempio comene_» cioè «facente stare la meditazione»;
- accioché primieramente sia il volere, e appresso che quello ti diletti
- che tu vuogli, e, oltre a ciò, perseverare, meditando quello che tu
- disideri. La quarta ha nome Talia, cioè capacitá, quasí come l'uom
- dicesse «_Tithonlia_», cioè «pognente cosa che germini». La quinta si
- chiama Polimnia, quasi «_poliumneemen_», cioè «cosa che faccia molta
- memoria»; percioché noi diciamo che, dopo la capacitá, è necessaria la
- memoria. La sesta è chiamata Erato cioè «_eurun comenon_», il qual noi
- in latino diciamo «trovatore del simile»; percioché, dopo la scienza e
- dopo la memoria, è giusta cosa che l'uomo di suo trovi alcuna cosa
- simile. La settima si chiama Tersicore, cioè «dilettante
- ammaestramento»: adunque, appresso la invenzione, bisogna che l'uomo
- discerna e giudichi quello che esso truovi. L'ottava si chiama Urania,
- cioè «celestiale»; percioché, dopo l'aver giudicato, elegge l'uomo
- quello che egli debba dire e quello che egli debba rifiutare;
- percioché lo eleggere quello che sia utile e rifiutare quello che sia
- caduco e disutile, è atto di celestiale ingegno. La nona è chiamata
- Calliope, cioè «ottima voce». Sará dunque l'ordine questo:
- primieramente volere la dottrina; appresso dilettarsi in quello che
- l'uom vuole; poi perseverare in quello che diletta; e, oltre a ciò,
- prendere quello in che si dee perseverare; e quinci ricordarsi di
- quello che l'uom prende; appresso trovare del suo cosa simigliante a
- quello di che l'uom si ricorda; dopo questo, giudicar di quello di che
- l'uom si ricorda; e cosí eleggere quello di che si giudichi; e
- ultimamente profferere bene quello che l'uomo avrá eletto.]
- [Dalle quali dimostrazioni, e spezialmente per le prime, si può
- comprendere che cagione muova i poeti ad invocare il loro aiuto.
- Nondimeno pare ad alcuno che le muse si debbano dinominare da
- «_moys_», che in latino viene a dire «acqua». E questo vogliono,
- percioché il comporre, e ancora il meditare alcuna invenzione e la
- composta esaminare, si sogliano con meno difficultá fare su per la
- riva di un bel fiume o d'alcun chiaro fonte che in altra parte, quasi
- il riguardar dell'acqua abbia alle predette cose e muovere e incitar
- gl'ingegni. E questo par che vogliano prendere da ciò che Cadmo re di
- Tebe, sedendo sopra il fonte chiamato Ippocrene, trovò le figure delle
- lettere greche, le quali essi ancora usano; come che da Palamede poi,
- e ancora da Pittagora, ve ne fossero alcune aggiunte; e quivi
- similemente meditò la loro composizione insieme, accioché, secondo
- quello che era opportuno al greco idioma, per quelle si profferesse;
- affermando ancora molti fonti, secondo l'antico errore, essere stati
- alle muse consecrati, sí come il fonte Castalio, il fonte Aganippe ed
- altri, questo rispetto avendo, che sopra quegli fossero gl'ingegni
- umani piú pronti alle meditazioni che in alcun'altra parte.]
- «O alto ingegno.» È l'ingegno dell'uomo una forza intrinseca
- dell'animo, per la quale noi spesse volte troviamo di nuovo quello che
- mai da alcuno non abbiamo apparato. Il che avere sovente fatto
- l'autore in questo libro si trova, percioché, quantunque Omero e,
- appresso lui, Virgilio dello scendere in inferno scrivessero, ancora
- che in alcuna parte gli abbia l'autore imitati nello 'Nferno, nelle
- piú delle cose tiene da loro cammino molto diverso: del quale peroché
- alcuno altro scrittore non si truova che in quella forma trattato
- n'abbia, assai manifestamente possiam vedere della forza del suo
- ingegno questa invenzione e il modo del procedere essere premuto.
- «Or m'aiutate»: percioché mi bisogna a questo punto la 'nventiva, e 'l
- modo del procedere, e la sonoritá dello stilo.
- «O mente». Non bastando solo lo 'ngegno, per la cui forza le
- pellegrine inventive si truovano, invoca ancora la mente sua,
- accioché, per l'opera di lei, quello possa servare e poi raccontare,
- che avrá trovato. [Ed è questa mente, secondo che Papia scrive, la piú
- nobile parte della nostra anima, dalla quale procede l'intelligenzia,
- e per la quale l'uomo è detto fatto alla immagine di Dio; o è l'anima
- stessa, la quale per li molti suoi effetti ha diversi nomi meritati.
- Ella è allora chiamata «anima», quando ella vivifica il corpo; ella è
- chiamata «animo», quando ella alcuna cosa vuole; ella è chiamata
- «ragione», quando ella alcuna cosa dirittamente giudica; ella è
- chiamata «spirito», quando ella spira; ella è chiamata «senso», quando
- ella alcuna cosa sente; ella è chiamata «mente», quando ella sa ed
- intende.] Questa sta nella piú eccelsa parte dell'anima, e perciò è
- chiamata mente, perché ella si ricorda. Per lo quale effetto qui il
- suo aiuto invoca l'autore; percioché, se in questo la mente non
- l'aiutasse, invano sarebbe disceso o discenderebbe a vedere tante cose
- e cosí diverse, quanto per opera della mente ne scrive.
- «Che scrivesti», cioè in te raccogliesti, «ciò ch'i' vidi», nel
- cammino da me fatto, «Qui», cioè nella presente opera, «si parrá la
- tua nobilitate», cioè la tua sufficienza in conservare; percioché la
- nobilitate della cosa consiste molto nello esercitar bene e
- compiutamente quello che al suo uficio appartiene.
- «Io cominciai:--Poeta». In questa terza parte del presente canto dissi
- che l'autore moveva un dubbio a Virgilio: il quale, mosso da
- pusillanimitá mostra di temere di mettersi nel cammino, il quale
- Virgilio nella fine del primo canto disse di dovergli mostrare; e
- dice: «Io cominciai», a dire:--«Poeta», Virgilio, «che mi guidi,
- Guarda», cioè esamina, «la mia virtú», cioè la mia forza, «s'ella è
- possente», a sostener tanto affanno, quanto nel lungo cammino e
- malagevole, per lo quale tu di' di volermi menare, fia di necessitá di
- sofferire; e fa' questo, «Prima che all'alto passo», cioè d'entrare in
- inferno, «tu mi fidi», tu mi commetta. Quasi voglia dire:--Io vorrei
- per avventura ad ora tornare indietro ch'io non potrei.--
- «Tu dici». Qui vuole l'autore levar via una risposta, la qual
- Virgilio, sí come egli avvisava, gli avrebbe potuta fare, cioè di
- dire:--Non puo' tu venire, o non credi poter, lá dove andò Enea e
- ancora lá dove andò san Paolo?--E comincia: «Tu dici», nel sesto libro
- del tuo _Eneida_, «che di Silvio lo parente», cioè padre.
- Ebbe Enea due figliuoli, de' quali fu l'uno chiamato Iulio Ascanio, e
- questo ebbe di Creusa, figliuola di Priamo re di Troia; e l'altro ebbe
- nome Iulio Silvio Postumo, il quale Lavinia, figliuola del re Latino,
- essendo rimasa gravida d'Enea, partorí dopo la morte d'Enea in una
- selva. Per la qual cosa ella il cognominò Silvio; e Postumo fu
- chiamato, percioché dopo la umazione del padre, cioè poi che 'l padre
- fu messo sotterra, era nato: e cosí si chiamano tutti quelli che dopo
- la morte de' padri loro nascono.
- «Corruttibile ancora», cioè ancora vivo (percioché chiunque nella
- presente vita vive è corruttibile, cioè atto a corruzione), «ad
- immortale», cioè eterno, «secolo», cioè mondo.
- «Secolo», secondo il suo proprio significato, è uno spazio di tempo di
- cento anni, secondo il romano uso: ma in questa parte non lo 'ntende
- l'autore per ispazio di tempo, ma, seguendo l'uso del parlare
- fiorentino, nel quale, volendo dire «in questo mondo», spesso si dice
- «in questo secolo», rivolgendo il nome del tempo in nome del luogo
- dove il tempo s'usa, cioè nel mondo, chiama «secolo» l'altro mondo,
- cioè lo 'nferno, il quale noi similmente assai spesso chiamiamo
- «l'altro mondo», il che la sacra Scrittura similemente fa alcuna
- volta. [Il quale del presente mondo dicendo, dice san Paolo: «_Pie et
- iuste viventes in hoc saeculo_»; e dell'altra vita parlando:
- «_Nescimus in quos fines saeculi devenerunt_».]
- «Andò, e fu sensibilmente»: volendo per questo s'intenda Enea, non per
- visione o per contemplazione essere andato in inferno, ma col vero
- corpo sensibilmente. E questo prende l'autore da ciò che Virgilio
- scrive nel sesto dell'_Eneida_, nel qual dice che, essendo Enea, poi
- che di Cicilia si partí, pervenuto nel seno di Baia, e quivi in assai
- tranquillo mare, dando per avventura riposo a' suoi compagni, e
- disideroso di sapere quello che di questa sua peregrinazione gli
- dovesse avvenire; essendo andato al lago d'Averno, dove avea udito
- essere l'oraculo della sibilla cumana ed essa altresí, la pregò che in
- inferno il menasse al padre; e, dietro alla sua guida, vivo e con
- l'arme discese: e, per quello passando, pervenne ne' campi Elisi, lá
- dove quegli, che in istato di beatitudine, erano secondo l'antico
- errore. E perciò dice l'autore che egli andò «sensibilmente».
- «Perché, se l'avversario d'ogni male», cioè Iddio, «Cortese fu», di
- lasciarlo andare senza alcuna offensione, non è maraviglia, «pensando
- l'alto effetto Che uscir dovea di lui», cioè d'Enea, «e 'l chi, e 'l
- quale», [cioè Cesare dettatore, o Ottaviano imperadore. De' quali
- ciascun fu da molto, e ciascun si potrebbe dire essere stato fondatore
- della imperial dignitá; percioché, quantunque Cesare non fosse
- imperadore, egli fu dettatore perpetuo, e fu il primo, dopo i re
- cacciati di Roma, il quale recò nelle sue mani violentemente tutto il
- governo della republica. Del quale occupamento seguí il triumvirato di
- Ottaviano e de' compagni; e da quello, essendo da Ottaviano, per loro
- bestialitá, posti giú dell'uficio del triumvirato Marco Antonio e
- Marco Lepido, e rimaso egli solo triumviro, ne seguí, o per tacita
- forza, o pure per ispontaneo piacere del senato e del popolo di Roma,
- l'essergli il governo della republica commesso, quando cognominato fu
- Augusto; dopo il quale sempre fu servato poi, uno dopo l'altro, essere
- in quella dignitá sustituiti e chiamati imperadori. E risponde qui
- l'autore ad una tacita quistione. Potrebbe alcun dire:--Come déi tu,
- che se' cristiano, credere che Iddio fosse piú liberale ad un pagano
- di lasciarlo andare vivo in inferno, che a te?--A che egli e nelle
- parole predette risponde e in quelle che seguono, dicendo:]
- «Non pare indegno» l'avere Iddio sostenuto l'andata d'Enea «ad uomo
- d'intelletto», il cui giudicio è ragionevole e giusto, e massimamente
- avendo riguardo «Ch'ei», Enea, «fu dell'alma», cioè eccelsa, «Roma»,
- la quale tutto il mondo si sottomise, «e dello 'mpero», cioè della
- signoria di Roma, o vogliam dire della dignitá spettante a quelli che
- noi chiamiamo imperadori, de' quali fu il primo Ottaviano, disceso per
- molti mezzi della schiatta d'Enea, «Nell'empireo ciel», cioè nel cielo
- della luce dove si crede essere il solio della divina maestá; [e
- chiamasi «empireo», cioè igneo, percioché «_pir_» in greco, viene a
- dire «fuoco» in latino: e vogliono i nostri santi quello dirsi
- «empireo», percioché egli arde tutto di perfetta caritá;] «per padre
- eletto». Vuol per questo sentir l'autore per divina disposizione
- essere d'Enea seguito quello che leggiamo essere stato operato per li
- suoi successori.
- E dice qui Enea esser padre di Roma e dello 'mperio, percioché quegli
- che di lui nacquero per sedici re, infino a Numitore, che fu l'ultimo
- della schiatta d'Enea, regnarono in Alba per ispazio di quattrocento
- ventiquattro anni. Poi, essendo di Numitore re nata Ilia, e Amulio,
- fratello di Numitore, piú giovane d'etá, tolto a Numitore il regno,
- fece uccidere un figliuolo di Numitore chiamato Lauso; e per torre ad
- Ilia speranza di figliuoli, la fece vergine vestale, alle quali era
- pena d'essere sotterrate vive, se in adulterio fossero state trovate.
- Nondimeno questa Ilia, come che ella si facesse, [o con cui ella si
- giacesse,] ella ingravidò, e partorí due figliuoli ad un parto, dei
- quali l'uno fu chiamato Romolo e l'altro Remulo: li quali, essendo
- giá, per comandamento di Amulio, Ilia stata sotterrata viva, furono
- gittati, da persone mandate dal re a ciò, non nel corso del Tevero, al
- quale, perché cresciuto era, non si poteva andare, ma alla riva: e 'l
- fiume scemato, ed essi trovati vivi da una chiamata Acca Laurenzia,
- moglie d'un pastore del re, chiamato Faustulo, furono raccolti e
- nutricati, niente sappiendone il re, e cosí nominati da Faustolo. Li
- quali cresciuti, ed avendo reale animo, ed essendo pastori e capitani
- e maggiori di ladroni e d'uomini violenti, ed avendo da Faustulo
- sentito cui figliuoli erano; composto il modo tra loro, fu l'un di
- loro preso e menato davanti dal re e accusato; e l'altro, attendendo
- il re ad udire la querela, feritolo di dietro, l'uccise, e a Numitore
- loro avolo, che in villa si stava, restituirono il reame; ed essi,
- tornatisene lá dove allevati erano stati, fecero quella cittá, la
- qual, da Romolo dinominata Roma, divenne donna del mondo. Per la qual
- cosa appare Enea essere stato padre di Roma.
- Appresso, partitosi Iulio Proculo, il quale fu bisnipote di Iulio
- Silvio e di Romulo, re d'Alba, e discendente, come detto è, d'Enea, e
- venutosene con Romolo ad abitare a Roma; quivi fondò la famiglia de'
- Giuli secondo che Eusebio, _in libro Temporum_, dice: li quali poi in
- Roma, per continue successioni perseverando, infino a Gaio Iulio
- Cesare pervennero. Il quale, non avendo alcun figliuolo, s'adottò in
- figliuolo Ottaviano Ottavio [li cui antichi, secondo che dice
- Svetonio, _De XII Caesaribus_, furono di Velletri], figliuolo d'una
- sua sirocchia carnale, chiamata Iulia: ed in costui poi fu di pari
- consentimento del senato e del popolo di Roma, come davanti è detto,
- commesso il governo della republica, e fu cognominato Augusto; e fu il
- primo imperadore, e de' discendenti di Enea. E cosí Enea fu similmente
- padre dello 'mperio, cioè della dignitá imperiale.
- «La quale», cioè Roma, «e 'l quale», imperio, «a voler dir lo vero,
- Fûr stabiliti», ordinati per evidenzia da Dio, «per lo loco santo»,
- cioè per la sedia apostolica, «U' siede il successor», cioè il papa,
- «del maggior Piero», cioè di san Piero apostolo, il quale chiama
- «maggiore» per la dignitá papale e a differenza di piú altri santi
- uomini nominati Piero. E che questo fosse preveduto e ordinato da Dio,
- appare nelle cose seguite poi, tra le quali sappiamo Costantino
- imperadore, mondato della lebbra da san Silvestro papa, lasciò Roma e
- la imperial sedia al papa, e andossene in Costantinopoli; e oltre a
- questo, ordinò e fe' i suoi successori sempre con la loro potenza
- esser presti contro a ciascheduno il quale infestasse o turbasse la
- quiete della Chiesa di Dio e dei pastori di quella: per che
- meritamente dice l'autore essere stabiliti e Roma e lo 'mperio per lo
- santo luogo dell'apostolica sede. E però conoscendo Iddio, al quale
- nulla cosa è nascosa, questo, non è da maravigliare se esso fu cortese
- ad Enea di lasciarlo andare in inferno; e massimamente sappiendo che
- esso dovea laggiú udir cose, le quali l'animerebbero a dover dare
- opera a quello di che dovea questo seguire.
- E poi soggiugne l'autore: «Per questa andata», di Enea in inferno,
- «onde», cioè della quale, «tu mi dái vanto», cioè promessione, dicendo
- di menarmi laggiú (benché in alcuni libri si legge: «Per questa
- andata, onde tu gli dái vanto», ad Enea, commendandolo ed estollendolo
- per quella, lá ove tu di' nel sesto dell'_Eneida_:
- _Noctes atque dies patet atri ianua Ditis
- sed revocare gradum superasque evadere ad auras,
- hoc opus, hic labor est. Pauci, quos aequus amavit
- Iuppiter, aut ardens evexit ad aethera virtus,
- Dis geniti potuere_:
- per le quali parole estimo migliore questa seconda lettera che la
- prima), «Intese cose», Enea, «che furon cagione Di sua vittoria», in
- quanto, riempiendolo di buona speranza, il fecero animoso all'impresa
- contro a Turno re de' rutuli, del quale avuto vittoria, e giá in
- Italia divenuto potente, ne seguí l'effetto che poco avanti si legge,
- cioè «del papale ammanto». Vuol qui l'autore per parte s'intenda il
- tutto, cioè per lo papale ammanto tutta l'autoritá papale. Ed è da
- intender qui che egli in quelle cose che da Anchise intese, come
- Virgilio nel sesto dell'_Eneida_ mostra, cominciando quivi:
- _Nunc age, Dardaniam prolem quae deinde sequatur
- gloria_, ecc.,
- non udí cosa alcuna del papale ammanto, ma udí cose le quali poi in
- processo di tempo, come detto è, furon cagione che Roma divenisse
- sedia del papa, come lungamente giá fu.
- «Andovvi poi», cioè lungo tempo dopo Enea, «il vaso d'elezione», cioè
- san Paolo, il quale non andò in inferno come Enea, ma fu rapito in
- paradiso, lá dove tu di' che io andrò se io vorrò. La qual cosa è
- vera, sí come egli medesimo testimonia, affermando sé aver vedute cose
- delle quali non è lecito agli uomini di favellare: e percioché Iddio
- l'aveva eletto per vaso dello Spirito santo, conoscendo il frutto che
- delle sue predicazioni doveva uscire, non è mirabile se Iddio di cosí
- fatta andata gli fu cortese, e massimamente considerando che egli
- v'andò, «Per recarne», quaggiú tra noi, «conforto a quella fede»,
- cristiana, «Ch'è principio alla via di salvazione». E questo è
- certissimo, peroché, non possendosi gli alti segreti della divinitá
- per alcuna nostra ragione conoscere, è di necessitá, innanzi ad ogni
- altra cosa, che per fede si credano. Sí che ben dice l'autore la fede
- cattolica esser principio alla via di salvazione; alla quale, ancora
- debole e fredda nelle menti di molti giá cristiani divenuti, san
- Paolo, con la dottrina appresa nel celeste regno, recò molto conforto,
- riscaldando colle sue predicazioni e con l'epistole le menti fredde e
- quasi ancora dubitanti.
- «Ma io perché venirvi?» ne' luoghi ne' quali tu mi prometti di
- menarmi, quasi dica:--per qual mio merito?--«o chi 'l concede?», cioè
- che io in questi luoghi debba venire; volendo per questo intendere,
- come appresso dimostra, esser temeraria cosa l'andare in alcun segreto
- luogo, senza alcun merito o senza licenza.
- «Io non Enea», al quale Iddio fu cortese per le ragioni giá mostrate.
- Chi Enea fosse, ancora che a molti sia noto, nondimeno piú
- distesamente si dirá appresso nel quarto canto di questo libro, e
- però, quanto è al presente, basti quello che detto n'è.
- «Io non Paolo sono». San Paolo fu del tribo di Beniamin, e fu per
- patria di Tarso cittá di Cilicia: [e avanti che divenisse cristiano,
- fu nelle scienze mondane assai ammaestrato, e fu ferventissimo
- perseguitore de' cristiani. Poi, chiamato da Dio al suo servigio, fu
- mirabilissimo dottore, e con le sue predicazioni molte nazioni
- convertí al cristianesimo, molti pericoli e molte avversitá di mare e
- di terra e d'uomini sostenne per lo nome di Cristo, e ultimamente,
- imperante Nerone Cesare, per lo nome di Cristo ricevette il martirio;
- e, percioché era cittadino di Roma, gli fu tagliata la testa, e non
- fu, come san Piero, crocefisso. Di costui predisse Iacob, molte
- centinaia d'anni avanti, in persona di Beniamin suo figliuolo, e del
- quale egli doveva discendere: «_Beniamin, lupus rapax, mane devorat
- praedam et vespere dividit spolia_». Il quale vaticinio appartenere a
- san Paolo assai chiaramente si vede, percioché esso fu lupo rapace: e
- la mattina, cioè nella sua giovanezza, divorò la preda, cioè uccise i
- cristiani; e al vespro, cioè nella sua etá piú matura, divenuto
- servidore a Cristo, divise le spoglie.] Il quale da Dio fu eletto per
- conforto della nostra fede.
- «Me degno a ciò». Quasi voglia dire: perché io non sia Enea né san
- Paolo, io potrei per alcun altro gran merito credere d'esser degno di
- venirvi, ma io non so; e, per questo, d'esser di venir degno «né io né
- altri il crede».
- Appresso questo, conchiude al dubbio suo, dicendo: «Per che», cioè per
- non esserne degno, «se del venire», lá dove tu mi vuoi menare, «io
- m'abbandono», cioè mi metto in avventura, «Temo che la venuta», mia,
- «non sia folle», cioè stolta, in quanto male e vergogna me ne potrebbe
- seguire. E quinci rende Virgilio, al quale egli parla, attento a dover
- guardare al dubbio il quale egli muove, in quanto dice: «Se' savio,
- e», per questo, «intendi me' ch'i' non ragiono», cioè che io non ti so
- dire.--E, appresso questo, per una comparazione liberamente apre
- l'animo suo dicendo: «E quale è quei che disvuol», cioè non vuole,
- «ciò ch'e' volle», poco avanti, «E per nuovi pensier», sopravvenuti,
- «cangia proposta», quello che prima avea proposto di fare, «Sí che dal
- cominciar tutto si tolle; Tal mi fec'io in quella oscura costa»;
- percioché mostra non fossero ancor tanto andati, che usciti fossero
- del luogo oscuro, nel quale destandosi s'era trovato. «Per che,
- pensando»; mostra la cagione perché divenuto era tale, quale è colui
- il quale disvuole ciò ch'e' volle, e dice che, pensando non fosse il
- suo andare pericoloso, «consumai», cioè finii, «l'impresa», che fatta
- avea di seguir Virgilio. «Che fu, nel cominciar, cotanto tosta», cioè
- súbita, in quanto senza troppo pensare aveva risposto a Virgilio, come
- nel canto precedente appare, pregandolo che il menasse.
- [Lez. VIII]
- --«Se io ho ben la tua parola intesa»--In questa quarta parte del
- presente canto, dimostra l'autore qual fosse la risposta fattagli da
- Virgilio: nella qual discrive come e da cui e perché e donde Virgilio
- fosse mosso a dover venire allo scampo suo. Dice adunque: «Rispuose»,
- a me, «del magnanimo quell'ombra», cioè quell'anima di Virgilio, il
- quale cognomina «magnanimo», e meritamente, percioché, sí come
- Aristotile nel quarto della sua _Etica_ dimostra, colui è da dire
- «magnanimo», il quale si fa degno d'imprendere e d'adoperare le gran
- cose. La qual cosa maravigliosamente bene fece Virgilio in quello
- esercizio, il quale alla sua facultá s'apparteneva: percioché
- primieramente, con lungo studio e con vigilanza, si fece degno di
- dover potere sicuramente ogni alta materia imprendere, per dovere
- d'essa in sublime stilo trattare; e, fattosene col bene adoperare
- degno, non dubitò d'imprenderla e di proseguirla e recarla a
- perfezione. E ciò si fu di cantare d'Enea e delle sue magnifiche
- opere, in onore d'Ottaviano Cesare: le quali in sí fatto e sí eccelso
- stilo ne discrisse, che né prima era stato, né fu poi alcun latino
- poeta che v'aggiugnesse.--«Se io ho ben la tua parola intesa», cioè il
- tuo ragionare, il quale veramente aveva bene inteso, «L'anima tua è da
- viltate offesa», cioè occupata da tiepidezza e da pusillanimitá, la
- quale non che le maggiori cose, ma eziando quelle che a colui, nel
- quale ella si pon, si convengono, non ardisce d'imprendere. «La qual»,
- viltá, «molte fiate l'uomo ingombra», cioè impedisce, «Sí che d'onrata
- impresa» [poi fatta] «l'arivolve», [dal]la sua misera e tiepida
- oppinione, «Come», ingombra, «falso veder», parendo una cosa per
- un'altra vedere (il che addiviene per ricevere troppo tosto nella
- virtú fantastica alcuna forma, nella immaginativa subitamente venuta),
- «bestia quand'ombra», cioè adombra, e temendo non vuole piú avanti
- andare. E vuolsi questa lettera cosí ordinare: «la quale molte fiate
- ingombra l'uomo, come falso vedere fa bestia, quand'ombra, e d'onorata
- impresa l'arivolve».
- Poi séguita: «Da questa téma», la quale tu hai di venire lá dove detto
- t'ho, «accioché tu ti solve», cioè sciolghi, sí che ella non ti tenga
- piú impedito, «Dirotti perch'i' venni, e», dirotti, «quel ch'io
- intesi, Nel primo punto che di te mi dolve», cioè che io ebbi
- compassion di te.
- «Io era tra color che son sospesi», in quanto non sono demersi nella
- profonditá dello 'nferno, né nella profonda miseria de' supplici piú
- gravi, come sono molti altri dannati; né sono non che in gloria, ma in
- alcuna speranza di minor pena, che quella la qual sostengono. Poi
- segue Virgilio: ed essendo quivi, «E donna mi chiamò beata e bella».
- Dove, per mostrare piú degna colei che il chiamò, le pone tre epiteti:
- prima dice che era «donna», il qual titolo, come che molte, anzi quasi
- tutte, oggi usino le femmine, a molte poche si confá degnamente; e
- dimostrasi per questo la condizione di costei non esser servile. Dice,
- oltre a questo, che ella era «bella»; e l'esser bella è singular dono
- della natura, il quale, quantunque nelle mondane donne sia fragile e
- poco durabile, nondimeno da tutte è maravigliosamente disiderato;
- senza che egli è pure alcun segno di benivole stelle operatesi nella
- concezione di quella cotale, che questo dono riceve; e quasi non mai
- sogliono i superiori corpi questo concedere, ch'egli non sia d'alcuna
- altra grazia accompagnato: per la qual cosa paiono piú venerabili
- quelle persone, che hanno bello aspetto, che gli altri. Appresso dice
- che era «beata», nella qual cosa racchiude tutte quelle cose, le quali
- debbano potere muovere a' suoi comandamenti qualunque persona
- richiesta; peroché chi è beato non è verisimile dovere d'alcuna cosa,
- se non onestissima, richiedere alcuno; e può chi è beato remunerare; e
- dé' si credere lui esser grato verso chi a' suoi piacer si dispone. Le
- quali cose Virgilio, sí come avvedutissimo uomo, conoscendo, dice:
- ella era «Tal che di comandare i' la richiesi»; cioè offersimi, come
- ella mi chiamò, presto ad ogni suo comandamento. E ben doveva questa
- donna esser degna di reverenza, quando tanto uomo, quanto Virgilio fu,
- si proffera a lei.
- Poi segue continuando il suo dire, e ancora piú degna la dimostra,
- dicendo: «Lucevan gli occhi suoi piú che la stella». Dé'si qui
- intendere l'autore volere preporre la luce degli occhi di questa donna
- alla luce di quella stella ch'è piú lucente. «E cominciommi a dir»,
- questa donna, «soave e piana»: nel qual modo di parlare si comprende
- la qualitá dell'animo di colui che favella dovere essere riposata, non
- mossa da alcuna passione, e, oltre a ciò, in questo disegna l'atto
- dell'onesto, il quale in ogni suo movimento dee esser soave e
- riposato. «Con angelica voce» aggiugne un'altra cosa, mirabilmente
- opportuna nelle donne, d'aver la voce piacevole, né piú sonora né meno
- che alla gravitá donnesca si richiede; e queste cosí fatte voci fra
- noi sono chiamate «angeliche». E, oltre a questo, l'attribuisce
- Virgilio questa voce in testimonio della beatitudine di lei, percioché
- estimar dobbiamo alcuna cosa deforme non potere essere in alcun beato.
- «In sua favella», cioè in fiorentino volgare, non ostante che Virgilio
- fosse mantovano. Ed in ciò n'ammaestra alcuno non dovere la sua
- original favella lasciare per alcun'altra, dove necessitá a ciò nol
- costrignesse. La qual cosa fu tanto all'animo de' romani, che essi,
- dove che s'andassero, o ambasciadori o in altri ufici, mai in altro
- idioma che romano non parlavano; e giá ordinarono che alcuno, di che
- che nazion si fosse, in senato non parlasse altra lingua che la
- romana. Per la qual cosa assai nazioni mandaron giá de' loro giovani
- ad imprendere quello linguaggio, accioché intendesser quello e in
- quello sapessero e proporre e rispondere.
- Ma potrebbesi qui muovere un dubbio, e dire:--Come sai tu che questa
- donna parlasse fiorentino?--A che si può rispondere apparire in piú
- luoghi, in questo volume, Beatrice essere stata una gentildonna
- fiorentina, la quale l'autore onestamente amò molto tempo; e per
- questo comprendere e dire lei in fiorentin volgare aver parlato.
- E percioché questa è la primiera volta che di questa donna nel
- presente libro si fa menzione, non pare indegna cosa alquanto
- manifestare di cui l'autore, in alcune parti della presente opera,
- intenda nominando lei, conciosiacosaché non sempre di lei
- allegoricamente favelli. Fu adunque questa donna (secondo la relazione
- di fededegna persona, la quale la conobbe, e fu per consanguinitá
- strettissima a lei) figliuola d'un valente uomo chiamato Folco
- Portinari, antico cittadino di Firenze: e, come che l'autore sempre la
- nomini Beatrice dal suo primitivo, ella fu chiamata Bice; ed egli
- acconciamente il testimonia nel _Paradiso_, lá dove dice: «Ma quella
- reverenza, che s'indonna Di tutto me, pur per B e per ice». E fu di
- costumi e d'onestá laudevole quanto donna esser debba e possa, e di
- bellezza e di leggiadria assai ornata; e fu moglie d'un cavaliere de'
- Bardi, chiamato messer Simone; nel ventiquattresimo anno della sua etá
- passò di questa vita, negli anni di Cristo milleduecentonovanta. Fu
- questa donna maravigliosamente amata dall'autore. Né cominciò questo
- amore nella loro provetta etá, ma nella loro fanciullezza; peroché,
- essendo ella d'etá d'otto anni e l'autore di nove, sí come egli
- medesimo testimonia nel principio della sua _Vita nuova_, prima
- piacque agli occhi suoi. Ed in questo amore con maravigliosa onestá
- perseverò mentre ella visse. E molte cose in rima, per amore ed in
- onor di lei giá compose; e, secondo che egli nella fine della sua
- _Vita Nuova_ scrive, esso in onor di lei a comporre la presente opera
- si dispose; e come appare e qui e in altre parti, assai
- maravigliosamente l'onora.
- --«O anima». Qui cominciano le parole, le quali Virgilio dice essergli
- state dette da questa donna, nelle quali la donna, con tre
- commendazioni di Virgilio, si sforza di farlosi benivolo ed
- ubbidiente, dicendo primieramente: «cortese», il che in qualunque,
- quantunque eccellente uomo e onorevole, titolo è da disiderare,
- percioché in ciascuno nostro atto è laudevole cosa l'esser cortese;
- quantunque molti vogliano che ad altro non si riferisca l'esser
- cortese, se non nel donare il suo ad altrui; «mantovana», il che la
- donna dice per mostrare che ella il conosca, e a lui voglia dire e
- dica, e non ad un altro; «La cui fama nel mondo ancora dura», cioè
- persevera. E questa è la seconda cosa per la quale la donna si vuol
- fare benivolo Virgilio, mostrandogli lui essere famoso.
- [È la Fama un romore generale d'alcuna cosa, la qual sia stata
- operata, o si creda essere stata, da alcuno, sí come noi sentiamo e
- ragioniamo delle magnifiche opere di Scipione Africano, della
- laudevole povertá di Fabrizio e della fornicazione di Didone e di
- simiglianti: la qual finge Virgilio, nel quarto del suo _Eneida_,
- essere stata figliuola della Terra e sorella di Ceo e d'Anchelado, e
- lei la Terra, commossa dall'ira degl'iddii, aver partorita. Della qual
- si racconta una cotal favola, che, conciofossecosaché, per desiderio
- d'ottenere il regno Olimpo, fosse nata guerra tra i Titani, uomini
- giganti, figliuoli della Terra, e Giove; si divenne in questo, che
- tutti i figliuoli della Terra, li quali inimicavan Giove, furon dal
- detto Giove e dagli altri iddii occisi: per lo qual dolore la Terra
- commossa e disiderosa di vendetta, conciofossecosaché a lei non
- fossero arme contro a cosí possenti nemici, accioché con quelle forze,
- le quali essa potesse, alcun male contro agl'iddii facesse, costretto
- il ventre suo, ne mandò fuori la Fama, raccontatrice delle scellerate
- operazioni degl'iddii. La forma della quale Virgilio nel preallegato
- libro discrive, e dice:
- _Fama, malum quo non aliud velocius ullum_, ecc.,
- seguendo che ella vive per movimento, e andando acquista forze, e
- nella prima tema è piccola, ma poi se medesima lieva in alto, e quindi
- va su per lo suolo della terra e il suo capo nasconde tra' nuvoli; e
- ch'ella è in su i piè velocissima, e ha alie molto ratte, ed è un
- mostro orribile e grande; e quante penne ha nel corpo suo, tanti occhi
- n'ha sotto che sempre vegghiano, e tante lingue e tante bocche le
- quali continuamente parlano, e tanti orecchi li quali sempre tiene
- levati; e vola la notte per lo mezzo del cielo e per l'ombra della
- terra, stridendo, senza dormir mai; e 'l dí siede ragguardatrice sopra
- la sommitá delle case, e spaventa le cittá grandi: tenace cosí de'
- composti mali, come rapportatrice del vero.]
- [Ma, se io, avendo la sua origine e la forma e gli effetti secondo le
- fizion poetiche discritte, non aprissi quello che essi sotto questa
- crosta sentano, potrei forse meritamente essere ripreso. Dico adunque
- che gl'iddii, per l'ira de' quali la Terra si commosse e turbò, è da
- intendere intorno ad alcuna cosa l'operazion delle stelle, le quali
- gli antichi, erronei, chiamavano «iddii», avendo riguardo alla loro
- eternitá e alla loro integritá, che alcuna corruzione non ricevea. Le
- quali stelle e corpi superiori, senza alcun dubbio per la potenza loro
- attribuita dal creatore di quelle, adoperano in noi secondo le
- disposizioni delle cose riceventi le loro impressioni; e da questo
- avviene che il fanciullo, o vogliam dire il giovane, per loro opera è
- aumentato, conciosiacosaché colui che invecchia sia diminuito, e
- conciosiacosaché mai si scostino dalla ragione dell'ottimo e perfetto
- governatore. Alcuna volta fanno cose, le quali dal repentino e falso
- giudicio de' mortali pare che abbino, sí come adirati, fatte, come
- quando per loro opera muore un giusto re, un felice imperadore, un
- caro e opportuno uomo al ben comune, un savissimo uomo, o un nobile ed
- egregio cavaliere: e per questo, cioè per lo fare venir meno i solenni
- uomini, pare che come adirati contro a loro faccino.]
- [Dissono li poeti gl'iddii essere adirati, avendo uccisi coloro li
- quali si doveano perpetuare; ma che di questo séguita che la Terra se
- ne commuove, cioè l'animoso uomo (percioché tutti siamo di terra, e in
- terra torniamo), e sforzasi d'adoperar quello di che nasca nome e fama
- di lui, la quale sia vendicatrice della sua futura morte; accioché,
- quando quello avverrá che i corpi superiori facciano venire al suo
- fine il suo mortal corpo, viva di lui, per li suoi meriti (eziandio
- non volendo i corpi superiori), il nome suo e la fama delle sue
- operazioni, non altrimenti che esso vivo fosse. E in quanto dice
- questa nella prima téma esser piccola, non ce ne inganniamo,
- percioché, quantunque grandi sien l'opere delle quali ella nasce,
- nondimeno paiono da un temore degli uditori cominciare a spandersi.
- Poi, in quanto dice Virgilio essa elevarsi ne' venti, niun'altra cosa
- vuol dire se non essa divenire in piú ampio favellio delle genti; o
- vogliam, per quel, sentire essa mescolarsi ne' ragionamenti delle
- genti mezzane. E, in quanto poi discende nel suolo della terra,
- intende il poeta lei mescolarsi nel vulgo; e cosí, quando mette il
- capo ne' nuvoli, dobbiamo intendere lei dovere mescolarsi ne'
- ragionamenti de' prencipi e degli uomini sublimi. E l'avere l'alie e i
- piè veloci assai manifestamente dimostra il suo presto trascorso d'una
- parte in un'altra; e per gli occhi, li quali le discrive molti, sente
- agli occhi della Fama ogni cosa pervenire, e cosí agli orecchi. E lei
- non tacer mai, dove che ella si favelli, o in pubblico o in occulto, o
- in un luogo o in un altro; lei non dormir mai, e volar la notte per lo
- mezzo del cielo o per l'ombra della terra: non credo altro intendere
- si debbia se non il suo continuo andamento di questo in quello e, per
- li suoi rapportamenti vari e molti, metter tremore ne' popoli, e per
- conseguente fare guardar le terre e alle porti e sopra le torri fare
- stare le guardie e gli speculatori. E, percioché essa non cura di
- distinguere il vero dal falso, è contenta di rapportare ciò che ella
- ode. Ma, in quanto dicono costei dalla Terra essere generata per
- dovere i peccati e le disoneste cose degl'iddii raccontare, per
- alcun'altra cosa non credo esser stato fitto se non per dimostrare le
- vendette degli uomini men possenti, li quali, non potendo altro fare
- a' grandi uomini, s'ingegnano, parlando mal di loro, di farli venire
- in infamia, e per conseguente in disgrazia delle genti. Figliuola
- della Terra è detta, percioché dell'opere sole, che sopra la terra si
- fanno, si genera la fama. E che essa non abbia padre credo avvenire da
- questo: per lo non sapersi donde il piú delle volte nasca il principio
- del ragionare di quello che poi fama diventa; il che se si sapesse,
- direbbe l'uomo quel cotale essere il padre della fama.]
- La qual cosa, quantunque ad ogni uomo, il quale ha sentimento, molto
- piaccia, sopra a tutti gli altri piacque a' gentili, li quali non
- avendo alcuna notizia della beatitudine celestiale, la quale Iddio
- concede a coloro li quali adoperan bene, quegli cotali, li quali
- virtuosamente adoperavano, a fine d'acquistar fama il facevano, e
- quella vedersi avere acquistata con somma letizia ascoltavano.
- Dunque mostra in questo la donna di conoscere da quali cose si doveva
- far benivolo Virgilio. E poi soggiugne la terza, dicendo: «E durerá»,
- questa tua fama, «mentre il mondo lontana», ponendo qui il presente
- tempo per lo futuro, in quanto dice «lontana» per «lontanerá», cioè si
- prolungherá. E questo per la consonanza della rima si concede. Ed è
- questa terza cosa quella che piú piace a coloro li quali fama
- acquistano, che essa dopo la lor morte duri lunghissimo tempo,
- estimando che quanto piú dura, piú certo testimonio renda della virtú
- di colui che guadagnata l'ha. Ed in questo la donna gli compiace, in
- quanto gli dice quello che gli è grato ad udire; e, oltre a ciò,
- dicendo quella dovere essere perpetua, mostra di credere lui essere
- stato per sua grandissima virtú degno d'eterna fama.
- [Ma, percioché qui di questa fama si fa menzione, e ancora in piú
- parti nel processo se ne fará, e di sopra abbiamo scritta la sua
- origine, estimo sia commendabile il mostrare, anzi che piú procediamo,
- che differenza sia tra onore e laude e fama e gloria, accioché, dove
- nelle cose seguenti menzione se ne fará, s'intenda in che differenti
- sieno; e questo dico, percioché giá alcuni indifferentemente posero
- l'un nome per l'altro, de' quali forse furono di quegli che non
- sapevano la differenza. Dico adunque che «onore» è quello il quale ad
- alcuno in presenza si fa, o meritato o non meritato che l'abbia; come
- che il meritato sia vero onore e l'altro non cosí: sí come a Scipione
- Africano, il quale avendo magnificamente per la republica contro a
- Cartagine adoperato, tornando a Roma, gli fu preparato il carro
- triunfale e fattigli tutti quegli onori che al triunfo aspettavano,
- che eran molti. E questo era vero e debito onore, che per virtú di
- colui che il riceveva s'acquistava. A dimostrazione della qual cosa è
- da sapere che Marco Marcello, nel quinto suo consolato, secondo che
- dice Valerio, avendo vinto primieramente Clastidio, e poi Seragusa in
- Sicilia, e botato in questa guerra un tempio alla Virtú e all'Onore,
- fu per lo collegio dei pontefici giudicato a due deitá non potersi un
- tempio solo farsi; percioché, se alcuna cosa miracolosa in quello
- avvenisse, non si saprebbe a quale delle due deitá ordinare i
- sacrifici debiti e le supplicazioni. E perciò fu ordinato che a
- ciascuna delle due deitá si facesse un tempio; li quali furono fatti
- congiunti insieme in questa guisa: che nel tempio fatto in reverenza
- dell'Onore non si poteva entrare, se per lo tempio della Virtú non
- s'andasse. E questo fu fatto a dare ad intendere che onore non si
- poteva acquistare se non per operazion di virtú. È, oltre a questo,
- fatto onore ad alcuni, li quali per loro meriti nol ricevono, ma per
- alcuna dignitá loro conceduta, o per la memoria de' lor passati, o
- forse per la loro etá: questi sono, andando, messi innanzi, posti
- nelle prime sedie, e in simili maniere onorati. Le «laude», come
- l'onore si fa in presenza a colui che meritato l'ha, cosí si dicono
- lui essendo assente; percioché, se lui presente si dicessero, non
- laude ma lusinghe parrebbono. La «gloria» è quella che delle ben fatte
- cose da' grandi e valenti uomini, essendo lor vivi, si cantano e si
- dicono, e l'essere con ammirazione della moltitudine riguardati e
- mostrati e reveriti, come fu giá Giunio Bruto, avendo cacciato
- Tarquinio re e liberata Roma dalla sua superbia, e Gaio Mario, avendo
- vinto Giugurta e sconfitti i cimbri e i téutoni. «Fama» è quello
- ragionare che lontano si fa delle magnifiche opere d'alcun valente
- uomo, e che dopo la sua vita persevera nelle scritture di coloro li
- quali in nota messe l'hanno, spandendosi per lo mondo e molti secoli
- continuando; come ancora e udiamo e leggiamo tutto il dí di Pompeo
- magno, di Giulio Cesare dettatore, d'Alessandro re di Macedonia e di
- simiglianti.]
- [Ma da tornare è alla intralasciata materia. E dico che,] avendo
- questa donna captata la benivolenzia di Vergilio, gli comincia a
- dichiarare il suo disiderio dicendo: «L'amico mio», cioè Dante, il
- quale lei, mentre ella visse, come detto è, assai tempo e onestamente
- avea amata; e però, sí come l'autore nel _Purgatorio_ dice:
- amore
- acceso da virtú, sempre altro accese,
- sol che la fiamma sua paresse fuore,
- mostra dovere egli essere stato onestamente amato da lei; dal quale
- onesto amore è di necessitá essere stata generata onesta e laudevole
- amistá, la quale esser vera non può, né è durabile, se da virtú
- causata non è: e cosí mostra che fosse questa, in quanto la donna, di
- lui parlando, il chiama «suo amico». E qui non senza cagione, lasciato
- stare il proprio nome, il chiama la donna «amico»: la quale è per
- dimostrare, per la virtú di cosí fatto nome, l'autore le sia molto
- all'animo e per mostrare in ciò che ella non venga a porgere i preghi
- suoi per uomo strano o poco conosciuto da lei. E aggiugne «e non della
- ventura», cioè della fortuna, percioché infortunato uomo fu l'autore;
- e questo aggiugne ella per mettere compassion di lui in Virgilio, il
- quale intende di richiedere che l'aiuti, percioché degl'infelici si
- vuole aver compassione. «Nella diserta piaggia», della qual di sopra è
- piú volte fatta menzione, «è impedito», dalle tre bestie, delle quali
- di sopra dicemmo, «Sí», cioè tanto, «nel cammin, che vòlto è», a
- ritornarsi nella oscuritá della valle, «per paura», di quelle bestie.
- «E temo che non sia giá sí smarrito, Ch'io mi sia tardi al soccorso»,
- di lui, «levata, Per quel ch'io ho di lui nel cielo udito», da Lucia.
- E pone la donna queste parole per avacciare l'andata di Virgilio; e
- appresso ancora il sollecita dicendo: «Or muovi, e con la tua parola
- ornata» (commendalo qui d'eloquenza, la quale ha grandissime forze nel
- persuadere quello che il parlatore crede opportuno), «E con ciò che è
- mestiere al suo campare, L'aiuta», da quelle bestie che l'impediscono,
- «sí», cioè in tal maniera, «ch'io ne sia consolata».
- E, dette queste parole, manifesta il nome suo, dicendo: «Io son
- Beatrice che ti faccio andare». E, detto il suo nome, gli dice onde
- ella viene, per mandarlo in questo servigio, accioché Virgilio conosca
- molto calernele; percioché senza gran cagione non è il partirsi alcuno
- de' luoghi graziosi e dilettevoli, e andare in quelli ne' quali non è
- altra cosa che dolore e miseria. E dice: «Vegno del luogo», cioè di
- paradiso, «ove tornar disío». E quinci gli apre la cagione che di
- paradiso l'ha fatta discendere in inferno, dicendo: «Amor» [grandi
- sono le forze dell'amore: «_Aquae multae non potuerunt extinguere
- charitatem_»] «mi mosse», lá onde io era, ed egli è quegli «che mi fa
- parlare» e pregarti.
- Appresso a questo, accioché Virgilio non sia tardo all'andare, come
- persona che guiderdone non aspetta della fatica, si dimostra verso lui
- dovere essere grata, dicendo: «Quando sarò dinanzi al Signor mio»,
- cioè a Dio, «Di te mi loderò sovente a Lui»:--e cosí non una volta, ma
- molte, nella multiplicazion delle quali si mostrerá esserle stato
- gratissimo il servigio da lui ricevuto. E quantunque questo
- guiderdone, il quale ella promette, alcuna cosa non monti alla salute
- di Virgilio, pur si dee credere piacergli; e questo è, percioché
- s'egli gli è a grado che la fama di lui tra gli uomini favelli, quanto
- maggiormente si dee credere essergli caro che una cosí fatta donna nel
- cospetto di Dio il commendi e lodisi di lui?
- «Tacquesi allora», detto questo, «e poi comincia' io», a dire, e
- (_supple_) dissi:--«O donna di virtú, sola per cui», cioè per cui
- sola, «L'umana spezie»: è l'umana generazione spezie di questo genere
- che noi diciamo «animali»; «eccede», cioè trapassa di virtú, ed, oltre
- a ciò, in tanto, che essi divengono atti a cognoscere e cognoscono
- Iddio, il quale alcun altro animale non cognosce; «ogni contento»,
- cioè ogni cosa contenuta, «Dal cielo, c'ha minor li cerchi sui», il
- quale è quel della luna, che, percioché piú che alcun altro è vicino
- alla terra, è di necessitá minore che alcuno degli altri, e perciò ha
- i suoi cerchi, cioè le sue circonvoluzioni, minori, infra' quali gli
- elementi ed ogni cosa elementata si contiene, e ancora i demòni e
- l'anime de' dannati. Le quali cose tutte, per l'anima razionale e
- libera, trapassa l'uomo d'eccellenza.
- «Tanto m'aggrada 'l tuo comandamento». Qui si dimostra Virgilio assai
- graziosamente disposto al comandamento della donna, mostrando che egli
- non solamente disidera d'ubbidirla prestamente, ma dice: «Che
- l'ubbidir», al comandamento, «se giá fosse», in atto, «m'è tardi». E
- però segue; «Piú non t'è uopo aprirmi il tuo talento»; quasi dica:
- assai hai detto, ed io son presto.
- Ma nondimeno le muove un dubbio, dicendo: «Ma dimmi la cagion, che non
- ti guardi Dallo scender quaggiú in questo centro», pieno di scuritá e
- di pene eterne. E chiamasi «centro» quel punto il quale fa quella
- parte del sesto, il quale noi fermiamo quando alcun cerchio facciamo:
- e però chiama «centro» il corpo della terra, percioché, avendo
- riguardo alla grandissima larghezza della circunferenza del cielo e
- alla piccola quantitá del corpo della terra posta nel mezzo de' cieli,
- qui si può dire centro del cielo. «Dall'ampio loco», cioè dal cielo,
- «ove tornar tu ardi», cioè ardentemente disideri.
- Al quale Beatrice dice cosí:--«Da poi che vuoi saper cotanto
- addentro», cioè sí profonda ed occulta cosa, «Dirotti brevemente--mi
- rispose--Perch'i' non temo di venir qua entro», in questo carcere
- cieco. «Temer si dee sol di quelle cose, C'hanno potenza di fare
- altrui male». Sí come Aristotile nel terzo dell'_Etica_ vuole, il non
- temer le cose che posson nuocere, come sono i tuoni, gl'incendi e'
- diluvi dell'acque, le ruvine degli edifici e simili a queste, è atto
- di bestiale e di temerario uomo; e cosí temere quelle che nuocere non
- possono, come sarebbe che l'uomo temesse una lepre o il volato d'una
- quaglia o le corna d'una lumaca, è atto di vilissimo uomo, timido e
- rimesso. Le quali due estremitá questa donna tocca discretamente,
- dicendo esser da temere le cose che possono nuocere. «Dell'altre no»,
- cioè quelle «che non son poderose» a nuocere, e che non debbon metter
- paura nell'uomo, il qual debitamente si può dir forte.
- E quinci dimostra sé essere di quei cotali forti, dicendo: «Io son da
- Dio; sua mercé»: quasi dica: non per mio merito; fatta «tale», cioè
- beata, alla quale cosa alcuna noiosa, quantunque sia grande, non puote
- offendere; «Che la vostra miseria», cioè di voi dannati, «non mi
- tange», cioè non mi tocca, quantunque io venga qua entro; «Né fiamma
- d'esto incendio», il quale è qui. E per questa parola nota quegli del
- limbo essere in foco, quantunque nel quarto canto l'autore dica
- quelli, che nel limbo sono, non avere altra pena che di sospiri. «Non
- m'assale», cioè non mi si appressa.
- «Donna è nel cielo». Vuole qui mostrare Beatrice non di suo proprio
- movimento mandare Virgilio al soccorso dell'autore, ma con divina
- disposizione, percioché in cielo alcuna cosa non si fa che dall'ordine
- della divina mente non muova; e perciò vuol mostrare che «Donna è
- lassú nel Ciel, che si compiange», cioè si rammarica. Né è questo da
- credere che in cielo sia, o possa essere alcuno rammarichío, ma
- conviene a noi da' nostri atti prendere il modo del parlare
- dimostrativo, a fare intendere gli effetti spirituali; e percioché
- l'effetto il quale seguí del venire Beatrice a Virgilio, venne da una
- clemenzia divina quasi mossa, come le nostre si muovono, per alcuno
- rammarichío; e però dice Beatrice, quella donna compiangersi, cioè
- mostrare una affezione dell'impedimento dell'autore, come qui tra noi
- mostra chi ha compassion d'alcuno. «Di questo impedimento, ov'io ti
- mando», cioè alla salute dell'autore; «Sí che duro», cioè stabile e
- fermo, «giudicio», cioè disposizione di Dio, «lassú», cioè in cielo,
- «frange», cioè s'apre; e dimostra come le marine onde, cacciate
- talvolta dall'impeto d'alcun vento, che vengono insino alla terra
- chiuse, e quivi frangendo s'aprono: e cosí sta chiusa ed occulta la
- divina disposizione, infino a tanto che di manifestarla bisogni.
- «Lucia chiese costei», cioè questa donna chiese Lucia, «in suo
- dimando», cioè nel suo priego. Il senso di questa lettera, quantunque
- alquanto di sopra aperto n'abbia, non si può qui mostrare essere
- litterale, e però è da riserbare quando si tratterá l'allegorico. «E
- disse», questa donna:--«Ora ha bisogno il tuo fedele, Di te»;
- percioché è in grandissima tribulazione, per la paura la quale ha
- delle tre bestie, che il suo cammino impediscono; «ed io a te lo
- raccomando»;--volendo dire, poiché suo fedele era, che ella nel suo
- scampo s'adoperasse. «Lucia, nemica di ciascun crudele, Si mosse»,
- udito questo, «e venne al loco dov'io era, Ch'i' mi sedea con l'antica
- Rachele». Rachele fu figliuola di Laban, fratello di Rebecca moglie
- d'Isach, e fu moglie di Giacob: la quale storia alquanto piú
- distesamente si racconterá appresso nel quarto canto di questo libro.
- «Disse:--Beatrice, loda», cioè laudatrice, «di Dio vera»; quasi voglia
- per questo intendere essere vere, e non lusinghevoli né fittizie, le
- parole con le quali Beatrice loda Iddio. «Che non soccorri quei che
- t'amò tanto», avanti che impedito fosse in quella valle tenebrosa,
- «Ch'uscí per te della volgare schiera?», cioè, che per piacerti,
- lasciati i riti del vulgo, si diede a costumi e a operazioni
- laudevoli. «Non odi tu la pièta», cioè l'afflizione, «del suo pianto»,
- il quale egli fa nella diserta piaggia? «Non vedi tu la morte, che 'l
- combatte», cioè la crudeltá di quelle bestie, le quali con la paura di
- sé il combattono e conduconlo alla morte, «Su la fiumana»: qui chiama
- «fiumana» quello orribile luogo nel quale l'autore era da quelle
- bestie combattuto, quasi quegli medesimi pericoli e quelle paure
- induca la fiumana, cioè l'impeto del fiume crescente, il quale è di
- tanta forza, che dir si può «ove», sopra la quale, «'l mar non ha
- vanto?»--cioè non si può il mare vantare d'essere piú impetuoso o piú
- pericoloso di quella.
- «Al mondo non fûr mai persone ratte», cioè fûr sollecite, «A far lor
- pro», loro utilitá, «ed a fuggir lor danno, Com'io», sollecitamente,
- «dopo cotai parole fatte, Venni quaggiú», in inferno, «del mio beato
- scanno», cioè del luogo mio, lá dove io in paradiso sedea, «Fidandomi
- del tuo parlare onesto»; qui ancora Beatrice onora Virgilio, dicendo
- il suo parlare essere onesto, il che di certi altri poeti non si può
- dire; «Che onora te», Virgilio; e non solamente te, ma ancora «e quei
- che udito l'hanno»,--e servato nella mente; percioché l'avere udito
- senza averlo servato, e poi ad esecuzione in alcuno laudevole atto non
- messo, non può avere onorato l'uditore. E mostra ancora in queste
- poche parole precedenti l'ardente sua affezione verso l'autore, acciò
- per quello faccia ancora piú pronto Virgilio al soccorso dell'autore.
- «Poscia che m'ebbe», cioè Beatrice, «ragionato questo», che detto
- t'ho, «Gli occhi lucenti lagrimosi volse», per avventura verso il
- cielo, dove è qui da intendere che, detta la sua intenzione a
- Virgilio, si ritornò. E in questo lagrimare ancora piú d'affezion si
- dimostra, dimostrandosi ancora un atto d'amante, e massimamente di
- donna, le quali, come hanno pregato d'alcuna cosa la quale disiderino,
- incontanente lagrimano, mostrando in quello il disiderio suo essere
- ardentissimo. Per la qual cosa dice Virgilio: «Per che mi fece del
- venir piú presto: E venni a te», nella piaggia diserta, dove tu
- rovinavi lá dove il sol tace, «cosí come ella vòlse»; quasi voglia
- dire che altrimenti non sarei venuto. «Dinanzi a quella fiera», cioè a
- quella lupa ferocissima, «ti levai, Che del bel monte», sovra 'l qual
- tu vedesti i raggi del sole, «il corto andar ti tolse»; percioché, se
- davanti parata non ti si fosse, in brieve spazio saresti potuto sopra
- il monte essere andato; dove per lo suo impedimento, a volervi sú
- pervenire, ti convien fare molto piú lungo cammino.
- «Dunque, che è?» cioè quale cagion'è, «perché, perché ristai?» di
- seguirmi; e reitera la interrogativa, per pungere piú l'animo
- dell'uditore; «Perché», cioè per qual cagione, «tanta viltá», quanta
- tu medesimo nelle tue parole dimostri, «nel cuor t'allette?», cioè
- chiami colla falsa estimazione, la qual fai delle cose esteriori;
- «Perché ardire e franchezza non hai?». E massimamente: «Poi che tali
- tre donne benedette», quali di sopra detto t'ho, cioè quella donna
- gentile, e Lucia e Beatrice, «Curan di te», cioè hanno sollecitudine
- di te e procuran la tua salute, «nella corte del cielo», nella quale
- sussidio non è mai negato ad alcuno che umilemente l'addomandi; e,
- oltre a ciò, «E 'l mio parlar», al quale tu dovresti dare piena fede,
- se tanto amore hai portato e porti alle mie opere (come davanti
- dicesti: «Vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore», ecc.), «tanto
- ben ti promette?»--cioè di conducerti salvamente in parte, della qual
- tu potrai, se tu vorrai, salire alla gloria eterna.
- «Quale i fioretti». Qui dissi cominciava la quinta parte di questo
- canto, nella quale l'autore, per una comparazione, dimostra il perduto
- ardire essergli ritornato e il primo proponimento. Dice adunque cosí:
- «Quale i fioretti», li quali nascono per li prati, «dal notturno gelo.
- Chinati, e chiusi»; percioché, partendosi il sole, ogni pianta
- naturalmente ristrigne il vigor suo; ma parsi questo piú in una che in
- un'altra, e massimamente nei fiori, li quali per téma del freddo,
- tutti, come il sole comincia a declinare, si richiudono: «poi che 'l
- sol gl'imbianca», con la luce sua, venendo sopra la terra. E dice
- «imbianca», per questo vocabolo volendo essi diventar parventi, come
- paiono le cose bianche e chiare, dove l'oscuritá della notte gli
- teneva, quasi neri fossero, occulti. «Si drizzan tutti»; percioché,
- avendo il gambo loro sottile e debole, gli fa il freddo notturno
- chinare, ma, come il sole punto gli riscalda, tutti si drizzano,
- «aperti in loro stelo», cioè sopra il gambo loro, «Tal mi fec'io»,
- quale i fioretti, «di mia virtute stanca», per la viltá che m'era nel
- cuor venuta; «E tanto buono ardire al cuor mi corse», per li conforti
- di Virgilio, «Ch'io cominciai», a dire, «come persona franca», forte e
- disposta ad ogni affanno:--«O pietosa colei», cioè Beatrice, «che mi
- soccorse», col sollecitarti, e mandarti a me; «E tu», fosti, «cortese,
- che ubbidisti tosto Alle vere parole, che ti porse!»; percioché, dove
- venuto non fossi, io era veramente per perire. «Tu m'hai con disiderio
- il cuor diposto Sí al venir con le parole tue», cioè con i tuoi ùtili
- conforti e vere dimostrazioni, «Ch'io son tornato nel primo proposto»,
- cioè di seguirti. «Or va', ch'un sol volere è d'amendue». Non si
- potrebbe in altra guisa bene andare, se non fosser la guida e 'l
- guidato in un volere. «Tu duca», quanto è nell'andare, «tu signore»,
- quanto è alla preeminenza e al comandare, «e tu maestro»,--quanto è al
- dimostrare; percioché uficio del maestro è il dimostrare la dottrina e
- il solvere de' dubbi.
- «Cosí gli dissi: e, poi che mosso fue». Qui comincia la sesta ed
- ultima parte di questo canto, nella quale l'autore mostra come da capo
- riprese il cammino con Virgilio. «Entrai», con Virgilio, «per lo
- cammino alto», cioè profondo, «e silvestro», percioché in quello luogo
- né albergo né abitazione alcuna si trovava.
- II
- SENSO ALLEGORICO
- «Lo giorno se n'andava e l'aer bruno», ecc. È stato dimostrato dalla
- ragione, nella fine del precedente canto, qual via al peccatore tener
- gli convegna, per dover salire alla beata vita e partirsi della
- miseria della tenebrosa valle. Per la qual dimostrazione, essendosi
- esso messo dietro alla ragione in cammino, per continuarsi alle
- predette cose, discrive l'autore, nel principio di questo secondo
- canto, l'ora nella quale in questo cammino entrarono, la qual dice
- essere stata nel principio della notte. Sono adunque, intorno alla
- allegoria del presente canto, principalmente da considerare tre cose:
- delle quali è la primiera qual ragione possa essere per la quale esso
- di notte cominci il suo cammino; appresso è da vedere donde potesse
- nascere la viltá, la qual dimostra nel dubbio il quale muove a
- Virgilio; ultimamente è da vedere qual cagione movesse Virgilio, e
- perché del limbo, a venire nel suo aiuto. Percioché, veduto questo,
- assai chiaramente si vedrá per qual cagione da lui si rimovesse la
- viltá sua.
- È adunque intenzione dell'autore di dimostrare nella prima parte, che
- dissi essere da considerare, che, quantunque l'uomo peccatore, tócco
- dalla grazia operante di Dio, abbia tanto di conoscimento ricevuto,
- ch'egli s'avvegga essere stato nelle tenebre della ignoranza, e per
- quello in pericolo di pervenire in morte eterna, e disideri di
- ritornare alla via della veritá e d'acquistare salute, e per questo
- messo si sia dietro alla guida della ragione, in lui da lungo sonno
- stata desta; non esser perciò incontanente tornato nello stato della
- grazia, [se altro non s'adopera. E perciò, accioché in quella tornar
- si possa, si vuole insiememente pregare Iddio col salmista, dicendo:
- «_Domine, deduc me in iustitia tua: propter inimicos meos dirige in
- cospectu tuo viam meam_»; e, oltre a questo, fare alcune altre cose,
- secondo la dimostrazione della ragione. E queste sono, come altra
- volta ho detto, il conoscere pienamente i difetti della vita passata,
- e di quegli pèntersi e dolersi, e appresso nelle braccia rimettersene
- della Chiesa, e al vicario di Dio confessarsene, disposto a satisfare.
- E, questo fatto, potrá veramente credere sé essere nello stato della
- grazia di Dio tornato, e le sue buone opere essere accettevoli e
- piacevoli nel cospetto suo e valevoli alla sua salute. Ma, infino a
- tanto che in questa grazia non è il peccatore ritornato, non può
- andare per la via della luce, ma va per le tenebre notturno. E perciò,
- per dovere tosto a quella grazia pervenire, dee il peccatore
- ingegnarsi di fare ogni atto meritorio: far limosine, l'opere della
- misericordia, usare alla chiesa, digiunare, orare, e simili cose
- adoperare; percioché, quantunque senza lo stato della grazia a salute
- non vagliano, sono nondimeno preparatorie a doversi piú prontamente e
- piú prestamente menare a meritare e ad avere la divina grazia.] E
- perciò, quantunque ad averla l'autore si disponga, percioché ancora
- non l'ha, ne dimostra il principio del suo cammino cominciarsi di
- notte.
- Séguita di vedere, essendo l'autore giá entrato dietro alla ragione in
- cammino, donde potesse nascere in esso la viltá d'animo, la qual
- dimostra nel dubbio, il quale seco medesimo muove alla ragione: nel
- quale assai manifestamente mostra lui ancora nello stato della grazia
- non esser tornato, e per questo aver avuto in lui forza il sospettare
- de' consigli della ragione. Per la qual cosa in molti avviene che, in
- se medesimi raccolti, contro alle dimostrazioni della ragione
- disputano; e di questo, considerata la nostra fragilitá, non ci
- dobbiamo noi per avventura molto maravigliare. E la ragione può esser
- questa. Assai manifesta cosa è, eziandio in ciascun costante uomo, nel
- mutamento d'uno stato ad un altro alquanto gli uomini vacillare e
- stare in pendente, s'è il migliore o non è, dello stato nel quale si
- trova, trapassare ad un altro, o pure in quel dimorarsi. E non è alcun
- dubbio che, stando l'uomo in pendente, che ogni piccola sospinta il
- può muovere e farlo piú nell'una parte che nell'altra pendere. Avviene
- adunque che quegli, i quali, come detto è, seco talvolta raccolti
- sono, quantunque vere conoscano le dimostrazioni della ragione e santi
- i suoi consigli, nondimeno d'altra parte, ascoltando le lusinghe della
- blanda carne, i conforti del mondo, le persuasioni del diavolo, a poco
- a poco cacciando della mente loro il fervor preso del bene adoperare,
- non fermato ancora da alcun forte proponimento, intiepidiscono e
- divengon vili e timidi; avvisando, per li conforti de' suoi nemici, sé
- non dovere poter bastare a quello che il bene adoperare e lo stato
- della penitenza richiede. Per la qual viltá, se da solenne aiuto
- cacciata non è, assai leggiermente miseri volgiamo i passi e nella
- nostra morte ci ritorniamo. La qual cosa all'autore avvenia, se le
- pronte e vere dimostrazioni della ragione non l'avesser ritenuto e
- confortato a seguitar l'impresa.
- Ultimamente dissi che era da vedere qual cagione movesse Virgilio, e
- perché del limbo, a venire in aiuto dell'autore: alla qual
- dimostrazione tiene questo ordine l'autore. E' pare essere assai
- manifesto che ciascheduno, il quale, dalla grazia operante di Dio
- tócco, si desta e vede la miseria nella quale le sue colpe l'hanno
- condotto, e, cacciate le tenebre della ignoranza, conosce in quanto
- mortal pericolo posto sia; che egli, dopo alcuna paura, disideri
- fuggire il pericolo e ricorrere alla sua salute: il che, non che
- l'uomo, ma eziandio ogni altro animale naturalmente procura. E questo
- assai bene apparisce l'autore aver cominciato a fare nel principio
- della presente opera, in quanto, desto e conosciuto il suo malvagio
- stato, ha cominciato a fuggire il pericolo, e mostra di disiderare di
- pervenire alla salute: e ora in questa parte ne mostra quale dee
- essere quello che ciascuno, il quale questo disidera, dee, sí come piú
- presto e piú al suo bisogno opportuno, fare. E ciò mostra dovere
- essere l'orazione; percioché non si può cosí prestamente ricorrere
- all'altre cose necessarie alla salute come a quella; e, come che
- ancora questo si potesse, non pare ben si proceda, se questa non va
- avanti. Alla quale eziandio la natura c'induce, sí come noi per
- esperienza veggiamo, percioché, incontanente che alcuna cosa sinistra
- veggiamo contro a noi muoversi, subitamente preghiamo per lo divino
- aiuto. La qual cosa per avventura vuol mostrar d'aver fatta l'autore
- in quelle parole del primo canto, dove dice: «Guardai in alto e vidi
- le sue spalle»; percioché atto è di coloro, li quali adorano, levare
- il viso al cielo, accioché in quell'atto parte della loro affezione
- dimostrino. E a questo, che noi oriamo e preghiamo ne' nostri bisogni,
- ne sollecita Gesú Cristo nell'Evangelio, dove dice: «_Pulsate et
- aperietur vobis, petite et dabitur vobis_». È il vero che l'orazione
- almeno queste due cose vuole avere annesse, fede e umiltá; percioché
- chi non ha fede in colui il quale egli priega, cioè ch'egli possa fare
- quello che gli è domandato, non pare orare, anzi tentare e schernire.
- La qual fede quanto fervente e ferma fosse, apparve nella femmina
- cananea, la quale, ancora che non fosse del popolo di Dio, nondimeno
- tanta fede ebbe in Gesú Cristo, che istantissimamente il pregò che
- liberasse la figliuola dal dimonio che la 'nfestava; e, non essendole
- da Cristo alcuna cosa risposto, la intera fede la fece ferma e
- costante di perseverare nel priego incominciato. Alla quale avendo
- Cristo risposto che non si volea prendere il pane dei figliuoli e
- darlo a' cani, non lasciando per questa repulsa, e sospignendola la
- sua fede, continuò nel pregare. E, avendo affermato quello, che Cristo
- avea detto, esser vero, disse:--Signor mio, e i cani, che si allevano
- nella casa, mangiano delle miche che caggiono della mensa del signor
- loro.--Volendo per questo dire:--Io cognosco che io non sono del popol
- tuo, il quale tu tieni per figliuolo, e perciò non debbo il pane de'
- tuoi figliuoli avere; ma io sono uno de' cani allevato in casa tua;
- non mi negare quello che a' cani si concede, cioè delle miche che
- caggiono dalla mensa tua.--La cui ferma fede conoscendo Cristo, non le
- volle, quantunque de' suoi figliuoli non fosse, negare la grazia
- addomandata; ma, rivolto a lei, disse:--Femmina, grande è la fede tua:
- va', e cosí sia fatto come tu hai creduto.--E quella ora fu dal
- dimonio liberata la figliuola di lei.
- Vuole adunque l'orazione farsi con fede, e ancora, sí come voi vedete,
- con istanzia; percioché Cristo vuole alcuna volta essere sforzato, non
- perché la liberalitá sua sia minore, o men volentieri faccia
- l'addomandate grazie, ma per fare la nostra perseveranza maggiore e
- accioché piú caramente riceviamo quello che con istanzia impetriamo.
- Vuole ancora l'orazione esser umile, percioché alcuna nobiltá di
- sangue, né abbondanza di sustanze temporali, né magnificenza
- d'imperiale o di reale eccellenza la potrebbe di terra levare un
- attimo. L'umiltá sola è quella che l'impenna, e falla infine sopra le
- stelle volare e quella condurre agli orecchi del Signor del cielo e
- della terra. Gran forze son quelle dell'umiltá nel cospetto di Dio: e
- come che assai in ciascuna cosa che l'uom vorrá riguardare appaia,
- nondimeno mirabilmente il dimostrò nella sua incarnazione; percioché
- non real sangue, non etá, non bellezza, non simplicitá, ma sola umiltá
- riguardò in quella Vergine, nella quale Egli, di cielo in terra
- discendendo, incarnò e prese la nostra umanitá; sí come essa medesima
- Vergine testimonia nel suo cantico, quando dice: «_Respexit
- humilitatem ancillae suae_»; per che da questa parola degnamente essa
- medesima segue: «_Deposuit potentes de sede et exaltavit humiles_».
- Fece adunque il nostro autore fedele ed umile orazione a Dio per la
- salute sua: la quale, sí come esso medesimo scrive, salí in cielo nel
- cospetto di Dio guidata dall'umiltá; percioché, come vedere abbiam
- potuto nel precedente canto, l'autore non solamente avea cacciata da
- sé la superbia, ma avea paura di lei e fuggivala. E come dobbiamo noi
- credere la pietosa e divota orazione guidata dall'umiltá essere
- ricevuta in cielo? Certo, non altrimenti che ricevuto fosse il
- figliuol prodigo dal pietoso padre, del quale il santo Evangelio ne
- dimostra. Fece il pietoso padre uccidere il vitello sagginato, fece
- parare il convito, fece chiamare gli amici, e con loro si rallegrò e
- fece festa di avere racquistato il suo figliuolo, il quale gli pareva
- aver perduto. Cosí si dee credere l'onnipotente Padre aver fatto in
- cielo, sentendo per la divota orazione colui alla via della veritá
- ritornare, il quale del tutto partito se n'era e ogni sua grazia avea
- dispersa e gittata via. Che festa ancora dobbiam credere averne fatta
- gli angeli di vita eterna? la letizia de' quali è maggiore sopra un
- peccatore che torni a penitenzia, che sopra novantanove giusti. Posta
- dunque l'orazione nel cospetto di Dio, quivi, dolendosi del malvagio
- stato di colui che la manda, priega; appresso e quello di che ella
- priega scrive l'autore, dicendo che ella chiede in sua dimanda Lucia
- e, come suo fedele e che ha di lei bisogno, a lei il raccomanda. E
- cosí dovemo intendere quella donna gentile essere la santa orazione
- fatta dal peccatore, e in questa parte dovemo intendere per Lucia la
- divina clemenza, la divina misericordia, la divina benignitá, la qual
- veramente è nimica di ciascun crudele, percioché in alcun crudele né
- pietá né misericordia si trova giammai.
- Appare adunque per questo che l'orazione dell'autore addomandasse
- misericordia, per la qual sola noi possiamo, avendo peccato, nella
- grazia di Dio ritornare; percioché egli è tanta la indegnitá e la
- iniquitá del peccatore in adoperare contro a' comandamenti di Dio,
- che, se la sua misericordia non fosse, alcun nostro merito mai ci
- potrebbe nel suo amore ritornare.
- Quinci, per le cose che seguitano, appare il Nostro Signore aver
- prestati benignamente gli orecchi della sua divinitá a' prieghi fatti
- dall'umile orazione, in quanto dice l'autore che Lucia, cioè la divina
- misericordia, chiamò Beatrice, cioè se medesima dispose a mettere in
- atto il priego ricevuto: il che appare, in quanto Beatrice, che quivi
- la grazia salvificante o vogliam dire beatificante s'intende, alla
- salute del pregante si dispose: il che dallo intrinseco della divina
- mente procedette. Grande è per certo, come dice san Gregorio, la virtú
- della orazione, la quale, fatta in terra, adopera in cielo: il che qui
- manifestamente appare, sí come al peccatore è dimostrato; percioché la
- forza della sua orazione ha rotto e annullato il duro giudicio di Dio,
- nel quale esso Iddio vuole che il peccatore sia punito; e l'umile
- orazione ha tanto potuto che, rotto questo giudicio, al peccatore, in
- luogo della pena, è conceduta misericordia; e non solamente
- misericordia, ma ancora preparatagli e mostratagli la via da pervenire
- a salvazione. Che adunque avviene? Che, per lo desiderio della salute
- sua, la divina bontá fa che, per la grazia salvificante, si muove
- Virgilio del limbo: il quale qui si prende per la ragione, per la
- quale noi siamo detti «animali razionali», o vogliam dire, per la
- grazia cooperante, o vogliam dire l'una e l'altra insieme;
- conciosiacosaché alcuno piú atto luogo in noi io non cognosca, dove la
- grazia cooperante mandatane da Dio si debba piú tosto ricevere che
- nella sedia della ragione; conciosiacosaché essa, dopo la grazia
- operante ben ricevuta, ogni bene in noi disponga e ordini, e con noi
- insieme adoperi.
- E, a dichiarare come Virgilio del limbo sia mosso, è da sapere, come
- giá dicemmo, esser due mondi: l'uno si chiama il maggiore e l'altro il
- minore, sí come ne mostra Bernardo Silvestre in due suoi libri, de'
- quali il primo è intitolato _Megacosmo_ da due nomi greci, cioè da
- «_mega_», che in latino viene a dire «maggiore», e da «_cosmos_», che
- in latino viene a dire «mondo»: e il secondo è chiamato _Microcosmo_,
- da «_micros_», greco, che in latino viene a dire «minore», e
- «_cosmos_», che vuol dire «mondo». E, ne' detti libri, ne dimostra il
- detto Bernardo il maggior mondo esser questo il quale noi abitiamo, e
- che noi generalmente chiamiamo «mondo», e il minor mondo esser l'uomo,
- nel quale vogliono gli antichi, sottilmente investigando, trovarsi
- tutti o quasi tutti gli accidenti che nel maggior mondo sono. Ed è del
- maggior mondo quella parte chiamata «limbo», la quale non ha sopra di
- sé altra cosa, che il cerchio della circunferenza della terra, o la
- estrema superficie della terra che noi vogliam dire. E, quantunque
- l'autore, secondo la sentenza litterale, mostri Virgilio essere nel
- limbo, [cioè nell'uno] del maggior mondo, non è da intendere che
- quindi fosse mossa la ragione da Beatrice, ma fu mossa dal limbo del
- mondo minore, cioè dalla piú eminente parte dell'uomo, la quale è il
- cerebro, sopra il quale nulla altra cosa è del nostro corpo, se non il
- cranio e la cotenna; percioché in quello fu da Dio locata la ragione.
- E questo, percioché ad essa è stata commessa la guardia di tutto il
- corpo nostro, e, oltre a ciò, il dominio a dovere regolare i movimenti
- della nostra sensualitá, sí come ad ottima distinguitrice delle cose
- nocive dall'utili. E convenevole cosa è che colui al quale è commessa
- la guardia d'alcuna cosa, che egli stea nella piú sublime parte di
- quella, accioché esso possa vedere e discernere di lontano ogni cosa
- emergente, e a quelle cose, che fossero avverse alla cosa la qual
- guarda, opporsi e trovar rimedio, per lo quale da sé le dilunghi: la
- qual cosa ne' sensati uomini ottimamente fa la ragione posta nella
- superiore parte di noi. Oltre a questo, come il savio re pone il suo
- real solio in quella parte del suo regno, nella qual conosce esser di
- maggior bisogno la sua presenza, accioché per questa si tolgan via le
- sedizioni e i movimenti inimichevoli, fu di bisogno la ragione esser
- posta nel cerebro, percioché qui vi è piú di pericolo che in tutto il
- rimanente del nostro corpo. E la ragione è, percioché nella nostra
- testa son gli occhi, gli orecchi, la bocca e tutti gli altri sensi del
- corpo, li quali con ogni istanzia nutricano il regno della ragione. E
- perciò, se loro vicina non fosse, potrebbon muovere cose assai
- dannose, dove dalla ragione sono oppresse e diminuite le forze loro. E
- questa sedia della ragione essere nel nostro cerebro, e perché quivi,
- ottimamente sotto maravigliosa fizione dimostra Virgilio nel primo
- dell'_Eneida_, dove dice:
- _Aeoliam venit: hic vasto rex Aeolus antro_, ecc.,
- e, appresso a questo, in piú altri versi.
- È adunque nel limbo, cioè nella superior parte di questo minor mondo,
- la ragione, e quindi la muove la grazia salvificante in soccorso del
- peccatore. Il quale movimento non si dee altro intendere se non un
- rilevarla dallo infimo e depresso stato nel quale lungamente tenuta
- l'aveano l'appetito concupiscibile e irascibile, e, lei sotto i piedi
- delle loro scellerate operazioni tenendo, aveano occupata la sedia
- sua; e questo per tanto tempo, che essa, non potendo il suo oficio
- esercitare, era tacendo divenuta fioca, cioè nell'esser fioca
- dimostrava la lunghezza della sua servitudine: e, cosí rilevatala, in
- essa pone la grazia cooperante, e parala dinanzi allo smarrito
- intelletto del peccatore. E di questo non è alcun dubbio che noi,
- quante volte ci ravveggiamo delle nostre disoneste operazioni, tante
- per divina grazia ricominciamo ad essere uomini, i quali non siamo
- quanto nella ignoranza de' peccati dimoriamo: anzi, avendo la ragion
- perduta, siamo divenuti quegli animali bruti, a' quali, come altra
- volta è detto, sono i nostri difetti conformi. Il che se altra
- dottrina non ci mostrasse, spesse volte ne 'l mostrano le poetiche
- fizioni, quando ne dicono alcuno uomo essersi trasformato in lupo,
- alcuno in leone, alcuno in asino o in alcun'altra forma bestiale. E
- come la ragione dalla grazia salvificante è nella sua real sedia
- rimessa, fatta donna e consultrice e aiutatrice del peccatore, il
- toglie co' suoi ammaestramenti dinanzi a' vizi, li quali gli hanno
- tolta la corta salita al monte, cioè al luogo della sua salute. E
- «corta» dice, percioché agli uomini, li quali in istato d'innocenzia
- vivono, è il salire a questo monte leggerissimo, sí come il salmista
- ne mostra, lá dove dice: «_Quis ascendet in montem Domini, aut quis
- stabit in loco sancto eius?_». E rispondendo alla domanda, quello
- n'afferma che io dico, dicendo: «_Innocens manibus et mundo corde, qui
- non accepit in vano animam suam, nec iuravit in dolo proximo suo_»; ma
- a coloro diventa molto lunga, i quali ne' peccati miseramente vivono.
- E, oltre a questo, riprende e morde la viltá dell'animo di quegli, i
- quali, tirati dalle mollizie del mondo, del divino aiuto mostran di
- disperarsi; mostrando loro come, per loro [l']umile orazione, la
- misericordia di Dio e la grazia salvificante procurin per loro nel
- cospetto di Dio; mostrando ancora come sicuramente ad ogni affanno
- metter si possano, avendo sé, cioè, la grazia cooperante, con loro e
- in loro aiuto e consiglio.
- Maraviglierannosi per avventura alcuni, e diranno:--A che era di
- bisogno che la grazia salvificante movesse o rilevasse la ragione
- nell'autore?--Alla qual domanda è la risposta prontissima. Vuole cosí
- la ragion delle cose che, negli atti morali, sí come questo è, noi non
- possiamo alcuna cosa bene adoperare né con ordine debito, se noi
- primieramente non cognosciamo il fine al qual noi dobbiamo adoperare;
- percioché la notizia di quello ha a causare i nostri primi atti, e di
- quindi ad ordinare quegli che appresso a' primi e susseguentemente
- deono seguire. Come comporrá il cirugico il suo unguento, o il fisico
- la sua medicina, se prima il cirugico non vede il malore, il fisico
- l'umore da purgare? Come dará il nocchiere la vela del suo legno a'
- venti, se esso primieramente non avrá conosciuto e disposto in qual
- contrada esso voglia pervenire? Come fará l'architetto fondare un
- edificio, o preparar la materia da edificarlo, se egli primieramente
- non sa che spezie d'edificio debba esser quello che far si dee?
- Conciosiacosaché altra forma e altro maestro voglia un tempio che un
- palagio reale, e altra forma il palagio che una casa cittadinesca. È
- adunque di necessitá primieramente cognoscere il fine, che noi pognamo
- alcuno nostro atto in opera. E perciò, se ben guarderemo, se il
- disiderio del peccatore è di salvarsi, esser la grazia salvificante
- causativa di quelle nostre operazioni, le quali a salute ci possan
- perducere; e di queste nostre operazioni conviene che sia
- dimostratrice e ordinatrice la ragione: e però la ragione è la prima
- cosa causata dalla grazia salvificante, la quale l'autor mostra in
- persona di Beatrice venire a muover Virgilio. E questo scendere non si
- dee intendere essere stato attuale; ma semplicemente la volontá di
- Dio, provocata dall'umile orazione del peccatore a misericordia, è
- causativa di questo rilevamento della ragione, in quanto in essa sta
- il concedere la grazia salvificante. Adunque, avvicinandosi alla
- conclusione, dico l'autore, per le riprensioni della ragione in lui
- ritornata, e per gli ammonimenti di lei, avere la viltá, presa da'
- malvagi conforti de' nostri nemici, posta giú e cacciata da sé;
- riprende, per lo sano consiglio della ragione, il vigore e la forza
- smarrita, e nel primo suo buono proponimento si ritorna, e, ad ogni
- fatica per acquistar salute disposto, con la ragione insieme riprende
- il cammino. E questa si può dire essere interamente l'esposizione
- allegorica del presente canto. Né sia alcuno sí poco savio, che creda
- queste cose, quantunque mostrino nel descriversi aver certe
- interposizioni di tempo, non doversi poter fare senza la dimostrata
- interposizione; percioché egli è possibile di muovere la divinitá, e
- d'aver veduto ciò che l'autore dee nello 'nferno vedere, e di
- pervenire alla porta di purgatorio, e ancora di salire in cielo, quasi
- in un momento, pure che la contrizione sia grande e il fervore della
- caritá ferventissimo e intero, come di molti abbiam giá letto essere
- stato.
- CANTO TERZO
- I
- SENSO LETTERALE
- [Lez. IX]
- «Per me si va nella cittá dolente», ecc. In questo canto ne racconta
- l'autore come alla porta dello 'nferno pervenissero, e come dentro ad
- essa fosse da Virgilio menato, e quivi vedesse i cattivi miseramente
- afflitti, e ultimamente pervenissero al fiume d'Acheronte. E dividesi
- questo canto in due parti: nella prima mostra come alla prima porta
- dello 'nferno pervenisse, e dentro a quella fosse da Virgilio menato;
- nella seconda parte discrive quello che dentro della porta udisse e
- vedesse. E comincia quivi: «Quivi sospiri, pianti ed alti guai».
- Adunque nella prima parte, continuandosi a quello che nella fine del
- precedente canto ha detto, cioè come con Virgilio entrasse in cammino,
- dice dove pervenne, cioè alla prima porta dell'entrata d'inferno;
- sopra la qual, dice, vide scritto: «Per me», cioè per entro me, «si va
- nella cittá dolente», cioè nella cittá di Dite, dolente in perpetuo
- per li dannati spiriti li quali dentro vi sono; della qual cittá,
- percioché pienamente se ne scriverá in questo libro appresso nel canto
- ottavo, qui non curo di dirne alcuna cosa; «Per me si va nell'eterno
- dolore», al quale dannati sono coloro li quali muoiono nell'ira di
- Dio; «Per me si va tra la perduta gente». Dice «perduta», percioché
- alcuna potenza di bene adoperare non è in loro; e questi cotali
- meritamente si posson dir perduti. «Giustizia mosse», a farmi: e la
- giustizia che 'l mosse fu la superbia del Lucifero, la quale meritò
- eterno supplicio; il quale Iddio volle tanto da sé dilungare, quanto
- piú si potea, e perciò, nel centro della terra gittatolo, quivi la sua
- prigione fece, e volle quella similmente esser prigione di tutti
- quegli li quali contro alla sua deitá operassero; «il mio alto
- Fattore», cioè Iddio; «Fecemi la divina Potestate», cioè Iddio Padre,
- al quale è attribuita ogni potenza; «La somma Sapienzia», cioè il
- Figliuolo, il quale è sapienza del Padre, «e 'l primo Amore», cioè lo
- Spirito santo, il quale è perfettissima caritá, igualmente moventesi
- dal Padre e dal Figliuolo. E cosí appare questa porta essere stata
- fatta dalla Trinitá è a dimostrare che chi offende in alcuna cosa
- Iddio offenda queste tre persone, e perciò da tutte e tre essere
- quello luogo composto, dove gli offenditori in perpetuo fuoco sono
- dannati.
- «Dinanzi a me», porta, «non fûr cose create Se non eterne». Cosí
- mostra questo luogo essere stato prima creato da Dio che fosse creato
- l'uomo, il quale, quanto è al corpo, non è eterno; e che fosse creato
- poi che fu creato il cielo e la terra e gli angioli, i quali sono
- eterni. [E percioché come parte degli angioli peccarono, che peccarono
- prima che l'uomo fosse fatto, fu, come detto è, di presente creato
- questo luogo in lor prigione e supplicio; quantunque i santi tengano
- questo aere tenebroso essere pieno di quegli, come appresso piú
- distesamente alquanto si dirá.] E in quanto l'autore dice qui
- «eterne», favella di licenza poetica impropriamente, come assai spesso
- si fa: percioché l'essere eterno a cosa alcuna non s'appartiene, se
- non a quella la quale non ebbe principio né dee aver fine, e questa è
- solo Iddio; gli angioli e le nostre anime, e certe altre creature da
- Dio immediatamente create, e quantunque mai fine aver non debbano,
- percioché ebber principio, non si deono propriamente parlando dire
- «eterne», ma «perpetue». «Ed io eterna duro», sí come opera creata da
- Dio senza alcun mezzo; percioché per li dottori si tiene ciò, che
- immediatamente fu o sará creato da Dio, è eterno. «Lasciate ogni
- speranza, o voi ch'entrate», dentro di me, «_quia in inferno_ _nulla
- est redemptio_», se ciò di potenza assoluta Iddio non facesse, come
- fece de' santi padri, li quali ne trasse quando giá risuscitato da
- morte spogliò il limbo.
- «Queste parole», sopra dette, «di colore oscuro», conforme alla
- qualitá del luogo nel quale per quella porta s'andava, «Vid'io scritte
- al sommo d'una porta», cioè a quella per la quale in inferno
- s'entrava; «Perch'io» (_supple_) dissi:--«Maestro», Virgilio; e ben fa
- qui a chiamarlo «maestro», percioché a' maestri si vogliono muovere i
- dubbi e da loro aspettar le chiarigioni; «Il senso lor», cioè quello
- che dir vogliono, «m'è duro»,--cioè malagevole ad intendere.
- «E quegli», cioè Virgilio, «a me» (_supple_) rispose, «come persona
- accorta», cioè intendente:--«Qui», cioè in questa entrata, «si convien
- lasciare ogni sospetto», accioché sicuro si vada; «Qui si convien
- ch'ogni viltá», d'animo, «sia morta», cioè cacciata da colui il quale
- vuole entrare qua dentro. E son queste parole prese dal sesto
- dell'_Eneida_, dove la Sibilla dice ad Enea:
- _Nunc animis opus, Aenea, nunc pectore firmo_.
- «Noi siam venuti al luogo ov'io t'ho detto», cioè all'inferno, del
- quale vicino al fine del primo canto gli disse; «Che vederai le genti
- dolorose, C'hanno perduto», per li lor peccati, «il ben
- dell'intelletto»,--cioè Iddio, il quale è via, veritá e vita: [e il
- ben dell'intelletto è la veritá, per la quale tutti per diverse vie ci
- fatichiamo, e pochi alla notizia di quella pervengono].
- «E poi che la sua mano alla mia pose Con lieto viso, ond'io mi
- confortai». Qui assai manifestamente n'ammaestra l'autore con che viso
- noi dobbiamo mettere, chi ne segue, nelle dubbiose cose; e dice che
- dee esser con lieto, percioché dal viso lieto del duca prende conforto
- e sicurtá chi segue, dove, non avendolo lieto, coloro che a lui
- riguardano assai leggiermente impauriscono e diventano vili: come noi
- leggiamo le legioni romane, da' contrari auspizi e dal viso di
- Flaminio consolo turbato, invilite, da Annibale allato al lago
- Trasimeno essere state sconfitte. Dice adunque di sé l'autore che,
- vedendo nell'entrata di cosí dubbioso luogo lieto Virgilio, egli si
- confortò tutto.
- «Mi mise dentro alle segrete cose». Segrete sono in quanto agli occhi
- mortali manifestar non si possono, percioché cosí i tormenti, come i
- tormentati e i tormentatori ancora tutti, son cose spirituali e
- invisibili a noi, e quinci segrete; quantunque gli effetti di quelle,
- secondo che mostrar si possono per iscritture e per ammaestramenti di
- santi uomini, tutto il dí ci sieno aperti e palesati.
- «Quivi sospiri, pianti ed alti guai». Qui incomincia la seconda parte
- del presente canto, nella qual dissi che si discrivea quello che
- l'autore nella entrata dello 'nferno avea veduto e udito. E dividesi
- questa parte in sette: percioché nella prima l'autor pone molti
- dolorosamente dolersi; nella seconda gli dichiara Virgilio chi questi
- sieno che cosí si dolgono; nella terza discrive l'autore la pena dalla
- quale questi son tormentati; nella quarta dice l'autore sé aver vedute
- molte anime correre ad un fiume; nella quinta dice sé essere a questo
- fiume pervenuto, e non averlo voluto passare dall'altra parte un
- nocchiere, che tutti gli altri in una sua barca passava; nella sesta
- gli apre Virgilio perché Carón non l'ha voluto passare; nella settima
- ed ultima mostra l'autore sé, per un tremor della terra e poi da un
- baleno, essere stato vinto e caduto. La seconda comincia quivi: «Ed
- egli a me:--Questo misero modo»; la terza quivi: «Ed io che
- riguardai»; la quarta quivi: «E poi ch'a riguardare»; la quinta quivi:
- «Ed ecco verso noi»; la sesta quivi: «Figliuol mio,--disse»; la
- settima ed ultima quivi: «Finito questo».
- Dice adunque cosí: «Quivi», cioè nella prima entrata dello 'nferno,
- «sospiri, e pianti». «Pianto» è quello che con rammarichevoli voci si
- fa, quantunque il piú i volgari lo 'ntendano ed usino per quel pianto
- che si fa con lacrime. «E alti guai»: questi appartengono ad ogni
- spezie di dolore e massimamente a quello che con altissime voci e
- dolorose si dimostra; «Risonavan per l'aere senza stelle», cioè
- oscuro, ed al cospetto del cielo chiuso, «Perch'io, al cominciar, ne
- lagrimai». Ecco una delle fatiche dell'animo, la quale predisse nel
- cominciamento del secondo canto gli s'apparecchiava. «Diverse lingue»,
- cioè diversi idiomi, per la diversitá delle nazioni dell'universo, le
- quali tutte quivi concorrono; «orribili favelle», cioè spaventevoli,
- come son qui tra noi quelle de' tedeschi, li quali sempre pare che
- garrino e gridino, quando piú amichevolmente favellano; «parole di
- dolore», cioè significanti dolore, «accenti d'ira»; accento è il
- profferere, il quale facciamo alto o piano, [acuto o grave o
- circunflesso;] ma qui dice che erano d'ira, per la quale si sogliono
- molto piú impetuosi fare che, senza ira parlando, non si farieno;
- «Voci alte», per le punture della doglia, «e fioche»; suole l'uomo per
- lo molto gridare affiocare; «e suon di man», come soglion far le
- femmine battendosi a palme, «con elle», cioè con quelle voci: le quali
- cose intra sé diverse, non melodia, come soglion fare le voci
- misurate, ma «Facevano un tumulto», cioè una confusione; «il qual
- s'aggira»; percioché il luogo è ritondo, ed essendo da quel tumulto
- l'aere percosso, e non avendo alcuna uscita, è di necessitá che per lo
- luogo s'aggiri e prenda moto circulare; «Sempre in quell'aria, senza
- tempo tinta», cioè mutata per contrarietá di venti o d'altro
- accidente, «Come la rena quando turbo spira». Dimostra qui l'autore,
- per una breve comparazione, il moto di quel tumulto, come sopra dissi,
- esser circulare, e di quella forma che noi veggiamo talvolta muovere
- in cerchio la polvere sopra la superficie della terra; e questo
- massimamente avvenire, quando un vento, il quale si chiama da' suoi
- effetti «turbo», spira. Il quale non pare avere alcuno ordinato
- movimento, come gli altri hanno, percioché non viene da diterminata
- parte, ma essendo la esalazion calda e secca, ché dalla terra surge in
- alto, pervenuta alla freddezza d'alcun nuvolo, e da quella a parte a
- parte cacciata, diviene vento; il quale, lá dove s'ingenera, prende
- moto circulare, e per questo non è universale, anzi è solamente in
- quella parte dove generato è, intanto che in una medesima piazza noi
- il vedremo in una parte di quella e non in un'altra; e, percioché la
- esalazione è a parte a parte repulsa dal nuvolo, il veggiam noi per
- certi intervalli far queste circulazioni sopra la terra. E questo
- vento, come noi il chiamiamo «turbo», Aristotile il chiama «tifone»
- nella sua _Meteora_, dove chi vuole può pienamente vedere di questa
- materia.
- «Ed io, ch'avea d'orror», cioè di stupore, «la testa cinta», cioè
- intorniata; e questo dice per lo moto circulare di quel tumulto;
- «Dissi:--Maestro, che è quel ch'io odo?», che fa questo tumulto, «E
- che gent'è», questa, «che par nel duol sí vinta?»,--secondo che le
- loro voci manifestano.
- «Ed egli a me». In questa seconda parte della sua divisione dichiara
- Virgilio all'autore chi sien costoro de' quali esso dimanda. «Ed
- egli», cioè Virgilio, «a me» (_supple_) rispose:--«Questo misero
- modo», il quale tu odi e del quale tu se' stupefatto, «Tengon l'anime
- triste di coloro, Che visser senza infamia», d'alcuna loro malvagia
- operazione, percioché, quantunque buone non fossero, erano intorno a
- sí bassa e misera materia, che di sé non davano alcuna cagion di
- parlare, e perciò si può dire che senza infamia vivessero; «e senza
- lodo», cioè senza fama, percioché, come del loro male adoperare è
- detto, il simigliante dir si può se alcun bene adoperavano.
- Ma da vedere è che gente questa può essere. E, se io estimo bene,
- questa mi pare quella maniera d'uomini, li quali noi chiamiamo
- «mentacatti» o vero «dementi», li quali, ancora che abbiano alcun
- senso umano, per molta umiditá di cerebro hanno sí il vigore del cuore
- spento, che cosa alcuna non ardiscono d'adoperare degna di laude, anzi
- si stanno freddi e rimessi, ed il piú del tempo oziosi, quantunque
- talvolta sospinti sieno dal disiderio di dovere alcuna cosa adoperare;
- di che quello segue che l'autore ne dice, cioè «Che visser senza
- infamia e senza lodo».
- «Mischiate sono», queste misere anime, «a quel cattivo coro». «Coro»
- [si dice propriamente un'adunazion d'uomini, li quali in figura di
- cerchio sieno congiunti insieme; o «coro» è detto quello luogo nel
- quale stanno nelle chiese coloro che cantano, il quale ha figura di
- mezzo cerchio: e qui si potrebbe prendere per ciascuno di questi due
- significati, percioché, considerato il movimento di questi spiriti, il
- quale è circulare, come appresso si dimostrerá, si può il loro dir
- «coro»; e se per altro significato il vorrem prendere, quello di
- costoro potrem dire «coro», cioè loro essere ordinati a modo di coro,
- ma non a cantare, anzi a piangere miseramente e in eterno.] «Cattivo»
- il chiama per la similitudine, la quale hanno quegli spiriti con
- queste anime de' cattivi, le quali con loro son mischiate; e in tanto
- sono lor simili, in quanto non seppero diliberare che farsi nel tempo
- della rebellione del Lucifero, ma si stettero freddi e timidi, senza
- diliberare di tenersi con Dio come doveano, o di seguire il Lucifero
- come non doveano.
- «Degli angeli». Questo nome angelo è derivato da un nome greco, cioè
- «_aggelos_», il quale in latino viene a dire «nunzio» o «ambasciadore»
- o «messo»: e percioché essi quello oficio appo il diavolo fanno, cioè
- d'esser mandati, che appo Iddio fanno i buoni angeli, quel nome antico
- d'angeli ritenuto s'hanno e ritengono, quantunque sieno divenuti
- dimòni [e, secondo che alcun santo vuole, questo nome non è loro
- attribuito giammai, se non quanto sono in alcuna commissione loro
- fatta da Dio; la qual finita, non si chiama piú angelo, ma spirito
- beato].
- «Che non furon ribelli», (_supple_) a Dio, «Né fûr fedeli a Dio, ma
- per sé fôro»: non tenner costoro né con Dio né col diavolo.
- [Ed accioché qui alcuno per men che bene intendere non errasse, è da
- sapere non essere state che due maniere di angeli, sí come il Maestro
- ne dimostra nel secondo delle _Sentenzie_, e di queste due l'una non
- peccò, e però appresso a Dio si rimase in paradiso; l'altra che peccò,
- tutta fu gittata fuori di paradiso, e cadde, e questo aere tenebroso
- propinquo alla terra riempié; e questo affermano i santi esserne
- pieno. E da questi talvolta muovono le tempeste e le impetuose
- turbazioni che nell'aere sono e in terra discendono; e da questi
- dicono noi essere tentati e stimolati, e venire quelle illusioni dalle
- quali i non molto savi son talvolta beffati e scherniti. Concedono
- nondimeno talvolta di questi dimòni discenderne in inferno ad
- infestare e tormentare l'anime dei dannati; affermando questi cotali
- spiriti immondi al dí del giudicio tutti dovere dalla divina potenza
- essere racchiusi in inferno. Ora] pare qui che all'autor piaccia
- questi malvagi angeli essere di due spezie divisi: delle quali vuole
- l'una aver men peccato che l'altra, in quanto mostra questa spezie,
- che men peccò, vicina alla superficie della terra essere rilegata; [e
- percioché la giustizia di Dio secondo piú e meno punisce, non intende
- costoro al dí del giudicio dover essere da Dio nel profondo inferno
- rilegati, come saranno gli altri che molto piú peccarono.]
- E però vuolsi questa lettera che segue leggere in questo modo:
- «Cacciangli i cieli», da sé: e segue incontanente la ragione perché,
- cioè «per non esser men belli»; percioché i cieli sono bellissimi, ed
- intra l'altre loro singulari bellezze hanno che in essi alcuna macula
- di colpa non si truova, percioché in essi alcuna cosa non si riceve se
- non purissima, ed essi furono purissimi creati da Dio; per che segue,
- se essi ricevessero questa spezie d'angeli, la quale è viziosa, essi
- maculerebbono la lor bellezza: e perciò, accioché questo non avvenga,
- essi gli scacciano e dilunganli da loro. «Né il profondo inferno gli
- riceve» [cioè riceverá; e ponsi qui il presente per lo futuro,
- percioché, altrimenti leggendosi o intendendosi, parrebbero le spezie
- degli angeli esser tre, la qual cosa sarebbe contro alla cattolica
- veritá]; e dice «il profondo», a differenza del luogo dov'e' sono in
- inferno, che veggiamo gli pone nella piú alta parte di quello. E
- appresso mostra la cagione perché dal profondo inferno ricevuti
- non sieno, dicendo: «Ch'alcuna gloria», cioè piacere, «i rei»,
- angeli, li quali manifestissimamente furon ribelli, «avrebber
- d'elli»,--veggendoli in quel medesimo supplicio ch'essi [saranno]. E
- cosí appare non essere opera de' ministri infernali che questi angeli
- non sieno nel profondo inferno, ma della giustizia di Dio, la quale
- non patisce che di cosa alcuna quegli spiriti maledetti possano avere
- alleggiamento della pena loro.
- «Ed io:--Maestro», (_supple_) dissi, «che è tanto greve», cioè qual
- tormento, «A lor, che lamentar gli fa sí forte?»--cioè sí amaramente.
- «Rispose», cioè Virgilio:--«Dicerolti molto breve».
- E dice cosí: «Questi», cattivi, che tu odi cosí dolersi, «non hanno
- speranza di morte», percioché manifesto è loro l'anime essere eterne;
- «E la lor cieca vita», senza alcuna luce di merito, «è tanto bassa»,
- cioè tanto depressa, avendo riguardo che in inferno sieno dannati in
- eterno, e su nel mondo di loro alcuna memoria non sia, e quasi sieno
- come se stati non fossero; «Che invidiosi son d'ogni altra sorte», di
- peccatori, quantunque di gravissimi supplici tormentati sieno. Per che
- chiaro comprender si può costoro essere miserissimi, poiché di
- ciascuno, quantunque misero, invidiosi sono, conciosiacosaché invidia
- non si soglia portare se non a migliore o a piú felice di sé. «Fama di
- loro» [che cosa sia fama, è mostrato di sopra nella esposizione della
- lettera del precedente canto] «il mondo», cioè il costume de' mondani,
- il quale è solamente i segnalati uomini far famosi, «esser non lassa»,
- percioché furono torpenti e miseri e freddi; «Misericordia e giustizia
- gli sdegna»; e questo percioché le loro opere non furon tali, che
- impetrar misericordia per quelle sapessero o potessero, per la quale
- sarebbero stati elevati alla gloria eterna; e furon sí vili e sí
- dolorose, che giustizia gli sdegna, cioè non cura di doverli tra le
- piú gravi colpe dannare, quantunque in quelle per mentacattaggine
- forse peccassero; ma, sí come morti senza la grazia di Dio, gli lascia
- quivi, come gittati da sé, miseramente dolersi, come miseramente
- vissero. [E questa seconda cagione è troppo piú ponderosa che la
- primiera, e piú gli prieme; e per questa si manifesta loro sentire
- quanto la lor vita sia vile.] E questa è la cagione perché, come
- l'altre anime de' peccatori, non vanno a passare il fiume d'Acheronte,
- quantunque nondimeno in inferno sieno, lá dove sono. «Non ragioniam di
- lor»; quasi voglia dire che il ragionar di cosí fatta spezie di genti
- è un perder tempo; «ma guarda», se t'aggrada di vedere la lor pena, e,
- guardando, «passa»--e lasciagli stare. E questo riguardare gli concede
- Virgilio, non in contentamento dell'autore, ma in dispetto de'
- riguardati, li quali noia sentono, vedendo la lor miseria essere da
- alcuno veduta o conosciuta.
- «Ed io che riguardai», secondo m'avea conceduto Virgilio: e qui
- discrive la qualitá della loro afflizione, per la quale sí amaramente
- si dolgono: «vidi una insegna, Che girando», cioè in giro andando,
- «correva», cioè correndo era portata, «tanto ratta», cioè sí
- velocemente, «Che d'ogni posa mi pareva indegna. E dietro le venia», a
- questa insegna, «sí lunga tratta», cioè sí gran quantitá, «Di gente»,
- d'anime state di gente, «ch'io non avrei creduto», avanti che io
- avessi veduto questo, «Che morte tanta n'avesse disfatta», cioè
- uccisa. E dice «disfatta», percioché la morte non è altro che la
- separazione dell'anima dal corpo, la quale per la morte separandosi,
- resta questa composizione dell'anima e del corpo, le quali insieme
- fanno l'uomo, essere disfatta; percioché, dopo cotale dipartimento,
- colui, che prima era uomo, non è poi piú uomo.
- «Poscia ch'io v'ebbi», guardando, «alcun riconosciuto», il quale non
- nomina, percioché, se egli il nominasse, qualche fama o infamia gli
- darebbe (il che sarebbe contro a quello che di sopra ha detto, cioè:
- «Fama di loro il mondo esser non lassa» ecc.), «Vidi, e conobbi
- l'ombra di colui, Che fece per viltate il gran rifiuto». Chi costui si
- fosse, non si sa assai certo; ma, per l'operazione la quale dice da
- lui fatta, estiman molti lui aver voluto dire di colui il quale noi
- oggi abbiamo per santo, e chiamiamlo san Piero del Morrone, il quale
- senza alcun dubbio fece un grandissimo rifiuto, rifiutando il papato.
- E dicesi lui a questo rifiuto essere in questa maniera pervenuto, che,
- essendo egli semplice uomo e di buona vita nelle montagne del Morrone
- in Abruzzo sopra Selmona in atto eremitico, egli fu eletto papa in
- Perugia, appresso la morte di papa Niccola d'Ascoli; ed, essendo il
- suo nome Piero, fu chiamato Celestino. La cui semplicitá considerando
- messer Benedetto Gatano cardinale, uomo avvedutissimo e di grande
- animo e disideroso del papato, astutamente operando, gl'incominciò a
- mostrare che esso in pregiudicio dell'anima sua tenea tanto oficio,
- poiché a ciò sofficiente non si sentía. Alcuni voglion dire ch'esso
- usò con alcuni suoi segreti servidori, che la notte voci s'udivano
- nella camera del predetto papa, le quali, quasi d'angeli mandati
- da Dio fossero, dicevano:--Renunzia, Celestino! renunzia,
- Celestino!--Dalle quali mosso, ed essendo uomo idiota, ebbe consiglio
- col predetto messer Benedetto del modo del poter renunziare. Il quale
- gli disse:--Il modo sará questo, che voi farete una decretale, nella
- quale si contenga che il papa possa nelle mani de' suoi cardinali
- renunziare il papato.--Il quale come a doverla fare il vide disposto,
- essendo essi in Napoli, segretamente fu col re Carlo secondo, re di
- Cicilia, a cui stanza il detto papa poco davanti avea fatti dodici
- cardinali, e apertogli l'animo suo, gli promise d'aiutarlo con ogni
- forza della Chiesa nella guerra sua di Cicilia, dove facesse che,
- rifiutando Celestino il papato, esso facesse che i dodici cardinali,
- fatti a sua stanza, gli dessero le boci loro nella elezione: la qual
- cosa il re gli promise. Laonde esso, con alcuni altri cardinali
- italiani, sotto certe promessioni, ordinato questo medesimo, adoperò
- che il papa pronunziò la legge del dover potere rinunziare il papato:
- e il dí di santa Lucia, essendo stato cinque mesi e alcun dí papa,
- venuto co' papali ornamenti in concistoro, in presenza de' suoi
- cardinali pose giú la corona e il papale ammanto, e rifiutò al papato.
- Di che poi seguí che la vilia di Natale messer Benedetto predetto fu
- eletto papa e chiamato Bonifazio ottavo. Il quale ivi a poco tempo,
- percioché vedeva gli animi di molti inchinarsi ad avere nel detto
- frate Piero, quantunque rinunziato avesse, divozione come in vero
- papa, fece il predetto frate Piero chiamare dal monte Sant'Agnolo in
- Puglia, dove per divozione andato n'era, e quindi, secondo che alcuni
- affermano, era disposto di passarsene in Ischiavonia, e quivi in
- montagne altissime e salvatiche finire in penitenzia i dí suoi; il
- fece chiamare, e fecenelo andare alla ròcca di Fumone, e quivi tennelo
- mentre visse; ed, essendo morto, il fece in una piccola chiesicciuola
- fuori della ròcca, senza alcuno onore funebre, seppellire in una fossa
- profondissima, accioché alcuno non curasse di trarne giammai il corpo
- suo.
- Pare adunque l'autore qui volere lui, per questa viltá d'animo, in
- questa parte superiore dello 'nferno tra' cattivi esser dannato. Sono
- per questo alcuni che riprendono l'autore, dicendo lui qui avere
- errato e detto contro a quello articolo che si canta nel _Simbolo_,
- cioè: «_Et in unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam_»; in
- quanto dice contro a quello che la Chiesa di Dio ha diliberato, cioè
- questo frate Piero essere santo, ed egli, mostrando di non crederlo,
- il mette tra' dannati. Alla quale obiezione è cosí da rispondere: che,
- quando l'autore entrò in questo cammino, il quale egli discrive, e nel
- qual dice aver veduta e conosciuta l'ombra di colui che fece per viltá
- il gran rifiuto, questo san Piero non era ancora canonizzato;
- percioché, sí come apparirá nel vigesimoprimo canto di questo libro,
- l'autore entrò in questo cammino nel MCCCI, e questo santo uomo fu
- canonizzato molti anni dopo, cioè al tempo di papa Giovanni
- vigesimosecondo: e però, infino a quel dí che canonizzato fu, fu
- lecito a ciascuno di crederne quello che piú gli piacesse, sí come è
- di ciascuna cosa che dalla Chiesa diterminata non sia; e per
- conseguente l'autore non fece contro al predetto articolo, ma farebbe
- oggi chi credesse quello esser vero.
- Altri voglion dire questo cotale, di cui l'autore senza nominarlo dice
- che fece il gran rifiuto, essere stato Esaú, figliuolo d'Isac. Il
- quale, essendo primogenito di Isac, come nel _Genesi_ si legge,
- percioché innanzi a Iacob, con lui ad un parto nascendo, uscí dal
- ventre della madre; ed aspettando a lui, per questa ragione, la
- benedizione del padre quando a morte venisse, secondo che a quegli
- tempi s'usava; tornando un dí da cacciare, ed avendo grandissimo
- desiderio di mangiare, trovò Iacob suo fratello avere innanzi una
- minestra di lenti, le quali la madre gli aveva cotte, e domandogliele:
- Iacob rispose che non gliele darebbe, se egli non rifiutasse alle
- ragioni della sua primogenitura e concedessele a lui; per la qual cosa
- Esaú, tirato dall'appetito del mangiare, rifiutò ogni sua ragione e
- concedettela a Iacob. E per questo voglion dire l'autore intender
- d'Esaú, e lui vuol dire aver fatto il gran rifiuto. La qual cosa né la
- nego né l'affermo. So io bene, secondo che nel _Genesi_ si legge, Esaú
- fu reo e malizioso e fattivo uomo, e non fu semplice né mentacatto, e
- fu grande e potente uomo e padre di molte nazioni.
- «Incontanente», come veduto ebbi e riconosciuto costui, «intesi»,
- dalla sua viltá, «e certo fui, Che questa», che cosí correva dietro a
- quella insegna, «era la setta dei cattivi, A Dio spiacenti ed a'
- nemici sui», cioè a' demòni; quasi voglia dire: come a Domenedio piace
- l'uomo il quale s'esercita sempre in bene adoperare, «_quia non
- sufficit abstinere a malo, nisi faciat quis quod bonum est_»; cosí
- dispiacciono a' demòni coloro che son pigri, oziosi e tardi, e non si
- esercitano in male adoperare.
- «Questi sciaurati». Questo vocabolo è disceso dall'antico costume de'
- gentili, li quali nelle piú lor cose seguivano gli augúri, cioè quelle
- significazioni che dal volato e dal garrito degli uccelli, qual buona
- e qual malvagia, secondo le dimostrazioni di quella facultá,
- scioccamente prendevano; laonde quelli che malo augurio avevano, erano
- chiamati «sciagurati»; il qual vocabolo oggi appo noi suona
- «sventurati». «Che mai», cioè in alcun tempo, «non fur vivi», quanto è
- ad operazioni spettanti ad uomini, li quali si dican vivere. «Erano
- ignudi»: questo medesimo si può dire di tutti i dannati, i quali non
- solamente son privati di vestimenti, ma di consolazione e di riposo;
- «e stimolati molto», trafitti, «da mosconi e da vespe, ch'eran ivi»,
- cioè in quel luogo. «Elle», cioè i mosconi e le vespe, «rigavan lor di
- sangue», il quale delle trafitture usciva, «il volto». Chiamasi la
- faccia dell'uomo «volto», in quanto per quella il piú delle volte si
- discerne quello che l'uom vuole: e cosí si diriverá da «_volo vis_»,
- che sta per «volere». «Che mischiato di lagrime, a' lor piedi, Da
- fastidiosi vermi era ricolto», questo sangue mescolato con le lagrime
- de' miseri cattivi.
- «E poi che a riguardare». Qui comincia la quarta parte della
- suddivisione della seconda parte di questo canto, nella quale, poi che
- discritta ha la pena dei cattivi, dice aver vedute molte anime tutte
- correre ad un fiume. «E poi», che veduta la miseria de' cattivi, «che
- a riguardare oltre mi diedi», cioè piú avanti: il general costume
- degli uomini pone, li quali, conciosiacosaché tutti siam vaghi di
- veder cose nuove, sempre oltre alle vedute sospigniamo gli occhi;
- «Vidi gente alla riva d'un gran fiume, Perch'io dissi:--Maestro», a
- Virgilio,«or mi concedi, Ch'io sappia quali e' sono», quegli ch'io
- veggio, «e qual costume Le fa di trapassar», il fiume, «parer sí
- pronte», cioè volenterose, «Com'io discerno per lo fioco lume»,--cioè
- per lo non chiaro lume; percioché, sí come l'esser fioco impedisce la
- chiaritá della voce, cosí le tenebre impediscono la chiaritá della
- luce. «Ed egli», cioè Virgilio, «a me» (_supple_) rispose:--«Le cose»,
- delle quali tu domandi, «ti fien cónte», cioè manifeste, «Quando
- fermerem li nostri passi», lá pervenuti, «Su la trista riviera
- d'Acheronte».--
- Secondo che scrive Pronapide nel suo _Protocosmo_, Acheronte è un
- fiume infernale, il quale dice che in una spelunca, la quale è
- nell'isola di Creti, nacque della prima Cerere figliuola di Celio; e,
- vergognandosi di venire in publico, per certe fessure della terra se
- ne discese in inferno. Sotto questa fizione è da intendere questo:
- come altra volta dissi, Titano e i figliuoli combatterono con Saturno,
- e presero lui e la moglie; per la qual cosa Cerere, figliuola di
- Celio, percioché confortato avea Saturno che non rendesse il regno a
- Titano, temendo di lui, si fuggí in Creti, tanto dolente, quanto piú
- esser poteva, di ciò che avvenuto era a Saturno, e quivi si nascose. E
- poi, sentendo che Giove aveva vinto Titano, e liberato Saturno e la
- moglie di prigione, non altrimenti che la femmina depone il peso del
- ventre suo partorendo, cosí Cerere, posto in questo luogo, dove
- occulta dimorava, ogni dolore giú ed ogni amaritudine, uscí in publico
- lieta. E da questo dolor posto giú fu data la materia alla fizione:
- quasi voglia dire il dolore essersi tornato al suo principio, cioè al
- luogo del dolore in inferno. E questo discrive in forma di fiume, a
- dimostrare la quantitá essere stata grande del dolore. Ma il nostro
- autore gli dá, fingendo, altra origine: percioché, sí come apparirá
- nel quattordicesimo canto del presente libro, egli mostra questo fiume
- e gli altri infernali nascere di gocciole d'acqua che caggiono di
- fessure, le quali dice essere in una statua di piú metalli, dritta
- nell'isola di Creti: e quivi piú a pieno se ne tratterá, e di questo e
- degli altri.
- «Allor con gli occhi vergognosi e bassi, Temendo no 'l mio dir gli
- fosse grave», cioè noioso, «Infino al fiume», d'Acheronte, «di parlar
- mi trassi», cioè senza parlare mi condussi.
- «Ed ecco verso noi». Questa è la quinta parte della suddivisione del
- presente canto, nella quale l'autore mostra un dimonio venire verso
- loro in una nave e passar gli altri, e lui non aver voluto passare. Ed
- è questa parte presa da Virgilio, dove nel sesto dell'_Eneida_ scrive:
- _Portitor has horrendus aquas et flumina servat
- terribili squalore Charon_, ecc.
- per ben ventun verso. Dice adunque: «Ed ecco verso noi venir per nave
- Un vecchio bianco per antico pelo», [il quale per altro sarebbe paruto
- nero, se gli anni non l'avessero fatto divenir canuto, percioché la
- gente volgare stimano che il diavolo sia nero, percioché i dipintori
- dipingono Domeneddio bianco; ma questa è sciocchezza a credere,
- percioché lo spirito essendo cosa incorporea, non può d'alcun colore
- esser colorato;] «Gridando:--Guai a voi, anime prave!», cioè malvage.
- «Non isperate mai veder lo cielo»: il che vuole che elle intendano, in
- perpetuo quindi non dovere uscire. «Io vegno per menarvi all'altra
- riva», di questo fiume, «Nelle tenebre eterne, in caldo e 'n gielo. E
- tu, che se' costí, anima viva», volgendo il suo parlare all'autore,
- «Pártiti da cotesti, che son morti»;--quasi voglia dire: percioché con
- loro tu non déi né puoi passare. «Ma, poi ch'e' vide ch'io non mi
- partiva», per suo comandamento, «Disse:--per altra via», che per
- questa, «per altri porti, Verrai a piaggia, non qui», donde io levo
- l'altre, «per passare», dall'altra parte. «Piú lieve legno», cioè
- nave; è «legno» tra' marinai general nome di qualunque spezie di
- navilio, e massimamente de' grossi, come che qui per la sua barca, o
- per un'altra, lo 'ntenda Carone; «convien che ti porti»,--cioè ti
- valichi.
- «E 'l duca», cioè Virgilio, «a lui:--Carón». Questo Carón, secondo che
- Crisippo scrisse, fu figliuolo d'Erebo e della Notte (di questa favola
- sará il significato nella esposizione allegorica) ed è posto a questo
- uficio di passare l'anime dannate dall'una riva all'altra d'Acheronte,
- come qui appare. «Non ti crucciare», e incontanente soggiunge la
- cagione per la quale gli mostra non doversi crucciare, dicendo:
- «Vuolsi cosí», cioè che costui vivo vada per questo regno de' morti, e
- dov'e' si vuole, «colá, dove si puote Ciò che si vuole», cioè nella
- divina mente, percioché Iddio può ciò che vuole; «e piú non
- dimandare»;--quasi voglia per questo dirgli: non è convenevole che a
- te si dimostri la cagione della volontá di Dio. «Quinci», cioè dalle
- parole da Virgilio dette, «fûr quete», cioè quetate, senza alcuna cosa
- piú dire, «le lanute gote», cioè barbute, «Del nocchier della livida
- palude», cioè di Carone. E chiama ora «palude» quello che di sopra
- chiama «fiume», e questo fa di licenza poetica, per la quale
- spessissimamente si pone un nome per un altro, sí veramente che quel
- cotal nome abbia alcuna convenienza con la cosa nominata, come è qui,
- che il fiume è acqua e la palude è acqua, e talvolta in alcuna parte
- corre il fiume sí piano, che egli par non men tosto palude che fiume.
- «Livida» la chiama, a dimostrazione che l'acqua sia torbida, e quella
- torbidezza sia nera ed oscura. «Che 'ntorno agli occhi avea di fiamma
- rote», a dimostrare la sua ferocitá e il suo furore.
- «Ma quelle anime, ch'eran lasse», per dolore, non per lunghezza di
- cammino, «e nude», di consiglio e d'aiuto; «Cangiár colore», mostrando
- l'angoscia di fuori, la quale dentro sentivano, «e dibattéro i denti»,
- come coloro fanno li quali la febbre piglia, che innanzi lo 'ncendio
- di quella tremano e battono i denti; «Tosto che 'nteser le parole
- crude», dette da Carón di sopra («Io vegno per menarvi all'altra riva»
- ecc.).
- «Bestemmiavano Iddio». Fa qui l'autore imitare a quelle anime il
- bestiale costume di molti uomini che, quando attendono o hanno alcuna
- cosa la quale loro a grado non sia, disperatamente cominciano a
- bestemmiare, quasi per quello non altramenti che se Dio spaventassono,
- si debba diminuire o mitigare la fatica, la quale aspettano o la quale
- hanno: «e' lor parenti», cioè i padri e le madri, li quali principio e
- cagione dierono all'esser loro; «L'umana spezie», quasi volessero piú
- tosto essere animali bruti, accioché col corpo si fosse morta l'anima;
- «il luogo», (_supple_) bestemmiavano dove nacquero, «il tempo», nel
- qual nacquero, «e 'l seme», del quale nacquero, «di lor semenza», cioè
- bestemmiavano il seme di lor semenza, cioè della quale seminati
- furono, «e di lor nascimenti», cioè bestemmiavano il luogo e 'l tempo
- di lor nascimenti. «Poi si ritrasser tutte quante insieme»; quinci
- appare loro quivi esser venute sparte; «Forte piangendo alla riva
- malvagia», d'Acheronte, «Ch'attende ciascun uom, che Dio non teme»,
- percioché tutti dichinan quivi coloro che, vivendo, non ebbono temor
- di Dio, «Carón dimonio, con occhi di bragia», cioè ardenti e focosi;
- «loro accennando, tutte le raccoglie», in su la sua nave; «batte con
- remo», cioè con quel bastone col quale mena la sua nave, il quale i
- marinai chiamano «remo», «qualunque», di quelle anime, «s'adagia», a
- sedere o in altra guisa.
- «Come d'autunno» cioè in quella stagione la quale noi chiamiamo
- «autunno», da mezzo settembre infino a mezzo dicembre, «si levan le
- foglie, L'una appresso dell'altra», cadendo, «infin che 'l ramo»,
- sopra il quale erano, «Vede alla terra tutte le sue spoglie», cioè i
- vestimenti, li quali, la stagione gli ha fatti cadere da dosso. Ed è
- questa comparazione presa da Virgilio in quella parte del sesto libro
- dell'_Eneida_, che di sopra dicemmo. «Similemente il mal seme
- d'Adamo», il quale fu il primo nostro padre, e del quale noi siamo
- tutti seme: ma parte di questo seme è buono, sí come sono i santi
- uomini e i servanti i comandamenti di Dio, e parte n'è malvagio, sí
- come sono i peccatori, li quali ostinati nelle loro colpe muoiono
- nell'ira di Dio: e questa è quella parte che si raccoglie nella nave
- di Carone. «Gittansi in quel lito», cioè d'in su quella riva, «ad una
- ad una», quelle anime dannate, «Per cenni», da Carón fatti,
- «com'augel» fa «per suo richiamo», cioè per lo pasto mostratogli.
- «Cosí», raccolte, «sen vanno su per l'onda bruna», d'Acheronte, «E
- avanti che sien», queste che pur mò salirono, «di lá», cioè dall'altra
- riva, «discese, Anche di qua», da quest'altra parte, «nuova schiera»,
- cioè quantitá d'anime non ancora statavi, «s'aduna». E in questo
- dimostra l'autore continuamente molti morirne sopra il circuito della
- terra, de' quali la maggior parte muoiono nell'ira di Dio, «_quia
- multi sunt vocati, pauci vero electi_».
- --«Figliuol mio,--disse» In questa sesta parte della suddivisione gli
- apre Virgilio la cagione perché Caron non l'ha voluto passare, e
- perché quelle anime son pronte a voler passare il fiume. E
- dice:--«Figliuol mio»;--mostra in questa parola Virgilio paterna
- affezione all'autore; «disse il maestro cortese». Ben dice «maestro»,
- percioché, come qui appare, Virgilio gli solve il dubbio della domanda
- fattagli da lui di sopra, dove dice: «Maestro, or mi concedi, Ch'io
- sappia» ecc., e coloro che solvono bene i dubbi meritamente si possono
- e debbon esser chiamati «maestri». «Cortese» il chiama, percioché
- continuo in quello che al suo uficio appartenesse, gli fu
- liberale.--«Quegli», uomini, o le loro anime a dir meglio, «che muoion
- nell'ira di Dio», li quali son quegli che [senza contrizione, senza
- confessione, veggendosi nel caso della morte,] consistono pertinaci
- nelle loro nequizie, e cosí, senza riconciliarsi a Dio de' peccati
- commessi, si muoiono; [e diconsi morire nell'ira di Dio, in quanto la
- sua grazia racquistar non hanno voluto, seguendo gl'instituti della
- cattolica Chiesa;] «Tutti convengon», cioè insiememente vengono,
- «qui», a questo fiume, «d'ogni paese», di levante e d'occidente e di
- ciascuna altra plaga del mondo, «e pronti sono a trapassar lo rio»,
- cioè il fiume, il quale qui chiama «rio», tirato dalla consonanza del
- verso. E séguita la ragione perché a questo son pronti: «Ché la divina
- giustizia gli sprona», cioè gli costringe, «Sí che la téma», la quale
- hanno delle pene eternali, «si converte in disio», di andar tosto a
- quelle. «Quinci», cioè per la nave di Carone, «non passò mai anima
- buona», cioè che al cielo dovesse ritornare, come déi tu, che non
- vieni per rimanere. «E però, se Carón di te si lagna», cioè si duole,
- e non ti vuol passare, «Ben puoi sapere omai che il suo dir
- suona»,--avendo intesa la cagione del suo rammarichio.
- [Lez. X]
- «Finito questo». Questa è la settima e ultima parte della suddivisione
- del presente canto, nella quale l'autore mostra sé, per un tremore
- della terra e per un baleno, vinto e caduto. Dice adunque: «Finito
- questo», cioè la dichiarazione fattami da Virgilio della prontezza
- dell'anime a trapassare il fiume, «la buia», cioè oscura, «campagna».
- «Campagna» sono luoghi piani e larghi, i quali ivi non si dee credere
- che sieno, ma usa il vocabolo largamente, _auctoritate poëtica_; e
- dé'si intendere per la qualitá di quello luogo dove vuole dare ad
- intendere che era, qual che si fosse, o montuoso o piano: «Tremò sí
- forte».
- Ma qui è da vedere che volle dire questo tremare, conciosiacosaché
- l'autore niente ponga senza cagione; e perciò è da sapere l'autore in
- ogni cosa porre quelli medesimi accidenti avvenire a' dannati, che a
- coloro che in istato di grazia sono od in via di penitenzia. E quinci,
- se noi riguarderem bene, come all'entrare d'ogni cerchio di purgatorio
- si truova alcun agnolo, il quale, lietamente cantando, conforta chi
- sale in quello; cosí ad ogni cerchio d'inferno si truova alcun
- demonio, il quale orribilmente spaventa chi discende in esso. E cosí
- come il monte del purgatorio, quando alcuna anima purgata sale al
- cielo, tutto triema, e tutti gli spiriti di quello, sentendo il
- tremore, ed intendendo ciò che significa, da caritá mossi, cantano e
- ringraziano Iddio, che a sé quella anima beata chiama; cosí in
- inferno, come anime di nuovo vi caggiono, come dalle trasportate da
- Carón feciono, triema tutta la valle d'inferno: per la qual cosa
- l'anime dannate, che ciò sentono, intendendo venire anime ad
- accrescere la loro tristizia, tutte oltre al dolore usato si
- contristano e piangono.] E cosí l'autore mostra di volere in questa
- parte sentire, come che non sia cosa nuova, le parti intrinseche e
- cavernose della terra talvolta tremare, per la revoluzione dell'aere
- che in quelle è racchiuso e che vuole uscir fuori.
- «Che dello spavento, La mente», cioè il ricordarmene, «di sudore ancor
- mi bagna». Suole talvolta agli uomini subitamente spaventati,
- rifuggire dalle parti esteriori dentro al cuore, sentendolo temere, il
- sangue; e per questo coloro, alli quali questo avviene, rimangono
- pallidi e deboli e quasi insensibili; ed esse parti esteriori, premute
- dalla passione della paura, mandano per li pori fuori talvolta
- un'acqua fredda, la qual noi diciamo «sudore»; e se tosto le parti
- predette non recuperassero il sangue e le forze loro, caderebbe
- l'uomo, e parrebbegli venir meno come se egli morisse; e forse
- perseverando il sudore si morrebbe: ed hannone giá alcuni, essendo per
- paura il sangue rifuggito dentro, perduti o debilitati alcuni membri
- in guisa che mai poi operare non gli hanno potuti (e dicono i meno
- savi questi cotali essere stati guasti dal dimonio) e per avventura
- anche se ne son morti.
- «La terra lacrimosa», cioè quella valle d'inferno, o per li molti
- pianti che in quella si fanno, o per l'umiditá, la quale è nella
- concavitá della terra generata dal freddo, il quale ha l'esalazioni
- della terra calde e umide risolute in acqua: la quale primieramente
- accostata alla terra fredda, è fatta in forma di lacrime, e cosí si
- può dire l'inferno essere lacrimoso.
- «Diede», cioè causò, «vento». Generansi i venti, secondo che ad
- Aristotile piace nel secondo della _Meteora_, d'esalazioni calde e
- secche della terra, cacciate sopra da sé da' nuvoli freddi o da alcun
- freddo che nell'aere sia. Le quali cose come in inferno sieno, non so.
- Estimo che 'l tumultuoso rivolgimento, il quale l'autore vuol mostrare
- che vi sia, causi alcuno impeto il quale muova quello aere, e l'aere
- mosso paia vento.
- «Che balenò una luce vermiglia». Questi non sono accidenti che la
- natura soglia producere sotterra, e perciò è verisimile quello
- movimento dell'aere, il quale ho detto essere stato, e, oltre a
- questo, quello impeto, avere dalle parti inferiori seco recata qualche
- vampa di fuoco, la quale in forma di un baleno apparve all'autore. «La
- qual», luce, «mi vinse ogni mio sentimento»; segno è, per questo,
- avere quella luce grandissimo stupore messo nell'autore, ed essere
- stato tanto, che quello ne sia seguito che dice, cioè: «E caddi, come
- l'uom cui sonno piglia».
- II
- SENSO ALLEGORICO
- «Per me si va nella cittá dolente». Nel principio del presente canto
- si continua l'autore alle cose dette nella fine del precedente, lá
- dove disse, per le vere dimostrazioni fattegli dalla ragione, sé avere
- la viltá dell'anima posta giuso e essersi ritornato nel proponimento
- primo, e cosí, dietro alla ragione, essere rientrato nel cammino da
- dovere poter pervenire allo stato della grazia, e quindi ad eterna
- salute, come disiderava; e camminando mostra sé alla porta dello
- inferno essere pervenuto. E sono intorno al senso allegorico di questo
- canto da considerare tre cose: la prima è quello che l'autore voglia
- intendere per questa porta; la seconda, come si conformi il supplicio
- dato a' cattivi con la colpa loro; la terza, quello che l'autore
- voglia sentire per lo fiume d'Acheronte e per lo nocchiere, ed, oltre
- a ciò, per lo accidente a lui avvenuto: e, queste vedute, assai
- convenientemente s'avrá il senso allegorico veduto del presente canto.
- Avendo adunque riguardo a parte delle parole scritte sopra la porta,
- la quale l'autor discrive, e alla ampiezza di quella, e similmente
- all'averla senza alcun serrame trovata, possiam comprendere quella
- essere la via della morte; conciosiacosaché il Nostro Signore dica
- nell'Evangelio: «_Intrate per angustam portam, quia lata et spatiosa
- via est quae ducit ad perditionem, et multi sunt qui intrant per
- eam_»; e cosí per questa via il peccato ne mena a dannazione eterna.
- Ed è questa via ampia, a farne chiari agevol cosa essere il peccare, e
- quello essere assoluto da ogni strettezza di regola; il che delle
- virtú non avviene, le quali sono ristrette e limitate dalli loro
- estremi. L'essere senza alcun serrame, ne mostra assai chiaro in ogni
- ora, in ogni tempo essere a ciascuno, volendo, possibile d'entrare
- nella via della morte, ed andare ad eterna perdizione. Ed ancora si
- può per l'ampiezza di questa porta comprendere, essa in tanta
- larghezza distendersi, che, in qualunque parte del mondo l'uomo pecca,
- trovi di questa porta la larga entrata. E fu aperta questa dalla
- superbia dell'angiolo malvagio, il quale primieramente ardí di levare
- la fronte contro a Colui che creato l'avea, né mai piú si richiuse.
- Dentro alla quale, entrata l'umana considerazione, dietro a' passi
- della ragione, nel vestibulo della perdizione eterna vede i cattivi e
- inerti, come nella lettera è dimostrato, correre dietro ad una insegna
- aggirandosi; e questi essere agramente stimolati da mosconi e da
- vespe, e il sangue di questi dolenti esser ricevuto da putridi
- vermini. Li quali perciò all'entrata della perduta vita dimostrati ne
- sono, accioché da essi prendiamo quanto abbominevole colpa sia quella
- della inerzia, veggendo essa non solamente alla divina giustizia, ma
- ancora a' diavoli dispiacere: e per questo siamo ammaestrati a
- guardarci da quella, accioché in tanta miseria non divegnamo, che
- igualmente a' buoni e a' malvagi siamo odiosi. Pare adunque questo
- vizio consistere in una freddezza d'animo, la quale, occupate non
- solamente le potenze intellettive, ma eziandio le sensitive, tiene
- coloro, ne' quali esso dimora, del tutto oziosi, intanto che,
- brievemente, niuna opportunitá pare che muover gli possa ad alcuno
- atto operativo; e per questo non come uomini, ma come bruti animali,
- anzi come vermini pútridi e fastidiosi, menano la vita loro. Ed in
- questo pare loro, per quel che comprender si possa, sentire alcun
- diletto, il quale, percioché da viziosa cagione è preso, senza colpa
- esser non puote. E però, spenta la loro sensual vita e tolta via la
- gravezza del misero corpo consenziente alla viltá dell'animo, avendo
- quel conoscimento assoluti che perduto avevan legati, dal vermine
- della coscienza morsi, e per quello conoscendo sé niuno onesto segno
- nella lor misera vita aver seguito, ora senza pro seco dicendo:--Cosí
- dovremmo aver fatto;--non tardi né lenti, ma correndo, seguitano quel
- segno che seco estimano dover vivendo aver seguito. E percioché questo
- lor vermine non muore, il seguono in giro, a dimostrare che, come nel
- cerchio non è alcun principio né fine, cosí questa lor fatica non
- debba giammai avere requie né riposo. E a questo atto gli solletica il
- vermine della coscienza con due stimoli, con mosconi e con vespe, li
- quali continuamente li trafiggono. Li quali mosconi e vespe sono da
- intendere per la memoria di due loro singulari miserie, nelle quali
- nella loro dolorosa vita presero alcun piacere: le quali furono l'una
- nel brutto e sporcinoso modo di vivere che tennero, l'altra
- nell'oziosamente vivere. [E queste si deono intendere, percioché i
- mosconi sono generati da putredine d'acqua e di terra corrotte, e
- questi intender si deono la rimembranza della loro fastidiosa vita, la
- quale ora conoscono e dispiace loro e, dispiacendo, senza pro gli
- affligge e infesta; sí che assai bene dimostrano confarsi in questo la
- pena con la colpa. Le vespe s'ingenerano dell'interiora dell'asino
- similmente corrotte, e l'asino essere inerte, ozioso e torpente
- animale, assai chiaro si conosce per tutti; e però per le punture
- delle vespe, amarissime, assai bene si dee comprendere, per quelle, il
- morso doloroso della rimembranza della loro oziositá, dalla quale sono
- dolorosamente trafitti, come apparir può per lo sangue il quale cade
- dalle punture.] Il loro sangue essere da puzzolenti vermini raccolto,
- ha a rammemorare a questi dolenti che il sangue generato dalla
- digestione de' cibi, li quali usarono vivendo, non nutricò e sostenne
- in vita corpi umani, anzi putridi e sozzi vermini: per le quali cose
- assai bene pare si conformi con la colpa la pena di costoro. E questo
- basti de' cattivi aver detto.
- Resta a vedere la terza parte, cioè quello che l'autore per lo fiume e
- per lo nocchiere e per lo caso, che a lui addivenne, voglia sentire.
- [E, secondo che io possa comprendere, la sua intenzione è di mostrare
- come in inferno, oltre al fiume d'Acheronte, si discenda: e questo
- mostra convenirsi fare passando il fiume, il quale in due maniere
- trapassarsi, qui, sotto assai artificiosa fizione, discrive. Delle
- quali dice esser la prima per la nave di Carón, nella quale, come
- detto è, esso trapassa l'anime di quegli che in peccato mortale morti
- sono. E però, avanti che della seconda maniera tocchiamo, è da vedere
- quello che l'autore sente per questo fiume, che per lo nocchiere, che
- per la nave e che per lo remo col qual dice che batte qualunque
- s'adagia.]
- Vuole adunque per questo fiume l'autore disegnare la vita presente, la
- quale ottimamente dir si può simile ad un fiume; percioché, sí come il
- fiume corre continuo, sempre declinando, senza mai in su ritornare;
- cosí la nostra vita, dal dí del nostro nascimento, sempre e con
- velocissimo corso declina verso la morte, senza mai indietro
- rivolgersi. Il che ci è, oltre alla continua esperienza, per la divina
- Scrittura mostrato, nella quale leggiamo: «_Omnes morimur et quasi
- aquae dilabimur in terram, quae non revertuntur_». Sono, oltre a ciò,
- i fiumi, quando per abbondanza d'acque e quando per forza di venti,
- tempestosi. Il che similemente della nostra vita addiviene: percioché
- alcuna volta addiviene, per troppa mondana felicitá, che noi gonfiamo
- e divegnamo superbi, e non ricappiendo in noi, e non essendo a' nostri
- termini contenti, esondiamo, e, come i fiumi in danno de' campi vicini
- talvolta traboccano, cosí noi in danno del prossimo e di noi medesimi
- trabocchiamo, e similemente siamo da diversi impeti della fortuna
- fieramente afflitti e infestati negli animi nostri. E, come il fiume
- volge grandissime pietre nel suo fondo, cosí noi nel segreto del
- nostro petto continuamente rivolgiamo gravissime e noiose
- sollecitudini; e né altrimenti che i fiumi con le loro circunvoluzioni
- talvolta trangugian le navi e' naviganti, cosí noi tranghiottisce la
- circunvoluzione de' peccati e della bocca infernale. E, accioché io
- faccia fine alle comparazioni, come i fiumi molte afflizioni porgono,
- cosí la nostra vita è piena di tribolazioni infinite: per la qual
- cosa, per quel medesimo nome chiamar la possiamo che questo fiume si
- chiama, il quale è Acheronte, che tanto suona in latino, quanto «cosa
- senza allegrezza»: la quale per certo è del tutto rimossa dalla
- presente vita, veggendo non essere alcuno, quantunque vecchio, che con
- veritá possa dire sé avere avuto giammai un dí intero senza mille
- angosce piú cocenti che 'l fuoco. E sopra questo fiume è una nave,
- nella quale dall'una riva all'altra sono l'anime trasportate. [È
- manifesta cosa di legni leggieri comporsi le navi, e quelle, senza
- molta acqua prendere, sopra essa dimorare]; per la qual mi pare si
- possa sentire le nostre concupiscenze, le quali, leggieri e mutabili,
- non altrimenti per la presente vita trasvolano, che facciano sopra
- l'onde le navi, e seco d'uno appetito in un altro trasportano coloro,
- li quali miseramente disiderano, né prima a riva gli pongono, che in
- perpetua perdizione gli conducono: come per essa dice l'autore, che
- Carón trasportava l'anime in perpetua doglia.
- È, appresso, di questa nave nocchiere un demonio chiamato Carón,
- bianco per antico pelo, il quale nella lettera dicemmo essere stato
- figliuolo d'Erebo e della Notte. Per lo quale assai apertamente veder
- si puote intendersi il tempo, percioché il Tempo fu figliuolo d'Erebo,
- cioè del profondo consiglio di Dio, il quale creò lui come l'altre
- cose, e non essendo avanti la creazione del mondo alcuna luce
- sensibile nel mezzo delle tenebre, le quali avanti la creazion del
- mondo erano, produsse lui come cominciò a distinguer quelle in dí
- distinti, come nel principio del Genesi si legge; e quinci, perché
- nelle tenebre prodotto fu, sentirono i poeti lui essere figliuolo
- della Notte, cioè delle tenebre. Il nome del quale Servio, _Sopra
- l'«Eneida»_ di Virgilio, dice esser «_'Charon' quasi 'chronos'_»; e
- questo vocabolo in latino viene a dire tempo. Il quale l'autore dice
- esser «bianco per antico pelo», discrivendolo dall'accidente della
- vecchiezza degli uomini, nella quale noi divegnamo canuti: e per
- questo vuol dimostrare il Tempo essere vecchio, cioè giá è lungo
- spazio stato prodotto. E nel vero assai è vecchio, percioché, secondo
- si comprende _in libro Temporum_ d'Eusebio, egli è, dalla creazione
- del mondo infino a questo anno, perseverato 6572 anni o in quel torno.
- E perciò si pone nocchiere sopra questo fiume, percioché dir si puote
- il tempo esser quello che in sé il dí della nostra nativitá ne riceve,
- e con le sue revoluzioni, avendone dalla riva del nostro nascimento
- levati, ne mena per la presente vita, qual piú e qual meno, e
- trasportalo all'altra riva, cioè al dí della morte. È vero che egli è
- qui posto dall'autore a trapassare l'anime che muoiono nell'ira di
- Dio, e ciò non è senza cagione; percioché quelle, che questa mortal
- vita finiscono nella grazia di Dio, non si dicono, secondo che i santi
- dicono, morire, ma d'una vita trapassare in altra, e quella essere
- eterna, nella quale il tempo non ha alcuna cosa a fare; percioché
- l'eternitá non patisce alcuna dimensione di tempo. De' dannati non si
- può dir cosí, percioché di questa vita vanno in morte perpetua: e
- perciò pare che il tempo abbia a determinare con certo numero d'anni o
- di dí lo spazio della presente vita, la quale per rispetto della morte
- perpetua fu a' dannati morte, in quanto finirono questa vita, la
- quale, quantunque piena d'afflizioni e di fatiche sia, è nondimeno
- beata stata a' dannati, per rispetto di quella alla quale in morte
- perpetua son trapassati.
- [Ma da vedere è quello che intender voglia l'autore per lo remo di
- questo nocchiere. È il remo un bastone lungo, col quale il nocchiere
- fa muovere la sua nave, e con esso la mena e dirizza d'un luogo ad un
- altro. Col quale remo l'autor dice questo dimonio battere l'anime, le
- quali s'adagiano nella sua nave, intendendo per questo la
- sollecitudine di coloro li quali all'acquisto delle cose temporali son
- tutti dati; percioché questa sollecitudine, dalla varietá del tempo e
- dalla qualitá delle cose imprese stimolata, non lascia alcun cupido
- sentire alcun riposo, ma igualmente il dí e la notte o in pensieri o
- in opera gli tiene occupati, e sempre con nuove dimostrazioni a varie
- operazioni gli sospigne, molesta e affligge, in guisa che, non che
- riposo prendere possano, ma elle non lasciano altrui avere spazio di
- respirare. E, se di ciò per avventura alcuno esemplo aspettaste,
- lasciando stare la sollecitudine pastorale de' sommi pontefici e le
- grandi imprese de' re, de' principi e de' signori, riguardate con
- l'occhio della mente quelle de' mercatanti, co' quali noi
- continuamente siamo: ogni piccolo movimento, ora in Inghilterra, ora
- in Fiandra, ora in Ispagna, ora in Cipri, ora in una parte e ora in un
- 'altra, sollecitando, ricordando, avvisando, li fa scrivere, non
- lettere, ma volumi a' lor compagni; e innanzi tratto sempre con
- sospetto l'apportate ricevono; ogni vento gli tien sospesi a' lor
- navili; né sí piccolo romore di guerra nasce, che essi incontanente
- non temano delle mercatanzie messe in cammino, e quanti sensali parlan
- loro, tanti fan loro mutare animi e consigli. Chi potrebbe esplicare
- quante sieno le cose, che agli avviluppati nelle cose temporali
- rompano, turbino, guastino, impediscano i desiderati riposi? Niuna
- scrittura è che appieno gli potesse mostrare. E cosí i dolenti, che
- hanno torto il disiderio della eterna beatitudine alle cose che perir
- debbono, sono nella presente vita in continua afflizione, e di qui
- trapassati alla perpetua.]
- La cagione perché questo dimonio niega di passare l'autore, puote
- esser questa: percioché egli non potrebbe ancora conducer l'autore
- alla riva opposita, conciosiacosaché ancora venuto non sia l'ultimo dí
- dell'autore, il quale ancora vivea; e appresso sentiva il dimonio
- l'autore non essere in disposizione ch'egli volesse passare per dover
- di lá dimorare, e perciò non apparteneva al ministro della divina
- giustizia, al quale è commesso di trapassare i malvagi, di trapassar
- similmente quegli che malvagi non sono e vanno per esser buoni, sí
- come l'autore andava. E però gli dice:--«Piú lieve legno convien che
- ti porti»;--volendo per questo mostrare che, quando la colpa è piú
- lieve, piú lievemente trapassi Acheronte. E quelle sono da dir piú
- lievi, le quali talvolta si posson por giuso (come puote l'uomo, che
- vive, por giú le sue colpe per la penitenza), che quelle che in eterno
- non si posson metter giú, come quelle sono nelle quali l'uomo si
- muore. E non è da credere che attualmente l'autore in inferno andasse,
- o che questo fiume o questo nocchiere e l'altre cose, che qui e
- altrove si pongono, vi sieno; ma conviensi a' nostri ingegni in questa
- maniera parlare, accioché essi con minore difficultá possano dalle
- cose attualmente discritte comprendere le spirituali, le quali per
- opera d'immaginazione o di meditazione s'intendono. Non ha la divina
- volontá bisogno d'alcuno uficiale: basta in lei semplicemente il
- volere, e quello incontanente è mandato ad esecuzione, sí come dice il
- salmista: «_Dixit, et facta sunt; mandavit, et creata sunt_». Ma
- questo noi non comprenderemmo, se in alcuni termini dimostrativi non
- ne fosse posto dinanzi quello che Iddio dispone e adopera, sí come
- nelle cose dette si può comprendere, cioè noi vivere ed essere dal
- tempo menati alla morte, e dopo quella, se male vivuti siamo, dannati.
- [E cosí possiam questa maniera, del passare in inferno, dire che sia
- per sentenza diffinitiva data da Dio, sí come da giudice il quale
- esser non può in alcuna cosa ingannato: e come quegli cotali, che da
- questa sentenza dannati sono, hanno il fiume valicato, _in rem
- iudicatam_ sono trapassati, senza dovere sperare che mai per alcuna
- cagione cotal sentenza si debba o possa rivocare: quantunque
- scioccamente Origene, per altro prudentissimo e grandissimo letterato
- uomo, mostrasse di credere Iddio alla fine del mondo dovere, non che
- d'altrui, ma eziandio de' demòni, aver misericordia, e perdonar loro e
- menarnegli in vita eterna.]
- [La seconda maniera del trapassare in inferno, cioè di valicare il
- fiume d'Acheronte, par che l'autore voglia qui essere per una spezie
- di sentenza, la quale si chiama «interlocutoria», la quale nostro
- Signore dá in questa forma: che qualunque uomo cade in peccato
- mortale, sia incontanente messo nella prigione del diavolo; ma
- nondimeno esservi con questa condizione, che, se egli d'avere commesso
- quel peccato, per lo quale è servo del diavolo divenuto, si vuole
- riconoscere, e per penitenza riconciliarsi a Dio, che egli possa cosí
- uscire della detta prigione e ritornare in sua libertá; e, dove
- riconoscer non si voglia, s'intenda in perpetuo esser dannato a dovere
- stare in quella prigione, nella quale noi miseri tutto 'l dí caggiamo,
- e all'unghie del diavolo di nostra volontá la gola porgiamo. La qual
- cosa avvenire discrive l'autore sotto questa fizione.]
- Dice adunque per se medesimo, e cosí ciascuno può per se medesimo
- intendere, che «La terra lagrimosa», cioè la presente vita, la quale è
- piena di lagrime e di miserie, «diede vento, Che balenò una luce
- vermiglia», cioè uno splendore grande in apparenza, vano e fugace sí
- come è il vento, il quale niuno può né pigliare né tenere e sempre
- fugge. E questo splendore dice essere stato balenato da questa cosa
- vana, a dimostrazione che dalla vanitá delle cose della presente vita
- nasca questa luce a guisa di baleno, il lume del quale essendo súbito,
- reca seco ammirazione, e poi subitamente si converte in nulla, sí come
- noi veggiamo avvenire de' fulgori temporali, che testé sono e testé
- non sono. Or nondimeno sono appo la nostra fragilitá di tanta forza,
- che spesse volte occupano in tanto le menti d'alcuno, e con tanta
- affezione disiderati sono, che, lasciata la debita notizia di Dio e
- dello splendore eterno, per qual è via, e per li vizi e per le
- malvagie operazioni, si trascorre in essi. Di che assai appare a
- questi cotali ogni sentimento razionale esser tolto, ed essi cadere
- nelle colpe e nelle miserie del peccato, come cade colui il quale è
- soprappreso dal sonno. E fa in questo l'autore debita comparazione:
- percioché, quantunque, peccando mortalmente, nella infernal morte si
- caggia, nondimeno è questa morte in tanto simile al sonno, in quanto
- l'uomo si può da essa destare mentre nella presente vita dimora, sí
- come nel principio del seguente canto mostra l'autore d'essere stato
- desto, ma da grave tuono; la gravitá del qual tuono possiam dire
- essere stata alcuna di quelle cose, con le quali davanti nel principio
- del primo canto del presente libro dicemmo che Domeneddio toccava i
- peccatori con la grazia operante, quando in alcuno la mandava. E
- meritamente qui possiam repetere quello che nel predetto luogo
- dicemmo, l'autore per lo sonno non essersi accorto come nella prigion
- del diavolo s'entrasse, cioè come si trapassasse il fiume d'Acheronte;
- ma, destandosi e trovandosi dall'altra parte del fiume, assai
- leggiermente conoscer si può la sua colpa e la sentenza di Dio
- avervelo trasportato. E questo trasportamento sarebbe stoltizia a
- credere che corporale fosse stato. Fu adunque spirituale, come
- spiritualmente intender si dee noi per lo peccato divenir servi del
- diavolo. E, quantunque a quegli, che in questa forma trapassano in
- inferno, sia licito, volendo, il poterne uscire, non posson però
- uscirne per tornarsi addietro per la via donde entrarono, percioché
- per lo peccato non si può di peccato uscire, come quegli farebbono che
- per quella via n'uscissono, per la quale v'entrarono; ma conviensene
- uscire per la via opposita al peccato, la quale nulla altra cosa è che
- la penitenza. E a pervenire a questa via mostra l'autore essergli
- convenuto tutto l'inferno trapassare, e di quello, per la parte
- opposita a quella onde v'entrò, esserne uscito. E questa via, se noi
- riguardiam bene, il conduce a piè del monte della penitenza, dove
- trova Catone, che a quella il drizza e sollecita.
- FINE DEL PRIMO VOLUME.
- INDICE
- I
- VITA DI DANTE
- I. Proposizione p. 3
- II. Patria e maggiori di Dante 6
- III. Suoi studi 8
- IV. Impedimenti avuti da Dante agli studi 10
- V. Amore per Beatrice 10
- VI. Dolore di Dante per la morte di Beatrice 12
- VII. Digressione sul matrimonio 14
- VIII. Opposte vicende della vita pubblica di Dante 18
- IX. Come la lotta delle parti lo coinvolse 18
- X. Si maledice all'ingiusta condanna dell'esilio 20
- XI. La vita del poeta esule sino alla venuta in Italia di Arrigo
- settimo 21
- XII. Dante ospite di Guido Novel da Polenta 23
- XIII. Sua perseveranza al lavoro 24
- XIV. Grandezza del poeta volgare. Sua morte 24
- XV. Sepoltura e onori funebri 25
- XVI. Gara di poeti per l'epitafio di Dante 26
- XVII. Epitafio 27
- XVIII. Rimprovero ai fiorentini 27
- XIX. Breve ricapitolazione 32
- XX. Fattezze e costumi di Dante 32
- XXI. Digressione sull'origine della poesia 36
- XXII. Difesa della poesia 39
- XXIII. Dell'alloro conceduto ai poeti 43
- XXIV. Origine di questa usanza 44
- XXV. Carattere di Dante 45
- XXVI. Delle opere composte da Dante 48
- XXVII. Ricapitolazione 57
- XXVIII. Ancora il sogno della madre di Dante 57
- XXIX. Spiegazione del sogno 58
- XXX. Conclusione 63
- II
- REDAZIONI COMPENDIOSE DELLA VITA DI DANTE
- (PRIMO E SECONDO COMPENDIO)
- Avvertenza 66
- I. Proposizione 67
- II. Patria e maggiori di Dante 68
- III. Suoi studi 70
- IV. Impedimenti avuti da Dante agli studi 71
- V. Amore per Beatrice 72
- VI. Dolore di Dante per la morte di Beatrice 73
- VII. Matrimonio di Dante 74
- VIII. Digressione sul matrimonio 75
- IX. Cure familiari e pubbliche 76
- X. Come la lotta delle parti lo coinvolse 78
- XI. La vita del poeta esule sino alla venuta in Italia di Arrigo
- settimo 79
- XII. Dante ospite di Guido Novel da Polenta 80
- XIII. Morte di Dante 81
- XIV. Gara di poeti per l'epitafio di Dante 82
- XV. Rimprovero ai fiorentini 82
- XVI. Fattezze e costumi di Dante 83
- XVII. Digressione sull'origine della poesia 85
- XVIII. Che la poesia è simigliante alla teologia 87
- XIX. Dimostrazione della predetta sentenza 88
- XIX bis. Perché i poeti nascondono il vero sotto fizioni 90
- XX. Dell'alloro conceduto ai poeti 91
- XXI. Carattere di Dante 94
- XXII. La «Vita nuova» e la «Commedia». Incidenti occorsi
- nella composizione di questa opera 95
- XXIII. Perché Dante compose la «Commedia» in volgare. A chi
- egli la dedicò 99
- XXIV. Altre opere composte da Dante 100
- XXV. Spiegazione del sogno della madre di Dante 101
- XXVI. Conclusione 107
- III
- COMENTO ALLA «DIVINA COMMEDIA»
- Proemio 111
- Canto primo:
- I. Senso letterale 127
- II. Senso allegorico 159
- Canto secondo:
- I. Senso letterale 195
- II. Senso allegorico 227
- Canto terzo:
- I. Senso letterale 237
- II. Senso allegorico 257
- End of the Project Gutenberg EBook of Il Comento alla Divina Commedia, e gli
- altri scritti intorno a Dante, vol. 1, by Giovanni Boccaccio
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